Pakistan cresce: l’influenza cinese
18 Luglio 2007
Nei giorni in cui l’esercito pakistano soffocava nel sangue la rivolta islamista della Moschea Rossa, l’8 luglio, ignoti militanti uccidevano tre cinesi, gestori di una bottega presso Peshawar, nella turbolenta provincia della Frontiera del Nord-Ovest.
L’esecuzione è stata interpretata come una ritorsione dei fanatici islamisti contro Musharraf.
Ma non è la prima volta che a fare le spese della rovente crisi pakistana sono dei cinesi.
Il 23 giugno, altri «studenti» di una madrassa collegata alla Moschea Rossa hanno sequestrato ad Islamabad, la capitale, 23 cinesi, fra cui sei donne, che gestivano una casa di massaggi, ossia - per i militanti - un centro di prostitute.
Pechino ha elevato una robusta protesta diplomatica: poche ore dopo, i 23 erano liberi e salvi.
Anche dopo il triplice omicidio dell’8 luglio l’ambasciatore cinese in Pakistan, Luo Zhaohui, ha rudemente intimato al governo pakistano di «catturare i colpevoli e prendere misure per proteggere i connazionali», mandando inoltre una delegazione a collaborare con la polizia pakistana.
Un atteggiamento esplicitamente «padronale», raro in un rapporto che il presidente cinese Hu Jintao suole definire «più dolce del miele».
Si dice addirittura che Musharraf abbia ordinato l’assalto alla Moschea Rossa - dopo aver acceduto a intavolare trattative con gli insorti - perché infuriato dall’eccidio gratuito dei tre cinesi.
Il fatto è che il generale sta costruendo una solida cooperazione con Pechino, anche in preparazione del giorno in cui il pesante protettorato americano sul Pakistan verrà meno, sia per un mutamento della politica USA col nuovo presidente nel 2008, sia in vista del declino dell’egemonia statunitense nell’area.
Già oggi in Pakistan lavorano 8.500 cinesi, il triplo delle presenze americane.
Di questi, cinquemila hanno aperto negozietti di una qualunque Chinatown; gli altri 3.500 sono però impegnati in grandi opere finanziate dalla Cina.
Gli investimenti cinesi in Pakistan sono cresciuti di colpo dopo l’invasione americana in Afghanistan, ed oggi hanno raggiunto i 4 miliardi di dollari.
Delle 500 imprese straniere operanti nel Paese, il 12% sono cinesi.
Il più grosso progetto - iniziato nel 2002, con stanziamento congiunto di 1,6 miliardi di dollari - è la costruzione del porto a Gwadar, un paesello sulla costa del Baluchistan che si sta trasformando in una base navale militare e commerciale di evidente importanza strategica per la protezione delle rotte delle petroliere che portano il greggio dal Golfo Persico alla Cina.
Lavorano lì oltre 500 ingegneri e tecnici cinesi.
In cambio, Musharraf ha perseguito energicamente i ribelli musulmani dello Xinjiang, la regione cinese dove l’Islam è maggioritario.
Qui, 150 milioni di uiguri turcofoni si mostrano sempre più insofferenti del tallone di Pechino, ed hanno collegamenti con le comunità sorelle di Uzbekistan e Tagikistan.
Per di più, dallo Xinjiang o «Uiguristan» si può riparare facilmente in territorio pakistano attraverso l’antica Via della Seta, oggi carrozzabile del Karakorum.
E difatti uno dei più temuti capi della ribellione uigura, Hasan Mahsun, dteto «il bin Laden cinese», aveva trovato rifugio nel Sud Waziristan, la zona tribale pressochè incontrollabile dove gli americani dicono si rifugi «Al Qaeda» e dove effettivamente regnano i talebani cacciati dall’Afghanistan. (1)
Un luogo sicuro per il ribelle, dunque.
Eppure, il 2 ottobre 2004, un commando pakistano ha ucciso Mahsum liberando Pechino da un incubo.
Pochi giorni dopo il 9 ottobre, gli islamisti hanno per ritorsione catturato due tecnici cinesi, uno poi ucciso e l’altro gravemente ferito in un fallito tentativo dell’esercito di liberarli.
Là in quella zona pericolosa e senza precise frontiere si incontrano gli interessi cinesi e pakistani.
Il Pakistan sta spendendo 1.66 miliardi di dollari per allargare la carrozzabile del Karakorum onde renderla adatta al traffico pesante commerciale con la Cina.
Pechino ha stanziato 88 miliardi di dollari per «sviluppare» lo Xinjiang: non allo scopo di alleviare la miseria di quella popolazione miserabile, che sopravvive producendo uva secca e cocomeri, ma perché lo Xinjiang ha nel sottosuolo riserve, ritenute notevoli, di petrolio e di gas.
E il Sud Waziristan è uno dei rari luoghi del mondo ricco di uranio naturale sfruttabile.
Un futuro di collaborazione energetica albeggia per le due potenze asiatiche.
Non per caso dal 2004, dopo il rapimento dei due tecnici cinesi, il Pakistan ha piazzato, nella zona tribale wazira, presso la mal guardata frontiera con l’Afghanistan (la linea Durand) almeno 80 mila uomini.
La spesa, enorme, è in parte pagata - ironia della politica - da Washington, che ha versato al Pakistan un miliardo di dollari per la «lotta al terrorismo globale» incaricandolo appunto di bloccare quella zona per impedire le infiltrazioni di guerriglieri stranieri di «Al Qaeda» in Afghanistan.
Musharraf non ha esitato ad attaccare, al principio del 2007, oltre 300 «stranieri di Al Qaeda» che risultano essere, guarda la coincidenza, Uzbeki e Uiguri sospettati di esfiltrare da lì nello Xinjiang.
I pochi sopravvissuti sono riparati nel Waziristan del Nord, dove hanno affiancato gli infiltrati talebani in Afghanistan.
In pratica, Musharraf ha intascato i quattrini e poi stretto una serie di accordi di non-belligeranza coi talebani che controllano l’area tribale e che vede come possibili alleati di un nuovo Afghanistan liberato dal loro ritorno.
Se fa qualcosa di concreto, è per proteggere gli interessi di Pechino.
I due Paesi sono alleati naturali e storici: contro il tradizionale nemico comune, l’India, Pechino ha da decenni sostenuto Islamabad anche con forniture militari.
Oggi il pericolo indiano è cresciuto agli occhi della due capitali perché Delhi, salutata dagli USA come alleata, ha aperto la sua prima base militare all’estero della storia, e precisamente in Tajikistan.
Un fatto senza precedenti che destabilizza ulteriormente (per volontà americana) la già poco stabile «hearthland» centro-asiatica.
E spinge Cina e Pakistan ancor più fortemente nelle braccia l’uno dell’altro: i conti saranno poi regolati con l’India quando i diavoli bianchi anglo-americani, ineluttabilmente, se ne andranno con le pive nel sacco.
Dal 2001, ossia dall’inizio della presenza USA in Afghanistan, Cina e Pakistan hanno stretto un importante accordo di cooperazione «culturale, linguistico, turistico» (sic) con corsi di istruzione culturale e di lingua che l’un Paese ha insediato nell’altro.
Quest’anno la cooperazione «culturale» è stata rafforzata da un accordo commerciale di vasta portata, che punta ad accrescere l’interscambio fino a 15 miliardi di dollari l’anno, non tanto meno dell’interscambio fra USA e India, che vale 20 miliardi.
Insomma l’imperialismo demenziale di Bush, che voleva accelerare l’egemonia americana nell’Asia Centrale, sta accelerando il processo che la espellerà.
Gli islamisti fanatici (o pagati?) sono gli unici alleati di fatto degli USA, perché almeno stanno provando a disturbare l’avvicinamento Islamabad-Pechino.
Il 3 maggio del 2004 hanno ammazzato tre tecnici cinesi a Gwadar, il porto strategico in costruzione; il febbraio 2006 hanno massacrato altri tre tecnici cinesi a Hub, una città industriale del Baluchistan, dove sorge anche Gwadar.
Secondo i servizi pakistani, gli eccidi mirati sarebbero opera di una fantomatica e mai prima conosciuta «Balochistan Liberation Army», che dichiara di lottare per l’autonomia della regione, il controllo delle sue risorse e della costa (strategica per la Cina).
Musharraf ha stanziato là, come risposta, quasi un terzo dell’intera forza armata pakistana.
A protezione dei cinesi e in attesa del sospirato giorno della «liberazione» da Bush.
1) Tarique Niazi, «Beijing keeps Islamabad honest», Asia Times, 18 luglio 2007.
Nessun commento per questo articolo
Aggiungi commento