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Civiltà scomparse
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Quando ero piccolo, erano soprattutto le bambine a giocare al «gioco del mondo».
Si faceva così: col gesso, tracciavano un quadrato (o un rettangolo) e lo dividevano assialmente
con una croce in quattro quadrati; sopra a questo, tracciavano un semicerchio.
Il gioco consisteva nel saltare su una gamba sola nei quadrati, senza calpestare i segni di gesso;
ma non ricordo le regole se non confusamente.
Molti anni dopo, ho appreso che questo «gioco» era un ricordo del rito sacro di fondazione
delle città, risalente almeno al Neolitico.
Il quadrato era il tracciato della «urbs quadrata», perché sotto il segno insieme del virile
e delle stelle fisse (come le stelle, il quadrato è la forma più «fissa»); la crociera interna segnava
il cardo e il decumanus, sempre presenti nell’accampamento delle legioni.
Il «mundus», da cui prendeva nome il gioco, era la zona semi-circolare: perché posta sotto il segno della luna e del femminile, di ciò che circolarmente torna, come le stagioni, le fasi lunari
e mestruali.
Micene, la città di Agamennone, dispone di un «mundus», luogo di sepoltura dei comuni mortali;
i nobili, i patrizi, avevano le loro tombe a tholos.

Per fondare Roma, Romolo e Remo giocarono al gioco del mondo.
Non tracciarono i confini col gesso, ma con l’aratro: e il gioco era crudele, perché contemplava
il sacrificio del perdente; Romolo uccise il fratello, l’altro se stesso, per aver violato saltando
(su un piede solo? Ritualmente?) il confine ormai sacro.
Se questo segnasse anche la nascita della cittadinanza, ossia la fine dei legami naturali di sangue - ucciderai anche tuo fratello, se viene contro la città - si può solo immaginare.
I giochi dei bambini conservavano (prima che la TV li smemorasse) una memoria antichissima.
Ma come mai un rito tremendo dell’età della pietra era rimasto come gioco?
Il motivo non può essere che questo: nel passato scomparso, preistorico, il rito era «anche» gioco:
i due elementi si univano nella festa.
I giochi di palla non hanno origine diversa, come mostrano le tremende partite di pallone dell’America pre-colombiana, che si concludevano con il sacrificio di una delle due squadre.

L’albero della cuccagna, che ho visto «giocare» dai contadini in Toscana con salumi che baldi giovanotti salivano a prendere, o l’analogo «gioco» della pentolaccia (era appesa al palo una pentola di terracotta piena di dolciumi, che bambini con gli occhi coperti dovevano rompere con pertiche), discendono da un rito più primordiale ancora: così lo sciamano siberiano, mascherato da cigno
del Nord, posto in trance da ritmi precisi e forse da droghe, saliva su un palo,
da cui «vedeva» ciò che era invisibile allo stato normale dell’uomo desto.
Ciò, perché lo stregone saliva nei «cieli», il terzo o il settimo.
I cieli sono il luogo dell’abbondanza: simboleggiati dai prosciutti e dalle caciotte appese.
C’era molta allegria, attorno a questi avvenimenti: e sono convinto che questo fosse lo stato d’animo «originario», nei riti delle numerose Atlantidi preistoriche.

Complessi riti d’iniziazione, di fondazione o di consacrazione, erano immersi nell’aria eccitata
di una festa - ed è quest’aria che è passata nei secoli ai bambini (di prima della TV), e li ha indotti
a conservare questi indizi di tradizioni perdute: il ricordo che, «allora», ci si divertiva mentre
si recitava il rito: il contrario della mutria borghese con cui i protestanti recitano il loro, e sempre più noi cattolici i nostri.
Le splendide pitture rupestri aurignaciane, dove ignoti Michelangelo hanno dipinto 40 mila anni
fa bisonti e cavalli selvaggi e cervi di vivacità pittorica naturalistica suprema, erano parte di un rito-festa preparatoria alla caccia: si chiedeva perdono all’animale che si sarebbe ucciso il giorno dopo, e ci si divertiva ritualmente a centrare l’animale affrescato con palline di creta (ne sono rimaste):
il tutto forse, nell’ambito di una incubatio che consentiva ai cacciatori-iniziati di penetrare
nelle caverne abitate dall’orso speleaus, senza esserne aggrediti.

Vi sono bambini di tribù africane che hanno questo rapporto paranormale coi coccodrilli:
loro possono bagnarsi nello stesso fiume senza esserne divorati.
L’Africa conosce uomini-leopardo, uomini-sciacallo: riti stregoneschi, con simili poteri paranormali in gioco.
Certe fiabe recano la stessa memoria primordiale: divertenti anche se fanno paura.
Pollicino, mandato dai genitori nel bosco con i fratellini: qui è il ricordo di un rito primordiale
e per noi atroce, di cui Roma arcaica aveva ancora il ricordo: il ver sacrum.
Quando la terra s’impoveriva e i raccolti non bastavano più a nutrire la tribù (evidentemente,
il ver sacrum si «giocava» prima della scoperta della rotazione agricola), gli adolescenti maschi venivano ritualmente allontanati: andassero nella foresta a cercarsi un’altra terra; per espiazione
di quest’atto, il raccolto di quell’anno non veniva mietuto, ci si infliggeva ancora più fame.
Doveva essere un rituale funerario: gli adolescenti espulsi erano trattati come morti,
se ne confondevano le orme perché non tornassero (Pollicino torna una volta seminando pietruzze bianche; poi semina briciole di pane, e gli «uccelli» - spiriti - divorano la traccia).

I bambini ovviamente avevano paura di questa fiaba: come?
Mamma e papà mandano a perdere i loro figli piccoli?
Perché non hanno da mangiare?
Eh sì, questa era la vita del neolitico, la dura crudele realtà: ver sacrum, che per il senso pregnante di sacrum possiamo tradurre come «maledetta primavera».
Paura e delizia insieme doveva essere anche il sentimento dei ragazzi arcaici, espulsi.
La banda giovanile, dove tutti erano «fratelli» perché della stessa generazione (siamo prima
della famiglia genitoriale), «morta» alla tribù d’origine, si andava a conquistare una terra,
a combattere contro «mostri» nella foresta.
Erano  mascherati con maschere orribili di animali, armati di lance, ed erano tremendi teppisti
per sacro dovere e per gioco: non camminavano, ma danzavano avanzando nell’ignoto (1).
Dovevano rapire donne altrui (come nel ratto delle Sabine), e rubare bestiame: nei Veda più arcaici il dio Rudra dai capelli biondi (poi si chiamerà Shiva) capeggia una banda di teppisti divini come lui, dediti all’abigeato e all’ubriachezza con il misterioso «soma», non identificata radice intossicante.
E il soma era la bevanda che metteva in comunicazione con gli dei.

Così, espulsione dopo espulsione rituale, spinti dalla fame e dal gioco della guerra, dovettero espandersi i popoli indo-europei.
Festa, caccia e guerra erano allora indifferenziati«, scrive Ortega y Gasset.
Secondo lui, questa banda giovanile e criminale è all’origine dello Stato.
Nella Grecia arcaica, infatti, le organizzazioni politiche di base sono le fratrie (unioni di «fratelli», come Pollicino) e «etairie» (di uguali).
Si votava per fratrie, come nella Roma prisca per curie, nelle adunate chiamate comizi curiati:
e curia significa «co-viria», banda di maschi armati.
Bande da caccia e da guerra, e anche società segrete, com’era la riunione annuale degli Spartiati, dove si mangiava la rituale «zuppa nera», di sangue di cinghiale.
«Fratelli», «uguali» e «viri» erano classi di età: l’età dei giovani.
La società non era divisa per famiglie, ma per classi d’età: i giovani armati, pericolosi ma necessari, e i «vecchi», con le donne e i bambini.
Questo è il senso della formula «senatus populusque romanus»: i vecchi (senatus da «senex»)
e il gruppo devastatore («populus» viene infatti da «popolari», devastare), i giovani maschi armati;
e fra le due classi d’età c’è antagonismo, una tensione ritualmente controllata.

Lo Stato dunque nasce «prima» della famiglia, e non deriva da essa.
Anzi è un errore fatale considerare lo Stato come una formazione «naturale», basata
sulla consanguineità.
Questa concezione, oggi maggioritaria, è stata a lungo propria solo del popolo ebraico (che si vede come una discendenza da un capostipite comune, Abramo), ma è il contrario dello Stato romano: che è essenzialmente una chiamata a «genti diverse», originariamente persino ostili, a fare qualcosa di grande insieme.
Romolo e la sua banda rapiscono le sabine, e poi…vanno ad abitare insieme ai sabini: un fenomeno molto arcaico, conosciuto come «sinecismo» (sin-oikismos, «mettere su casa assieme»).
Roma, per secoli, è stata fedele a questo modello: Roma è stata generosamente integratrice.
Là dove l’ebraismo «esclude» chi non ha lo stesso sangue, Roma - modello dello Stato - include, «chiama ad abitare insieme».
La concezione dello Stato come espansione dalla famiglia è dunque regressiva, anti-civilizzatrice. Secondo Ortega, si capisce.

Così dunque si sparsero nel mondo gli indo-europei.
Da dove vengono?
Dalle steppe dell’Asia, ci assicurano: un’asserzione «scientifica» che ha un vecchio significato polemico, perché vuol cancellare le convinzioni nutrite da paleontologhi e glottologi tedeschi
del Terzo Reich: che attibuivano agli ariani una sede primordiale «nordica».
Per la precisione, baltica.
Non mancano in quest’ultimo senso indizi linguistici.
Nell’India moderna, c’è una parola, «lakh», che significa «diecimila»; la stessa parola indica
anche il colore rosso-lacca.
Nello svedese moderno, l’identica parola «lakh» è il nome del salmone, il pesce dal vivo colore rosso.
Ora, in India non ci sono salmoni; si ritiene che gli indo-europei abbiano portato la parola dai freddi fiumi baltici, dove i salmoni erano numerosissimi (ecco perché «diecimila»: in Egitto, «centomila» si indicava con il segno pittografico per «formiche»).
La lingua sanscrita contiene alcuni nomi di alberi, che nelle lingue alto-germaniche sono «salici», «betulle» e «querce», alberi ignoti nella fascia monsonica.
Ciò, dice lo studioso inglese J.P.Mallory, «suggerisce» che gli antenati degli indù venivano
«da una regione dove almeno stagionalmente si avevano temperature fredde», ed erano zone
di «foreste»: «non possiamo affermare molto di più: ma porre i proto-indoeuropei nella steppa aperta o in una regione desertica sembra non congruente con i termini presenti nel sanscrito» (2).

Per la verità, i Veda indicano una sede ancora più nordica: Svita dvepa, l’Isola bianca dove vivevano gli uomini felici nella Prima Età, il Krita Yuga.
Era il paradiso terrestre (3).
Dov’era?
Secondo il sanscritista indiano Tilak (autore di un libro dal titolo «Arctic Home in the Vedas»),
era oltre il circolo polare artico.
Da qui i simboli nordici del cigno, della notte luminosa, e del Cinghiale Bianco: in sanscrito, «cinghiale» si dice «varaha», parola collegata al greco «borea» («Vorea»), ossia il Nord boreale:
e tutti i simboli sono legati dai greci ad Apollo Iperboreo, dell’estremo nord.
Tilak ne ricavava le prove dalle notazioni astronomiche che si trovano nei Veda.

Come noto, gli autori sanscriti conoscevano la precessione degli equinozi, il fenomeno, dovuto all’inclinazione dell’asse, per cui millennio dopo millennio l’equinozio di primavera «arretra»
nella costellazione precedente dello zodiaco.
Per esempio 8.000-6.000 anni fa l’equinozio, che è nei Pesci (o meglio: ormai in Acquario), avveniva nel Cancro; 6.000-4.000 mila anni fa nei Gemelli, 4.000-2.000 anni fa nel Toro.
Il ciclo completo dura 25.920 anni: la sua scoperta implica quindi, in epoca arcaica, osservazioni registrate per millenni.
A causa delle precessioni, anche la stella che indica il Polo non è sempre stata l’attuale: tremila anni fa era la Alfa Draconis.
Le indicazioni astronomiche dei Veda descrivono in certi inni cieli che erano visibili 6 mila anni fa. Li si assicura scritti solo nel 1.500 avanti Cristo: ma io ho visto coi miei occhi, in un tempio
del sud, giovani bramini orgogliosi di mostrarmi come imparavano i Veda: a memoria.
Cantando, sì che la memoria è aiutata, ed è anche impossibile fare interpolazioni; e dovevano impararlo anche all’indietro, dall’ultimo al primo verso, per migliaia di versi.
E si divertivano: ciò mi suggerisce che così furono trasmessi i Veda per millenni, prima di essere «scritti»: a voce, cantando, come un gioco e una festa.

Altre infinite sapienze tralucono qua e là.
Ci sarebbe da dire della centralità della stella Sirìo nelle antichità preistoriche: l’alba eliacale
di Sirio era attesa dagli Egizi come segnale della crescita del Nilo, e l’inizio del nuovo anno.
Gli Egizi cantavano allora della «notte luminosa» in cui la «vergine partorisce il figlio»: come
i tedeschi cantano stille nacht a Natale.
Gli Egizi mantennero Sirio nel centro della loro speranza anche se nei secoli, per la precessione equinoziale, l’alba della stella si spostò dal solstizio d’estate alla metà di agosto, perdendo
la sua sincronia.
E anche le piramidi hanno perso il preciso orientamento nord-sud con cui furono costruite:
in seimila anni, sono deviate di 2 o 2,5 minuti primi.
Anche i Dogon, negri del Mali che furono studiati dal grande Marcel Griaule, sapevano molto
di Sirio.
Per esempio, che è una stella doppia, cosa poco visibile anche con potenti telescopi (anche gli Egizi del resto accompagnavano a Sirio un «compagno oscuro»; Anubis).
E che la piccola compagna oscura di Sirio compie attorno alla grande stella principale
una rivoluzione di 50 anni.
E che la materie di cui è fatta è «la cosa più pesante che esista al mondo»: e solo oggi sappiamo
che Sirio B è una stella superdensa, e la materia di cui è fatta pesa 80 tonnellate al centrimetro cubo.
Come lo hanno appreso i Dogon?
Loro raccontano: da un essere acquatico venuto dal cielo su un’arca.
Questo essere era un pesce, «respirava con le clavicole» (branchie?).
Lo chiamano Nommo «l’istruttore», perché ha insegnato ai Dogon ogni segreto della religione
e delle tecniche.

Fanta-archeologia?
Bisognerebbe parlare di quegli strani istruttori a forma di pesce presenti nelle storie babilonesi,
e anche del sanscrito Matsyendra, «l’uomo pesce», prima incarnazione di Vishnu, che insegnò
a Manu a costruire l’arca per il diluvio; quale relazione misteriosa può unire questi esseri mitici
a Gesù, il Dio incarnato, il cui simbolo è stato il pesce?
Ma sarebbe troppo lungo, e dovremmo avanzare su terreni su cui troppe tracce sono state cancellate.
Limitiamoci a qualche segnale: per gli indù, nove incarnazioni di Vishnu sono già avvenute
dopo quella prima, sotto forma di pesce.
La decima deve ancora venire, alla fine del Kali Yuga (4): il Kalki Avatara (decima incarnazione) comparirà nel mondo come un cavallo bianco.
Per l’Apocalisse, nel suo secondo avvento, Gesù tornerà su un cavallo bianco.
Colui che entrò a Gerusalemme sull’umile asinella candida, riapparirà in sella al destriero regale.



1) Roma conservò un collegio sacerdotale arcaicissimo, i Salii, che in una processione annuale, armati e mascherati con maschere orrende, «ballavano» per le strade: da cui il nome, Salii, i danzatori (da «saltare»). Consacrati a Marte, i Salii cantavano litanie così antiche che nessuno le capiva più; e mangiavano un pasto rituale segreto, a spese dello Stato. Similmente arcaici erano i sacerdoti lupercali, che avevano come totem la lupa che nutrì Romolo. Le manifestazioni di queste confraternite avevano un carattere carnevalesco: ancora una volta, il rito era anche gioco.
2) Mallory, «In search of the Indo-europeans: language, archaelology and Myth», pagina 125. Citato da G. Feuerstein, Subash Kaka e David Frawley, «Antica India, la culla della civiltà», Milano, 2004.
3) Così i Vishnu-Purana descrivono la vita nel Krita Yuga: «era l’età in cui la giustizia era eterna. Il più eccellente degli yuga, dove tutto era fatto (Krita infatti dalla radice kr, «fare», da cui «creazione»), e niente da fare ancora. Non malattia, né usura degli organi di senso nascevano per l’avanzare dell’età; non c’era malizia, pianto, superbia o inganno; non odio, crudeltà, paura,. afflizione, gelosia o invidia. Il dharma non languiva, né la gente declinava…in quell’età non c’erano déi…le caste, simili nelle loro funzioni, erano incessantemente devote a una sola divinità, usavano un solo mantra, una sola legge, un solo rito«. L’Età dell’Oro primordiale non conosceva le caste, e aveva un unico Dio. E’ qui echeggiato il mito delle quattro età del mondo, via via più brevi e sciagurate perché segnano l’allontanamento progressivo dell’uomo dal divino: la teoria generale della decadenza arcaica, che si trova in tutte le civiltà antiche. Non progresso, ma regresso spirituale.
4) Vale la pena di ricordare che i Vishnu Purana descrivono il Kali Yuga come un’epoca di sovversione sociale e di globalizzazione: «i re saranno di spirito strano e di carattere violento, dipendenti dalla falsità e malvagità. Infliggeranno morte a donne, bambini e vacche (sacre); si impadroniranno delle proprietà dei sudditi, saranno di potere e volontà limitata, per lo più sorgeranno e cadranno rapidamente; la loro vita sarà corta, i loro desideri insaziabili, e mostreranno ben poca pietas. I popoli di varie nazioni, mischiandosi, seguiranno il loro esempio; e i barbari diventando potenti sotto la protezione dei principi, le tribù più pure saranno trascurate, la gente perirà. Benessere e pietà diminuiranno di giorno in giorno, fino a che il mondo sarà tutto depravato. Solo la proprietà [economica, ndr] conferirà il rango sociale, solo la ricchezza sarà fonte di devozione, le passioni il solo legame tra i sessi; la falsità il solo modo di prevalere davanti ai giudici; le donne saranno oggetto di solo piacere sensuale, La terra sarà venerata solo per i suoi tesori minerali. Il filo di un bramino [il filo di cotone che ogni bramino porta dopo l’iniziazione] sostituirà il bramino [il segno esterna di spiritualità basterà a simulare la spiritualità mancante] ; la disonestà sarà il mezzo universale di sussistenza, la debolezza causa la di dipendenza [e non già la lealtà, la fides], una semplice abluzione sarà purificazione. Il mutuo assenso basterà a unire in matrimonio, abiti fini a dare la dignità, e acqua impura sarà onorata come una fonte sacra. Il popolo, incapace di sopportare il peso imposto dai loro avidi sovrani, prenderà rifugio nelle vallate, esposto al vento e alla pioggia, al caldo e al freddo; si coprirà di cortecce; nessuna vita umana eccederà i 23 anni, finché la razza umana sarà prossima alla sparizione»: Allora apparirà il Kalki Avatara e ristabilirà l’ordine cosmico.

 
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