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La «velocità della luce» ed il «vuoto»
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Nell’arco di tempo trascorso da quando Albert Einstein pubblicò le basi concettuali della Relatività Ristretta ad oggi, le sue ipotesi sono state sviluppate essenzialmente dal punto di vista matematico, fino a perdere completamente il già esile rapporto che le collegava alla realtà.
Non deve sorprendere allora se già lo stesso Einstein ebbe a dire a riguardo, senza mezzi termini, che: «Da quando i matematici si sono impadroniti della Relatività io stesso non la capisco più» .
Questa ironica, ma sorprendente ammissione di Einstein mette a fuoco quella che a noi sembra una contraddizione epistemologica di fondo, presente nella teoria einsteiniana, che a ben vedere proietta tutto il rigoroso quadro relativistico nell’ambito dell’ambiguità.
La contraddizione cioè relativa alla frattura insanabile che si viene a determinare, negli indirizzi intrapresi dalla fisica moderna, a partire dalla teoria eliocentrica fino alla famosa teoria di Einstein, fra modello e realtà.
Ovvero, fra il mondo come viene rappresentato attraverso i modelli scientifici, ed il mondo così come ci appare.
Tale frattura, nel caso in questione, è evidenziata dal cosiddetto «secondo postulato di relatività», che come è noto afferma la velocità finita e costante della luce, indipendentemente dalla velocità della sorgente.
Da questo presupposto fondamentale, discendono alcune problematiche, che cercheremo di mettere a fuoco.

Cominciamo con il rilevare che in base al secondo postulato della relatività la velocità della luce è divenuta una costante fisica universale, il cui valore  insuperabile, se da una parte costituisce un limite necessario imposto dalla stessa teoria, dall’altra esclude di principio il carattere unitario dell’Universo.
Infatti, se le distanze che separano gli oggetti celesti sono di gran lunga maggiori della più grande velocità possibile, se ne deduce l’immagine di un universo frammentato, scoordinato, tutto sommato incomprensibile, poiché di fatto è impedito ad una qualsiasi sua parte di essere compartecipe del Tutto in cui essa è immersa.
D’altronde, è la stessa minuziosa definizione di contemporaneità fornitaci da Einstein, nell’articolo pubblicato nel 1905, a negare paradossalmente il fenomeno che vorrebbe definire, ovvero la contemporaneità degli eventi distanti.
Infatti, se la luce non è immediata nella sua propagazione, dal momento che possiede una velocità finita, allora due eventi distanti a piacere potranno conoscere la loro eventuale contemporaneità non istantaneamente, ma attraverso una ricostruzione a posteriori, proprio perché la luce, di principio, impiegherà sempre un arco di tempo, per quanto minimo, per fornire l’informazione richiesta. Mentre invece è contemporaneo ciò che avviene in un solo istante, non in due.
Due istanti infatti definiscono un intervallo di tempo, ovvero una successione temporale.
Pertanto: «se la teoria della relatività speciale è vera, l’universo non esiste in un istante in modo oggettivo come avveniva nella teoria newtoniana».
La sua immagine infatti diventa funzione delle condizioni dinamiche dell’osservatore, limitate dal principio della velocità finita della luce.
Di conseguenza, il «senso comune», che ci indica l’esistenza simultanea degli eventi che accadono intorno a noi, anche di quelli più lontani, il cosiddetto presente cosmico, è del tutto privo di senso nella prospettiva einsteiniana.
E questa conclusione, non è di poco conto.

Einstein, nel definire le basi della propria teoria, idealizza la luce, attribuendole proprietà che esulano dalla comune nozione di velocità, aprendo nel contempo la strada a conclusioni metareali. Fra queste, il cosiddetto «anno luce», presunta distanza percorsa da un raggio di luce in un anno. Ebbene, l’anno luce non rappresenta una grandezza effettivamente fisica, ma corrisponde ad un «metro ideale» attraverso il quale vengono calcolate le distanze che separano gli oggetti celesti. Calcolate, non misurate.
Infatti, un conto è misurare una qualunque distanza in modo diretto, mediante l’ausilio di un metro campione rigido, altro è proiettare nello spazio un ente di ragione, considerandolo però al pari di un regolo rigido.
In ordine a tale distinzione, i risultati che si ricavano attraverso l’impiego della suddetta entità ideale non dovrebbero essere considerati alla stregua di quelli determinati attraverso campioni di misura effettivi, proprio perché altro è misurare, altro è calcolare il valore di una misura, che in tal modo rimane sempre presunta.
Ribadiamo dunque che l’anno luce rappresenta un’invenzione matematica, ricavata sulla carta, che in sé non esiste, ma che pur tuttavia viene applicata per misurare la realtà celeste, come se effettivamente esistesse.
Peraltro, dal punto di vista fisico, l’anno luce sembra non rispettare la ben nota legge di Lambert, anche detta del coseno, che afferma essere l’intensità di illuminazione inversamente proporzionale al quadrato della distanza della sorgente.
Vale a dire che, ad una distanza di metri 3, 4, 5, n, l’intensità luminosa di una sorgente diminuisce rispettivamente di 9, 16, 25, n2 volte.
L’effetto previsto dalla legge del coseno di Lambert è ben noto, e può essere verificato in modo semplice nella proiezione delle immagini sugli schermi.
Allontanando lo schermo, l’immagine si affievolisce e «sbianca» del tutto, fino a svanire.
Non è possibile dunque che un fiotto di luce si mantenga compatto, senza diminuire di intensità durante la sua propagazione nello spazio reale, addirittura nell’arco di un anno, dal momento che la luce, mentre si propaga, si esaurisce.
E’ come se il metro utilizzato si dileguasse fra le mani, durante una misurazione diretta.
Pertanto, proprio perché la luce, dal punto di vista fisico, mentre si propaga si espande e si affievolisce, non può essere utilizzata come regolo effettivo per determinare le distanze celesti, senza che questa utilizzazione non comporti una qualche devianza.
Occorre pertanto considerare la possibilità che le attuali distanze cosmiche, ricavate mediante l’impiego di questo astratto campione di misura, siano anch’esse astratte, e non corrispondano alle distanze effettive del cosmo, che in quest’ottica risulta come dilatato.

Il concetto stesso di velocità, se attribuito ad un ente particolare come la luce, deve essere vagliato attentamente.
Infatti, che senso possiamo conferire alla cosiddetta velocità della luce che, essendo di principio sempre costante, presuppone in ogni istante, anche in quello iniziale del moto, un’accelerazione sempre nulla?
E’ infatti in questo attimo cruciale che si verificherebbe il «salto» dallo stato di quiete del raggio di luce (se così si può dire), a quello di moto; e questo, in modo discontinuo, dal momento che la velocità sale immediatamente, senza accelerazione, da zero al valore massimo c.
Tale variazione, ribadiamo, non avviene in un intervallo di tempo, ma in un istante, che di per sé non ha durata, e dunque è «fuori» dal tempo.
Ma così come l’istante è fuori dal tempo, poiché non ha durata, anche il corrispondente spazio che la luce percorrerebbe nell’istante, è altrettanto non valutabile, dal momento che si ridurrebbe ad un punto, che da parte sua è senza parti ed estensione, e quindi «fuori» dallo spazio.
Le problematiche relative a quell’entità che noi genericamente chiamiamo «luce» sono dunque notevoli.
Per questo, i filosofi medievali ne avevano definito gli aspetti fondamentali, cercando di distinguerne i vari comportamenti.
Pensiamo allora che valga la pena soffermarsi su alcune interessanti riflessioni che il premio Nobel per la fisica, Percy William Brigdman, sollevò a riguardo della cosiddetta velocità della luce.
Noi sappiamo che la luce acquista una realtà in funzione degli oggetti che essa illumina: «La luce non significa altro che cose illuminate».
L’esperienza mostra appunto che noi non sperimentiamo mai la luce in se stessa, ma attraverso le sue interazioni con la materia.
Ed è in base a questa esperienza che siamo indotti a credere che la luce viaggi e si propaghi nello spazio, come un qualunque oggetto naturale.
Anche se vi è una differenza fondamentale fra il movimento di un oggetto materiale ed il movimento della luce.
Infatti, noi possiamo vedere e controllare un oggetto ordinario durante le sue fasi del moto.
La luce invece la possiamo «vedere» solo se frapponiamo nel suo tragitto dei corpi opachi.
Tuttavia, nulla sappiamo di che cosa avvenga negli spazi bui che separano gli oggetti che rivelano la luce, assorbendola.
Brigdman giunge alla conclusione che: «la luce come cosa che viaggia è soltanto un’invenzione». Per questo motivo: «le proprietà della luce appaiono contraddittorie e incoerenti quando si cerca di immaginarle in termini di oggetti materiali», come appunto fece Einstein.
Specialmente nella versione divulgativa della relatività, dove cercò di dare un senso fisico alla sua particolare teoria utilizzando esperienze mentali farcite di treni, banchine, osservatori ideali.


Rileviamo a questo punto quello che potrebbe sembrare un vero e proprio circolo vizioso presente in questa famosa teoria, in ordine alla questione dell’etere luminifero, ipotetico mezzo nel quale si pensava dovesse propagarsi la luce, e che rappresentava «per così dire, come la personificazione di uno spazio assoluto».
Riguardo a questo enigmatico mezzo, Einstein scrisse che: «Mostrando l’equivalenza fisica di tutti i sistemi inerziali, la teoria della relatività ristretta ha mostrato l’insostenibilità dell’ipotesi di un etere in quiete».
Egli infatti non fece ricorso a tale mezzo per elaborare la sua teoria.
Però ne utilizzò un altro, altrettanto enigmatico: il «vuoto».
Einstein, nelle pagine iniziali del suo famoso articolo del 1905, introdusse la grandezza c come costante universale, corrispondente alla velocità della luce nel vuoto.
Tuttavia, egli trascurò di specificare cosa debba intendersi per «vuoto».
E’ probabile che egli lo abbia inteso in senso generico di spazio vuoto, o spazio euclideo, omogeneo ed isotropo.
Ma questa interpretazione non è corretta, dal momento che lo spazio vuoto costituisce un’astrazione, mentre la luce rappresenta un ente fisico reale.
Ed è assurdo affermare che un ente reale possa propagarsi in un ente di ragione.
A meno che si identifichi, come fece erroneamente Hegel, il reale con il razionale.
Hegel che accolse nel suo sistema tutti gli elementi della logica di Eraclito.
Del quale si narra che, dopo essersi ricoperto di sterco, si lasciò divorare dai cani, nella piazza di Efeso, in preda alla follia.
Benché Einstein abbia sorvolato sulla questione, il concetto di vuoto è problematico, non meno di quello di etere luminifero, e si presta a molte interpretazioni, alcune delle quali esulano dall’ambito della pura scienza: il buddismo zen ad esempio identifica il vuoto con l’illuminazione interiore. Peraltro, in modo enfatico, è stato scritto da un fisico francese che: «In fondo ci sono due modi di dipingere il vuoto: come forma geometrica o come fiore. Il vuoto geometrico, quello di Einstein, all’inizio era vuoto e piatto. Egli vi mise la materia; allora lo spazio-tempo si incurvò e gli fece l’inchino. La luce avanzò diritta insieme alle curve, conferendo alla relatività generale la sua inusitata bellezza… Il vuoto fu pieno di tutto ciò che doveva nascere».
Osserviamo pertanto che, dal punto di vista logico, lo spazio vuoto non coincide con il «vuoto», così come una mela rossa non coincide con il «rosso».
Ed Einstein, nel definire il II postulato di relatività, sottintende il vuoto proprio come una qualità dello spazio, il quale, come un contenitore, può essere o pieno o vuoto.
Ma il vuoto in sé esula da questa interpretazione, perché trascende sia il contenitore che il contenuto.

Scrive peraltro Brigdman: «Non possiamo misurare la distanza tra due punti dello spazio vuoto, perché se lo spazio fosse vuoto non vi sarebbe nulla con cui identificare la posizione degli estremi del metro quando lo spostiamo da una posizione alla successiva».
Questa affermazione in senso lato significa semplicemente che il vuoto in sé non può contenere oggetti, né tanto meno essere attraversato da qualsivoglia elemento.
Se infatti la luce si propagasse nel vuoto, allora questo non sarebbe più tale, dal momento che il vuoto non può né contenere, né essere contenuto.
La luce dunque non può propagarsi nel vuoto, poiché questo non può contenere altro al di fuori di sé.
Il famoso detto medievale «natura horret vacuum», la natura ha orrore del vuoto, va considerata proprio in chiave metafisica: non può esistere, ciò che non è.
Pertanto, visto che non possiede alcuna relazione con l’essere, il vuoto non può esistere nella dimensione dei fenomeni fisici.
La luce dunque non può propagarsi nel vuoto, come invece affermò Einstein, perché il vuoto, in tale accezione, non essendo, non esiste.
Einstein, al contrario, considerò il vuoto come entità reale, e l’etere come entità metafisica, inesistente.
Infatti, per quanto riguarda la questione dell’etere luminifero, non rilevato dall’esperienza di Michelson e Morley: «La posizione di Einstein nel 1905 era grosso modo la seguente: l’etere non esiste, quindi non ha alcun senso parlare di movimento rispetto al nulla».
In chiave dialettica, il famoso scienziato contrappose all’etere il vuoto, negando l’esistenza dell’uno ed affermando quella dell’altro.
Ma in realtà sempre appoggiandosi all’idea superiore di spazio assoluto e geometrico, da lui implicitamente identificato al vuoto.
Einstein dunque diede per scontato che la luce si propagasse nel vuoto, tralasciando di spiegare cosa debba intendersi per vuoto che, in base a quanto detto, si dimostra una entità non trascurabile, sulla quale anzi si poggia tutto l’edificio relativistico.
Infatti, negando il vuoto si nega che la luce possa propagarsi in esso.
Ma affermandolo, occorrerebbe che si specificasse la sua natura.
Il famoso scienziato, nella sua ardua elaborazione teorica, sembra essersi soffermato meticolosamente su molti, pur importanti, dettagli, non prendendo in considerazione però la «trave» presente nei fondamenti della sua teoria, che per tale ragione risulta sostanzialmente ambigua. Pertanto, il fatidico spazio assoluto, un tempo raffigurato dall’etere luminifero, apparentemente scacciato dalla porta, rientra dalla finestra, nell’ambito della stessa teoria, sotto l’invisibile parvenza del «vuoto».

La contraddizione connessa al secondo postulato di relatività ristretta diventa evidente nel momento in cui lo stesso scienziato, dopo aver stabilito in modo formale che la luce viaggi a velocità finita nel vuoto, ed aver posto tale principio a base del proprio sistema, afferma correttamente che: «la velocità della luce è praticamente infinita dal punto di vista dell’esperienza quotidiana».
Dunque, allo stesso ente, la luce, Einstein fa corrispondere una doppia immagine: quella formale e quella in realtà percepita; quella relativa al modello scientifico, e quella propria dell’esperienza quotidiana.
Tutto l’edificio relativistico, di conseguenza, sembra essere fondato sull’antinomia finito-infinito, tipicamente pitagorica, riferita alla velocità della luce.
Può essere allora interessante rilevare che questo doppio aspetto relativo alla velocità c, teoricamente finita, praticamente infinita, corrisponde ad una violazione del principio di non contraddizione.
La luce infatti nelle prospettiva einsteiniana risulta avere contraddittoriamente una velocità al tempo stesso finita, nel modello, e infinita, nella realtà.
Michele Malatesta ha rivalutato ed applicato un importante teorema della logica classica, detto dello Pseudoscoto, per dimostrare l’inconsistenza della dialettica hegeliana, attraverso il linguaggio analitico proprio della logica formale.
Tale teorema afferma che se si pone la contraddizione alla base di una affermazione, si può trarre da questa qualunque conclusione.
Precisamente, afferma Malatesta: «Se in un sistema compare anche una sola contraddizione, non solo non si distinguono più le tesi appartenenti al sistema e le tesi non appartenenti perché tutte le tesi apparterranno al sistema - e questo comporta il crollo del sistema in sede sintattica, ma - cosa ben più grave in sede semantica - si possono dimostrare tesi il cui senso non ha nulla a che fare con il senso delle premesse. In poche parole, se si assume una contraddizione, oppure compare una contraddizione a un certo punto del sistema, non vi è che una sola conseguenza: lo sragionamento radicale».
Se dunque la velocità della luce è al tempo stesso finita e infinita, così come si evince dalle dichiarazioni di Einstein, la teoria della relatività è come fondata su una contraddizione iniziale che, come scrive San Tommaso, nel prologo del «De ente et essentia», non può che condurre ad un grande errore finale.

Alla luce delle precedenti osservazioni, sembra proprio che con la propria teoria, Einstein abbia cercato di sostituire la realtà sensibile con una sua immagine artefatta, «sognata ad occhi aperti» da una mente fortemente analitica.
In questa sostituzione, le strutture elaborate per formalizzare l’evento fisico prendono il sopravvento sullo stesso fenomeno, che viene ridotto a semplice illusione.
Il celebre scienziato si inoltrò pertanto nei raffinati rivoli di un astratto formalismo geometrico, con l’ambizione di ingabbiare il mondo naturale negli stretti ed univoci gorghi di una ragione esclusivamente matematica.
Ma forse proprio perché la Relatività corrisponde nella sua essenza ad un elaboratissimo gioco di animazione mentale, attraverso il quale si cerca di dare ad un sistema astratto un significato effettivamente fisico, lo stesso Einstein, in una confidenza a Philipp Frank, definì in modo burlesco
la propria teoria: «uno scherzo ben riuscito!».

Giancarlo Infante


R. W. Clark, «Einstein», Rizzoli, 1976, pagina 140.
«Ogni raggio di luce si muove nel sistema di coordinate ‘in quiete’ con la determinata velocità c, indipendente dal fatto che quel raggio di luce sia emesso da un corpo in quiete, o da un corpo in movimento. Con ciò è Velocità = Percorso della luce /  Durata del tempo», Albert Einstein, «Sull’elettrodinamica dei corpi in moto, in Cinquant’anni di relatività», traduzione di P. Straneo, Firenze 1955, pagina 482.
G. Boniolo e M. Donato, «Dalla relatività galileiana alla relatività generale», in Filosofia della fisica, a cura di G. Boniolo, Bruno Mondadori, 1997, pagina 44 e seguenti.
L’anno luce, distanza percorsa da un anno da un raggio di luce, corrisponde ad un valore di circa 9, 4605 x 1012 km.
La legge di Lambert afferma che l’intensità di illuminazione prodotta da una sorgente luminosa su uno schermo è direttamente proporzionale al numero di corpuscoli che in ogni secondo colpiscono
la superficie unitaria; e quest’intensità d’illuminazione è inversamente proporzionale al quadrato della distanza dalla sorgente: L = I cosa / r2.
Confronta P. E. Amico-Roxas, «La suprema armonia dell’universo», Editrice Kemi, Milano, 1990, pagine 40-46.
«Gli autori dei trattati di ottica distinguono lux, cioè la natura della luce considerata nella sua fonte: il raggio (radius) che è l’analogo diametralmente generato nell’ambiente dalla sorgente luminosa; lumen, o la luce diffusa in maniera sferica nell’ambiente dai raggi luminosi; splendor, cioè lo splendore degli oggetti tersi resi brillanti dalla luce», É. Gilson, «La filosofia nel Medioevo», La Nuova Italia Editrice, Scandicci, Firenze, 1994, pagine 515 e 516.
P. W. Brigdman, «La logica della fisica moderna», Boringhieri, Torino, 1965, pagina 152.
Ibidem, pagina 154.
Ibidem, pagina 163.
Confronta Albert Einstein, «Relatività esposizione divulgativa», Boringhieri, Torino, 1964, pagine 34-38.
Ibidem, pagina 174.
Ibidem, pagina 177.

 

 
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