Fatima: una profezia ancora aperta
28 Ottobre 2007
L’intervista, apparsa su Zenit il 23 settembre 2007, a monsignor Loris Capovilla a proposito del presunto «Quarto Segreto di Fatima», invita alla riflessione.
Perché delle due l’una: o monsignor Capovilla la racconta giusta in tale intervista o non l’ha raccontata giusta allo studioso degli eventi di Fatima, dottor Solideo Paolini, che ebbe modo di avere, sull’argomento, a suo tempo informazioni «riservate» proprio da monsignor Capovilla. Oppure, terza ipotesi, non la racconta giusta il Paolini.
Ma vediamo un po’ i contorni della faccenda come li riporta Antonio Socci nel suo libro «Il Quarto Segreto di Fatima» (Rizzoli, 2006).
Alle pagine 141-142 di tale opera, Socci racconta di un duplice contatto prima epistolare e poi telefonico tra Solideo Paolini e monsignor Capovilla.
Il contatto tra i due ha origine dall’invio al Paolini da parte del prelato di un plico nel quale erano contenute le risposte a delle precise domande che lo stesso Paolini aveva in precedenza trasmesso a monsignor Capovilla in forma scritta, dopo un accordo in tal senso preso tra i due in un fugace incontro personale.
Le domande poste dal Paolini al prelato riguardavano alcune discrepanze tra la versione ufficiale e quella «ufficiosa» relativa all’apertura da parte di Giovanni XXIII, di cui Capovilla era segretario, e, successivamente, da parte di Paolo VI della busta contenente il «Terzo Segreto».
Scrive in proposito Socci: «Nel plico di monsignor Capovilla era contenuto anche un curioso biglietto autografo, dall’apparenza normalissima, che recitava: ‘14. VII. 2006 A.D. - Saluto cordialmente il dottor Solideo Paolini. Gli trasmetto alcuni fogli del mio archivio. Lo consiglio di procurarsi IL MESSAGGIO DI FATIMA, pubblicazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, Edizione Città del Vaticano, anno 2000. Cordialità benedicenti. Loris F. Capovilla’.
Era curioso che il vescovo consigliasse ad uno studioso di Fatima di procurarsi la pubblicazione ufficiale del Vaticano sul Terzo Segreto. Era ovvio che la possedesse già. Non sarà stato allora un invito a leggere qualcosa in particolare di quella pubblicazione in relazione ai documenti inviati dallo stesso Capovilla? Così l’ha interpretato Paolini e infatti ha trovato il punto, o meglio ‘la frase’ (1).
‘Controllando appunto tale opuscolo con le carte d’archivio che il segretario di Giovanni XXIII mi ha mandato, balza agli occhi’ - dice Paolini - ‘principalmente questa contraddizione: nelle sue Note Riservate con tanto di timbro, si certifica che Papa Paolo VI lesse il segreto nel pomeriggio di giovedì 27 giugno 1963; mentre il documento ufficiale vaticano afferma: Paolo VI lesse il contenuto con il sostituto Sua Eccellenza monsignor Angelo Dell’Acqua, il 27 marzo 1965, e rinviò la busta all’Archivio del Sant’Uffizio, con la decisione di non pubblicare il testo. Mi chiedo dunque: 27 giugno 1963 o 27 marzo 1965?’.
Potrebbe forse trattarsi di un errore? O la discrepanza nasconde la soluzione del giallo che fin qui abbiamo indagato? Con queste stesse domande Paolini prende il telefono e quello stesso giorno, alle ore 18,45, chiama direttamente monsignor Capovilla. Dopo alcuni saluti ‘gli faccio presente’ - racconta lo studioso - ‘il contrasto tra le sue Note Riservate e quanto asserito nel Messaggio di Fatima, cui egli stesso mi aveva rinviato. Risposta: ‘Ah, ma io le ho detto la verità. Guardi che sono ancora lucido!’.
‘Per carità, Eccellenza, ma come si spiega questa certificata discrepanza?’ A questo punto mi risponde con delle considerazioni che sembrano far riferimento a eventuali lapsus della memoria, interpretazioni di quanto si intendeva dire, al fatto che non stiamo parlando di Sacra Scrittura …Obietto: ‘Sì, Eccellenza, ma il mio riferimento è a un testo scritto (il documento ufficiale vaticano), chiaro e, a sua volta, basato su appunti d’Archivio!’.
Monsignor Capovilla: ‘Ma io giustifico, forse il plico Bertone (il testo del Terzo Segreto reso noto nel 2000, ndr.) non è lo stesso del plico Capovilla (quello che il prelato dice essere stato letto in sua presenza da Giovanni XXIII e dal prelato stesso, su richiesta del Papa, siglato con il proprio nome, ndr) …’ . E io subito, interrompendolo: ‘QUINDI ENTRAMBE LE DATE SONO VERE PERCHE’ DEL TERZO SEGRETO CI SONO DUE TESTI?’. Qui c’è stata una breve pausa di silenzio, poi monsignor Capovilla riprese: ‘PER L’APPUNTO!’.».
Adesso la promessa ‘frase’ diventa finalmente chiara. E davvero intrigante. Più che una ‘frase’ quella consegnata a Paolini è una vera bomba. Ciò che finora sospettavamo adesso viene apertamente affermato da un testimone chiave: esiste un Quarto segreto, ovvero una parte del Terzo Segreto (evidentemente il seguito delle parole della Madonna interrotte dall’ ‘etc.’) non ancora rivelata e che ha fatto un diverso percorso nei meandri delle stanze vaticane. Il segretario di Papa Giovanni lo rivela attraverso il particolare decisivo delle date e poi dicendo esplicitamente che esistono due testi diversi del Terzo Segreto».
Fin qui il racconto di Socci, relata refero di quello del Paolini.
Quali conclusioni dedurne?
Il 21 settembre 2007 a Roma, presso l’Urbaniana, è stato presentato il libro del vaticanista Giuseppe De Carli, alla presenza del cardinal Bertone, nel quale si prende posizione contro i «fatimiti», ossia coloro che, come Socci e Paolini, sostengono l’esistenza del «Quarto Segreto», ancora non rivelato e che altro non sarebbe che il commento che la Madonna avrebbe accompagnato alla visione, quella del «vescovo vestito di bianco che cade a terra come morto», rivelata da Giovanni Paolo II nel 2000.
Questo «Quarto Segreto» sarebbe, quindi, la continuazione del testo del Terzo Segreto, laddove esso si interrompe bruscamente, ed effettivamente senza senso e senza collegamento logico con la visione dell’uccisione del «vescovo in bianco», con la frase «In Portogallo si conserverà il dogma della fede, etc.».
Frase che, a detta dei fatimiti, indica chiaramente che nel resto del mondo, ovvero nella Chiesa sparsa per il resto del mondo, il dogma della fede, al contrario, sarà perduto o comunque contestato o messo a dura prova.
Insomma una crisi della fede che, pur allignando da tempo, si sarebbe manifestata apertamente a partire dagli anni sessanta del XX secolo, in coincidenza con il Concilio Vaticano II.
Tesi che spiegherebbe anche l’invito della Madonna, testimoniato da suor Lucia, a non rendere noto il Terzo segreto prima del 1960 perché solo allora sarebbe stato più comprensibile.
I detrattori della tesi dei fatimiti sostengono che questi in sostanza affermano che la Curia vaticana avrebbe clamorosamente mentito.
Ma è poi vero che l’accusa alla gerarchia sarebbe proprio questa?
Ed è poi vero che in fondo la gerarchia sia messa sotto accusa dai sostenitore dell’esistenza del «Quarto Segreto»?
Chi scrive ritiene che la gerarchia non possa aver ingannato i fedeli nascondendo un messaggio celeste di capitale importanza per la Chiesa e l’umanità intera.
Tuttavia, ci sembra anche che, a ben guardare, la tesi dei sostenitori del «Quarto Segreto», in primis Socci, non sia quella di un inganno.
Essi, in sostanza, sostengono che i testi del segreto sono due, uno con la descrizione della visione, quella poi resa pubblica nel 2000 da Giovanni Paolo II, e l’altro con il commento di questa visione. Ci sarebbero varie fondate testimonianze dell’esistenza di due distinti testi.
Tra queste, appunto, quella sopra citata di monsignor Capovilla.
Quindi non pare che si sostenga un inganno da parte vaticana ma soltanto una imprudenza commessa all’epoca di Giovanni XXIII, ovvero quella di non aver creduto agli avvertimenti del Cielo sul pericolo di una crisi di fede all’interno della Chiesa (con ripercussioni tragiche sull’intera umanità).
Avvertimenti che sarebbero stati contenuti nel testo non ancora rivelato.
Questa imprudenza avrebbe poi messo in una situazione di stallo i Pontefici successivi ed in particolare Giovanni Paolo II ed, ora, Benedetto XVI che, pertanto, si sarebbero accordati per un «dire tra le righe».
Dunque non un inganno ma un tentare da parte pontificia di far intendere la gravità della situazione interna alla Chiesa, e quindi nel mondo, senza proclamare apertamente che agli inizi degli anni ‘60 non si ebbe abbastanza fede negli avvertimenti del Cielo e senza creare allarmismi «apocalittici».
Non sembra una tesi da scartare a priori, anche alla luce dell’innegabile crisi di fede intervenuta nel post-Concilio.
Si rifletta, piuttosto, sul fatto che comunque, al di là di ogni tesi sul «Quarto Segreto», Fatima, di cui molti (incluso chi scrive) sono convinti che Medjugorie sia la continuazione, è una profezia ancora del tutto aperta.
Infatti la promessa della finale vittoria del Cuore Immacolato di Maria non si è ancora avverata: l’umanità è sempre più in caduta libera verso il nichilismo globale.
Del resto neanche la promessa sulla conversione della Russia si è ancora definitivamente avverata: se è vero che il comunismo è caduto e che la fede cristiano-ortodossa è fuoriuscita dalle catacombe, è altrettanto vero che la Russia di oggi non si è ancora convertita al ... cattolicesimo.
Infatti, la Madonna, profetizzando la conversione della Russia, non poteva non riferirsi ad una conversione al cattolicesimo o comunque ad una riunione o riavvicinamento dell’ortodossia a Roma.
Secondo alcuni poi il «trionfo del Cuore Immacolato di Maria» potrebbe alludere anche a qualcosa di più (2).
Il cardinale Bertone ha affermato che la Chiesa deve essere prudente circa le apparizioni mariane, anche quelle in corso, perché questi eventi ed i veggenti che ne sono protagonisti tendono, oggi in modo particolare, ad essere posti dai mass media sotto i riflettori e quindi ad essere trasformati in spettacoli del mediasystem.
La Chiesa fa bene, come da tradizione, ad essere prudente.
Ma ci sembra che Bertone, il quale si riferiva anche a tutte le altre apparizioni mariane che attualmente si segnalano in tutto il mondo, non tenga conto di quanto ammoniva, circa due secoli fa, nella prima metà del XVIII secolo, San Luigi Grignon de Montfort.
Il santo, ne «Il Trattato della Vera Devozione alla Santa Vergine ed il segreto di Maria», affermava che ai suoi tempi si era all’inizio di un'epoca di persecuzione alla Chiesa, che in questo tragico periodo della storia della salvezza sarebbe stata la Madonna ad aiutare i cristiani nella lotta contro
L’«antico serpente» e che pertanto si sarebbero moltiplicate le apparizioni della Vergine, soprattutto verso la fine di tale periodo.
Questo spiega anche quel «calendario mariano» che molti osservatori, come Vittorio Messori, hanno avuto modo di constatare: si tratta di una inspiegabile «coincidenza» tra le apparizioni mariane degli ultimi due secoli e i principali avvenimenti storici che hanno scandito questo periodo storico contrassegnato dalla progressiva scristianizzazione, da persecuzioni virulente alla Chiesa, da (finora) due guerre mondiali, dai totalitarismi rosso-bruni, dall’attuale neo-totalitarismo liberista succedaneo dei primi due (ossia dalla globalizzazione che sta realizzando il settecentesco sogno massonico della «repubblica universale»), dall’indotto «scontro di civiltà» nell’interesse dell’Eretz Israel con le conseguenti guerre in corso, preludio a chissà cosa nel prossimo o meno prossimo futuro.
Certi prelati dovrebbero fare uno sforzo per aprire di più il cuore al Mistero: forse un po’ più di preghiera e un po’ meno di diplomazia e di burocrazia ecclesiale non guasterebbero.
Per quanto invece riguarda Antonio Socci bisogna puntualizzare.
Del noto giornalista apprezziamo la sincera devozione mariana ma non certe sue posizioni favorevoli al cattolicesimo liberale o alla causa politica di Israele da lui quasi identificata con la causa di una Chiesa appiattita sull’Occidente post(anti)cristiano ed americanocentrico e così ridotta, come vogliono gli «atei devoti» alla Marcello Pera o alla Giuliano Ferrara o ancora alla fu Oriana Fallaci, a cappellana di corte dell’«impero statunitense».
Di Antonio Socci sono note le caratteriali intemperanze.
Pare che anche all’Urbaniana, in occasione della presentazione del libro di De Carli, pur avendo dalla sua ampie ragioni, abbia tentato, non invitato, di intervenire durante l’intervento del cardinal Bertone andando in escandescenza e sfoggiando, tra l’altro, il look del patetico visionario in maniche di camicia in mezzo ad una folla in nero e in porpora.
Spettinato, barbone, incolto, agitava - così raccontano testimoni dell’accaduto - documenti e cassette, divincolandosi dalla gendarmeria e gridando che doveva parlare con sua eminenza.
Molto triste.
Non è così che, nella Chiesa, si conducono le battaglie, pur magari sacrosante.
Anche Lutero quando affisse le sue tesi alla porta della chiesa di Wittemberg aveva qualche ragione, vista la corruzione della Roma papale dell’epoca, e pensava di fare il bene della Chiesa. Ma con certe maniere si finisce, è l’implacabile regola della eterogenesi dei fini, per danneggiare le proprie buone ragioni.
Le «buone battaglie» in tal modo ingaggiate e condotte finiscono per essere oscurate dai loro stessi sostenitori.
Forse è stata la reazione alla condanna preventiva del media sistem o forse è stato l’eccesso di impulsività «messianica» di Socci.
Il quale, non a caso, si è fatto prendere la mano dalla sua impulsività visionaria anche per la questione israelo-palestinese schierandosi completamente a favore di Israele e sostenendo, in un articolo apparso su Il Giornale 27/07/2005, con il titolo di «Israele e la Chiesa», ed ora riprodotto sul sito di Radio Maria, la fondatezza dell’esegesi che il giudaismo post-biblico più fondamentalista fa delle profezie veterotestamentarie (intese come annunci del ritorno degli ebrei dall’esilio all’Eretz Israel per l’instaurazione del promesso regno messianico di Israele).
Socci, in quell’articolo, invocò anche il documento, del 2001, della Pontificia Commissione Biblica «Il popolo ebreo e le sue scritture nella Bibbia cristiana», senza rendersi conto che in tal modo una controversa svolta esegetica come quella del citato documento, che per fortuna non ha valore di magistero indefettibile, diventava, nelle sue parole, l’alibi dello «scontro di civiltà» pro USA e pro Israele (3).
Tuttavia, al di là di Socci (del resto la tesi del «Quarto Segreto» fu con prudenza fatta propria in precedenza anche da Marco Tosatti, nel libro «Il segreto non svelato»), che la profezia di Fatima sia ancora aperta, e che lo sarà fin quando il Cuore Immacolato di Maria non avrà, come la dolce Madre Celeste ci ha promesso, trionfato, è cosa che si può tranquillamente affermare senza tema di smentita.
Luigi Copertino
1) Qui il riferimento di Socci è al primo incontro tra Paolini e Capovilla durante il quale quest’ultimo invitò il primo a mettergli per iscritto le domande con la promessa, dopo la consultazione delle proprie carte d’archivio sulla faccenda, di una risposta contenente «qualcosa, magari una frase…»: così testuale nel libro di Socci.
2) Molti, tra cui gli islamologi cattolici Louis Massignon e padre Giulio Basetti Sani o.f.m., ma anche lo scrittore cattolico Vittorio Messori (di quest’ultimo si vedano i capitoli XVI e XLIX del suo «Ipotesi su Maria», nei quali tra l’altro si mettono a confronto la devozione per Máryam Sempre Vergine del Corano con l’ingiuria di prostituta indirizzata alla Vergine contenuta nel Talmud), hanno osservato che il nome della località portoghese nella quale apparve la Santissima Vergine Maria non è casuale. Fatima, infatti, è anche il nome della figlia preferita di Maometto, alla quale, secondo un hadith il Profeta avrebbe detto «tu sarai la padrona delle donne del Paradiso, dopo Máryam» (commenta Messori: «Una superiorità, dunque, nello stesso Cielo mussulmano, di quella che i cristiani chiamano Regina Coeli»). La località portoghese delle apparizioni mariane che hanno illuminato il XX secolo deve il suo nome ad una giovane nobile fanciulla saracena, figlia del governatore del castello di Alcácer do Sal, così chiamata alla nascita dal padre in onore della figlia del Profeta. Questa nobile fanciulla rimase coinvolta nella secolare lotta che nella penisola iberica impegnava cristiani e mussulmani. Di lei infatti si innamorò un celebre paladino della Reconquista cristiana, don Golçavo Hermingués, che la sposò avendo ella accettato il battesimo. Una dolce storia d’amore interrotta però dalla precoce morte della giovane sposa. Don Golçavo, straziato dal dolore, abbandonò le armi e si fece monaco nell’abbazia cistercense di Alcobaça, dove ottenne di trasferire i resti mortali della giovane moglie. Qualche tempo dopo, l’abbazia fondò, a pochi chilometri, un piccolo monastero, superiore del quale fu nominato proprio don Golçavo, il quale fece deporre i resti mortali di Fatima nella nuova chiesa della località fino ad allora deserta e che, in tal modo, prese nome da colei che, nata mussulmana, morì esemplare sposa cristiana. Esiste tuttora una chiesa, dedicata alla Madonna, nella quale - si dice - siano state conservate a lungo le spoglie mortali della giovane Fatima. Dunque, sin dal medioevo, Dio aveva un disegno molto preciso su Fatima. Sicché non è azzardato avanzare l’ipotesi che, apparendo a Fatima, alla Cova da Iria, località che deve il suo nome ad una fanciulla mussulmana, battezzata, che portava il nome della figlia prediletta di Maometto, la Madonna abbia voluto implicitamente indicare, come effetto del futuro ma sicuro trionfo del Suo Cuore Immacolato, anche la finale conversione dei mussulmani a Cristo, Dio-Uomo (divino-umanità, del resto, secondo Massignon e Basetti Sani, già adombrata dallo stesso Corano: una verità al momento non evidente per gli islamici e che sarà loro chiara al momento dovuto, che solo Dio conosce nella Sua Infinita Sapienza).
3) Il documento della Pontifica Commissione Biblica, cui si è richiamato Socci, non è atto di magistero e rivela la motivazione della svolta esegetica, in esso contenuta, sin dalla prefazione a firma del cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, dalla quale dipende la Pontificia Commissione in questione. In tale prefazione, il cardinal Ratzinger si chiedeva se dopo Auschwitz fosse ancora possibile sostenere da parte cristiana l’esegesi dell’Antico Testamento come preparazione e prefigurazione tipica del Nuovo Testamento. In altri termini, il cosiddetto «olocausto» sembra aver dato conferma all’esegesi talmudica del giudaismo post-biblico: Israele è il messia collettivo che nei secoli soffre, fino al culmine della Shoah (da qui poi la sua pretesa unicità), per la salvezza del mondo che coinciderà con la Pace Universale conseguente al ritorno degli ebrei in Terra Santa per l’inaugurazione dell’era messianica ossia del Regno futuro di Israele sul mondo cui i popoli gentili parteciperanno nel riconoscimento del primato spirituale israelita. Ratzinger, nella prefazione in questione, anticipa la risposta di parte cattolica, post-conciliare. Il criterio esegetico usato dalla Chiesa, sin dall’epoca apostolica e patristica, è quello della «prospettiva cristologica» sulla cui base, con San Paolo e contro Marcione, è fondata l’«Unicità della Scrittura», e quindi l’unicità dell’Alleanza gradualmente sviluppata nei due Testamenti. Ciò equivale a dire che l’intera Sacra Scrittura si deve interpretare alla Luce di Cristo perché Essa parla sempre e solo di Cristo, sia nel Vecchio Testamento che nel Nuovo. Ratzinger ricorda che i Padri della Chiesa usavano dire, in proposito, che «Vetus Testamentum in Novo patet et Novum Testamentum in Vetere latet». Fin qui il magistero ratzingeriano, e della Pontificia Commissione Biblica, non fa, tradizionalmente, una piega. Dove invece si ha la svolta è nell’affermazione, contenuta nel documento in questione e messa in rilievo anche nella prefazione di Ratzinger, per la quale «la lettura giudaica della Bibbia è una lettura possibile, che è in continuità con le Sacre Scritture ebraiche dell’epoca del secondo tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente a questa» (numero 22). Con il che da una parte si ammette, contro duemila anni di contrario insegnamento ecclesiale, come legittima l’esegesi del giudaismo post-biblico e dall’altra si dà fondamento alla neo-teologia del «doppio soggetto messianico»: Cristo per i gentili ed il popolo ebraico per gli ebrei. In tale documento non si manca di ribadire, comunque, sulla scorta di San Paolo (Lettera ai Romani), la finale conversione degli ebrei ma in una prospettiva così poco chiara da dare l’inquietante impressione di rasentare, terribilmente, la prospettiva dei cristiano-sionisti americani per i quali la conversione finale degli ebrei sarebbe niente altro che il riconoscimento da parte degli ebrei dell’ebraicità «etnico-spirituale» di Cristo che tornerà a regnare, insieme con il risorto re Davide, sul popolo di Israele per inaugurare il millennio del capitolo 20 dell’Apocalisse, ossia il Regno messianico terreno promesso ad Israele come sua futura gloria sulle genti. E’ evidente il nodo epocale nel quale, come teologo ed esegeta, è costretto a muoversi Ratzinger, di cui apprezziamo sinceramente il «cuore» ossia la limpida fede e l’onestà intellettuale. Nodo rivelatosi anche nel suo ultimo libro «Gesù di Nazareth» ossia l’accettazione del metodo storico-critico, di matrice protestante, che costringe oggi la teologia e l’esegesi cattolica ad attraversare tale insidioso terreno per superarlo e ritrovare le ragioni della certezza di fede, oltre lo storicismo critico stesso. Una via, questa, scelta in età postconciliare che, se da un lato, sembra obbligata per l’esegesi cattolica sul piano scientifico (e proprio la scienza, dall’archeologia alla papirologia, dalla filologia alla critica testuale, etc., ha finito sempre più, in barba ai modernisti ed ai razionalisti, per confermare anche sul piano storico la Verità di Fede) dall’altro lato, però, presta troppo il fianco, con l’assolutizzazione della «scientificità» che poi non si riduce ad altro che a razionalismo, ad esegesi spurie come quelle protestanti o giudaico-postbibliche. Non a caso, il cardinal Carlo Maria Martini, campione dell’esegesi storico-critica e del primato della scrittura ebraica (il cosiddetto testo masoretico codificato, mediante la vocalizzazione del testo ebraico delle Scritture, dai rabbini un secolo dopo Cristo) sulla versione cosiddetta «dei Settanta» (la traduzione in greco dell’Antico Testamento effettuata un secolo prima di Cristo in età ellenistica), sulla quale ultima si fonda, però, la Sacra Scrittura cristiana (perché si trattava del testo in uso anche in Palestina ai tempi di Nostro Signore ed al quale Egli stesso si riferiva), ha criticato il citato libro di Ratzinger su Gesù ritenendolo nient’altro che l’espressione della grande fede del suo autore.
Come dire: va bene, Ratzinger ci spiega le ragioni teologiche della sua fede cristiana ma queste sono altra cosa dalla «scienza» esegetica fondata sul metodo storico-critico e sul ritorno alle Scritture ebraiche (che - si ripete - sono però posteriori a quella greca «dei Settanta»: ma il cardinale Martini, da buon modernista, sorvola su questo particolare). Alla luce di quanto abbiamo detto, si capisce perché Ratzinger/Benedetto XVI, nel discorso di Ratisbona del 2006, nell’eroico tentativo di «svegliare» la memoria di fede della Chiesa cattolica, abbia definito provvidenziale la traduzione «dei Settanta» in quanto evento preordinato da Dio al superamento della ristrettezza ancora tribale dell’ebraismo del Vecchio Testamento (il quale tuttavia già conteneva in nuce tutto lo sviluppo successivo adempiutosi in Cristo: «Vetus in Novo patet et Novum in Vetere latet») nell’Universalità del cristianesimo per mezzo dell’Universalità del Verbo Incarnato che ha assunto, con l’Incarnazione, non tanto l’ebraicità in senso etnico, per quanto Cristo sia nato senza dubbio storicamente ebreo, quanto piuttosto la Natura Umana. L’allora cardinal Ratzinger, come è noto, lavorò a stretto giro di gomito con Papa Giovanni Paolo II, un Pontefice sicuramente mariano, che lo aveva chiamato da Monaco di Baviera, dove era arcivescovo, a presiedere la Congregazione per la Dottrina della Fede. Ora, si sa, Papa Wojtyla, anche per via delle sue esperienze di amicizia giovanile prima e durante l’occupazione nazista della Polonia, ha sempre avuto atteggiamenti di ampia e caritatevole apertura verso il mondo ebraico. Non che la cosa sia una novità nella storia della Chiesa: molti Pontefici e Santi, alcuni anche Dottori della Chiesa, hanno sempre manifestato misericordia e comprensione verso gli ebrei. La differenza sta semmai nel fatto che un tempo, nell’epoca della fede sicura e certa, alla misericordia si accompagnava sempre e comunque la preghiera di intercessione per gli «increduli giudei» affinché Nostro Signore si degnasse di sciogliere la durezza del loro cuore e li conducesse tutti a Sé. Ma al di là di quelle che potevano essere le personali intenzioni di Papa Wojtyla, l’espressione che egli usò verso gli ebrei nella sua visita, del 1986, alla sinagoga di Roma, quella oramai classica di «fratelli maggiori», rimane perfettamente, a dimostrazione che lo Spirito Santo agisce per mezzo della persona del Pontefice ma oltre le convinzioni proprie dell’uomo che riveste la «tiara» pontificia, nella linea ininterrotta della Tradizione. Infatti, nell’esegesi tradizionale della Chiesa il significato della primogenitura biblica è sempre stato chiaro: nella Sacra Scrittura il primogenito (Caino, Esaù), gonfio di superbia per la propria primogenitura ed invidioso del fratello minore, è sempre momentaneamente allontanato da Dio che, sovvertendo l’ordine naturale, antepone il minore al maggiore, finché quest’ultimo, compreso il proprio peccato di orgoglio, non riconosce umilmente la propria dipendenza dal Creatore ed è pertanto riammesso alla confidenza del Padre Celeste e ricongiunto nell’amore al fratello minore. La cosa, non a caso, non sfuggì alle orecchie ebraiche che ascoltarono Giovanni Paolo II in quell’occasione. Ed infatti, qualche tempo dopo, per bocca, tra gli altri, del rabbino Riccardo Di Segni, la comunità ebraica, pur ringraziando il Papa per quell’espressione, chiese, ed ottenne, che nei raduni ecumenici si usasse nei confronti degli ebrei l’espressione «fratelli prediletti». La svolta ecclesiale inaugurata da Giovanni Paolo II, che a molti è sembrata a torto apostasia, va ben meditata alla luce di una visione teologica della storia che, sappiamo, dovrà concludersi con la conversione finale di tutta l’umanità a Cristo, ebrei compresi. Se è vero che la costante ripetizione di un insegnamento da parte di un Pontefice può costituire indizio di magistero ordinario, e nel caso di specie è indubitabile che Giovanni Paolo II ha con costanza insegnato, sebbene non ex cathedra in atti ufficiali del magistero (e questo è molto importante sottolinearlo), la sussistenza in capo ad Israele di una qualche missione, finalizzata al finale destino di salvezza di tutta l’umanità, parallela a quella di Cristo, è però altrettanto vero che affinché un insegnamento inedito di un singolo Papa si consolidi fino a costituire magistero infallibile è necessario che tale insegnamento o venga elevato al rango di dogma, ma in tal caso non si tratterebbe di insegnamento pontificio ma di una verità sempre creduta dalla Chiesa e fino a quel momento non dogmatizzata, come è stato per il caso della Immacolata Concezione di Maria, oppure è necessario che l’insegnamento inedito venga costantemente ripetuto per un periodo di tempo, non decenni ma secoli, tale da consolidarlo alla pari degli altri insegnamenti che già costituiscono il corpus magisteriale. Ebbene, la nuova attenzione del magistero verso l’Israele post-biblico, iniziata con la «Nostra Aetate» (che però si può, a ben vedere, anche interpretare nella linea della Tradizione come richiamo alla misericordia verso gli ebrei non allontanati per sempre da Dio ma, pur induriti nel cuore, ancora amati a causa dei loro padri, come insegna san Paolo) e continuata appunto da Papa Wojtyla, è ben lungi dall’essere consolidata rispetto ai precedenti duemila anni di insegnamento, alquanto diverso, risalente agli stessi Apostoli e Padri della Chiesa, i quali certamente riconoscono al popolo ebraico un ruolo post-biblico che però - secondo il loro giudizio che sarebbe temerario, ed indice di mentalità storicista, affermare condizionato dalle polemiche del loro tempo - consiste nella testimonianza della verità del Vecchio Testamento costantemente accompagnata, tuttavia, dal rischio, come sottolinea tra gli altri San Girolamo, di scambiare, per cecità spirituale, l’Impostore dei tempi ultimi per il Messia. Tragico errore che condurrà l’Israele post-biblico ad una catastrofe epocale, la fine definitiva di ogni sua mal riposta speranza messianica, nella quale la ricostruzione o il tentativo di ricostruzione del Tempio sulla spianata delle moschee a Gerusalemme sarà, probabilmente, evento centrale. Da tale catastrofe deriverà però all’Israele post-biblico la grazia, per misericordia di Dio, di aprire finalmente il cuore al riconoscimento della Divino-Umanità Messianica ed Universale di Cristo. Questo perché, pur avendolo momentaneamente allontanato da Sé, Dio non ha tuttavia definitivamente abbandonato il popolo ebreo, in quanto Egli, il Creatore, è sempre fedele alle Sue promesse di salvezza, quelle appunto fatte al tempo dell’Antica Alleanza ai padri carnali di Israele, promesse che, però, non possono realizzarsi al di fuori di Cristo. Israele oggi sembra trionfare, e gli ebrei credono che si stiano realizzando le promesse bibliche come le leggono loro, ma in realtà esso sta correndo inesorabile verso la propria nemesi spirituale e storica. Quindi, alla luce di questo disegno di Dio, per la salvezza anche di Israele, diventa del tutto lecito ipotizzare che la nuova attenzione della Chiesa, inaugurata da Papa Wojtyla, verso l’Israele post-biblico, attenzione non adeguatamente ricambiata da parte ebraica (anzi più la Chiesa si apre e più l’orgoglio israelita, come quello di chi si crede ormai padrone della situazione e vede l’avversario di un tempo, esegeticamente sconfitto ed umiliato, andare a Canossa, si inalbera), sia segno della futura (quando e come solo Dio lo sa) conversione di Israele o, meglio, di quella parte di Israele che, come dice San Paolo (Lettera ai Romani), si è indurita e la cui riammissione costituirà una «resurrezione dai morti», ossia un evento chiaramente escatologico. Certo tale situazione sta creando non lievi difficoltà al gregge del Signore, sempre più indifeso dai lupi rapaci e sempre più disperso quasi fosse senza pastori, ma, forse, anche questo fa, necessariamente, parte del misterioso disegno che Dio sta scrivendo sulle pagine della storia per la salvezza del mondo in Cristo e che sembra ormai chiaro dover esso passare anche e principalmente per una prova epocale cui la Chiesa viene ora sottoposta e dalla quale Essa rinascerà ancora più ferma nella fede di sempre.
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