Come si diventa selvaggi
09 Febbraio 2006
Una premessa: il lettore cui risponderò (non ne faccio il nome) non prenda le osservazioni
che seguono come un’offesa personale.
Assumo il suo caso come l’esempio di una situazione generale, che non riguarda lui, ma tutti
gli italiani.
Il lettore obietta a un mio articolo sul vestiario, sull’eleganza come segno di ambizione spirituale. Forse qualcuno ricorderà la mia tesi: la diffusione di «mode» come i tatuaggi, gli orecchini e teste rasate rivela una caduta del livello generale di civiltà.
La rinuncia a perseguire superiorità e rigore.
Lo si sappia o no, teste rasate, orecchini e tatuaggi sono stati caratteristici di sotto-classi marginali
e criminali, forzati, pirati, ladri di cavalli, zingari.
Che non sono nemmeno plebi, ma quel gruppo sociale (o anti-sociale) che Nietzsche definiva «chandala», la parola indiana che indica gli intoccabili, dediti e obbligati a mestieri impuri e colpiti da interdetti.
Chi adotta questi stili, inconsciamente o no assume queste sotto-classi (e i loro comportamenti) come «modelli esemplari».
E ciò è un segnale spaventoso per la società.
Il lettore obietta, e racconta in breve la sua storia personale: a 37 anni ha detto addio al suo lavoro precedente, all’ufficio e al direttore, e si è dedicato alla sua vocazione; fa l’istruttore
di qualcosa che chiama «ju-jitsu brasiliano».
Una scelta a cui palesemente il lettore attribuisce il significato di un atto di coraggio e di libertà,
nel nobile senso di aver «obbedito alla propria vocazione», e che fa coincidere con l’adozione
(se ben capisco) di uno stile adeguato: testa rasata e tatuaggi.
Ecco smentita, suggerisce cortese, la tesi di Blondet: un adulto che fa scelte coraggiose non può essere uno che prende a modello zingari, ciurme e ladri di cavalli.
Invece, a me la baldanzosa confessione del lettore pare dimostrare proprio l’esattezza della mia tesi: l’adozione del nuovo stile ha coinciso con una «discesa di livello» personale ed esistenziale.
Il lettore ha scelto infatti di fare quello che «gli piace».
Ma è sicuro che «fare quello che piace» sia anche, nel suo caso, fare quello che «deve»?
Che non sia una diserzione dal proprio destino?
Il concetto è difficile e sempre meno familiare.
Provo a spiegarmi.
Ogni adolescente sente e crede di poter fare qualunque cosa, diventare qualunque uomo,
di avere di fronte infinite possibilità.
Crescendo però, un uomo sente che questa vertigine del possibile è illusoria.
Sente che ci sono cose che «deve» fare, e queste sono poche o anche una sola: che «deve» fare perché nessun altro le farà, o le farà come lui può farle.
Provo a dare un esempio: chi «può» fare il fisico nucleare, il matematico o il cardiochirurgo, «deve» farlo.
Se si mette a fare l’animatore al Club Mediterranée, magari si diverte di più (per un po’ almeno), ma tradisce se stesso nel profondo.
Sceglie il facile anziché l’arduo, la vacanza anziché l’autenticità.
E tra l’altro si prepara, per perseguire «liberamente» un «piacere», a vera infelicità: perché la sola felicità che un uomo può ottenere su questa terra è fare quel che «deve»; non «esprimere se stesso»», ma dimenticare se stesso in quell’opera unica e necessaria.
Riconoscerlo è il segno delle maturità, dell’essere diventato adulto.
Ancora una volta, prego il lettore di non prendere questo come offesa personale: la sua colpa
(se c’è) è anche la nostra, di noi tutti.
Ed è il segno di una crisi sociale delle più profonde e fatali, di quelle che - benché decisive, e forse proprio per questo - la «politica» come oggi la intendiamo si guarda bene dall’affrontare (1).
Anzi.
L’adozione non-pensata di un mediocre individualismo edonista si configura come un abbandono dei cittadini da parte dello Stato: non ci occupiamo di voi, ciascuno faccia quel che gli pare
(e per contro, nemmeno vi aiuteremo: ora vige il «liberismo»).
Per essere ciò che si «deve», bisogna avere attorno una collettività che lo esiga, che valorizzi
lo sforzo, che lo promuova, che indichi scopi collettivi e aiuti, anche con le cattive («autorità») ciascuno a incardinarsi nel destino che gli compete, al livello più esigente possibile.
Invece, ognuno è abbandonato a se stesso, e lasciato alla sua irresponsabilità (a cominciare
dai cosiddetti «politici»).
E’ quasi ovvio che, in questa situazione, i più scelgano la via facile.
Visto che il difficile non te lo chiedono, anzi che in Italia per chi ha scelto vie d’eccellenza - nella ricerca come nella filosofia o nell’arte - di fatto non c’è posto, e non si sono posti di lavoro.
Perseguire l’eccellenza che viene scoraggiata richiede di essere eroi; e identificare il proprio vero «dovere» o vocazione autentica, esige una profondità intellettuale che non può essere di tutti.
Perché per la maggior parte delle persone il destino «proprio» e necessario è di natura collettiva: non tutti sono Michelangelo e Leonardo.
Per molti, il «dovere» indispensabile è essere marito, operaio, dattilografa, bancario: buon marito operaio e dattilografo, nella convinzione che la società lo richiede e ti approva, per quanto modesto sia il tuo destino.
Modesto non significa mediocre, anzi è l’eroismo di ogni giorno.
Deve essere lo Stato ad additare il senso generale per i più, l’ambizione comune di reggersi
nella storia con dignità e vigore, chiedere a ciascuno il massimo possibile.
Lo Stato che non lo fa è «illegittimo».
Noi oggi viviamo in una condizione politica tale, per cui (giustamente) sentiamo il potere politico come illegittimo: in tutto l’Occidente comanda chi «non deve» comandare, e ciò demoralizza
(nel senso che degrada moralmente) l’intera società.
Il segno è l’insubordinazione generale, la disobbedienza anarcoide ed eversiva ad ogni decisione o proposta per il bene collettivo, dalla TAV alle centrali nucleari alle discariche:
ci si ribella a torto, ma nel profondo è una protesta non contro la TAV, ma contro l’illegittimità radicale del potere.
«Una società il cui Stato, il comando del quale è costitutivamente fraudolento, non può avere
il vigore elastico per affrontare il difficile compito di sostenersi con decoro nella storia», diceva
già Ortega y Gasset.
Quella del lettore è dunque una colpa collettiva.
E ci mina tutti.
Anche chi scrive è convinto di non aver fatto tutto quel che poteva («doveva») nella vita, di avere scelto tante volte la via facile.
E aumentano di giorno in giorno persone che abbandonano la prima linea e, con motivazioni spesso accettabili, scelgono un’altra strada.
Aprono agriturismi, palestre di body building e scuole di merengue; signore settantenni trovano
«il grande amore» per cui abbandonano il marito, giovani aspirano a diventare buttafuori
di discoteca e cubiste, e così via.
Stiamo diventando una società dove tutti si occupano del «tempo libero»: ma chi fa ricerca,
chi produce, chi fatica sul margine più avanzato della realtà per preparare il futuro?
Chi sta agendo per fare grande l’Italia, domani?
Ci occupiamo di «tempo libero» ma persino il turismo da noi è in calo, non-competitivo e perde ogni giorno qualità: segno che chi persegue la sua «vocazione-piacere» non prova nemmeno
ad essere professionale.
Non si sforza, ma coltiva un hobby, da dilettante.
E gli stili e il vestiario adottato non a caso riflette questa scelta del facile: se si è rinunciato a contare qualcosa nel mondo, a pretendere il meglio da sé e dagli altri, non ci si abbiglia.
Ci si infagotta in qualche felpa, si calzano le orribili scarpe da tennis della moda giovanile-dozzinale, si manda un segnale di stracca trascuratezza in tutto, anche nell’apparire agli altri.
Ci si veste da «operai» da «proletari» senza esserlo; ignari che i veri operai degli anni ‘60 vestivano la tuta blu di ogni giorno con dignità, e la domenica il completo scuro con cravatta, borghese, ossia della classe superiore alla operaia.
Un segnale di volontà di elevazione.
Non solo sociale, ma morale e politica.
Ma fosse solo questione di vestiti, non mi preoccuperei.
Il punto è che ciò indica il declino storico dell’Italia.
E porta alla barbarie.
La grande «razza» indo-europea, che ha guidato il mondo per millenni, sta diventando selvaggia.
La razza bianca ha preso la strada per diventare la razza negra del prossimo millennio.
Perché, come sanno gli etnologi, è sbagliato chiamare «primitivi» i selvaggi, le microscopiche tribù che sopravvivono nelle giungle del Rio delle Amazzoni, gli aborigeni australiani, i bantù
e i watussi.
L’uomo «primitivo», allo stato di natura, non è mai esistito.
Quelli che chiamiamo selvaggi, sono in realtà i supersiti «degenerati» di antichissime civiltà.
Non primitivi, ma degradati.
Non uomini allo stato aurorale, ma al capolinea della loro storia.
Sappiamo poco o nulla di queste civiltà, che si perdono in ciò che chiamiamo preistoria (2), perché non hanno lasciato che rari documenti e monumenti o addirittura nessuno: erano civiltà sacrali, non economico-commerciali.
Contemplative.
Ma il loro processo di degrado si può ricostruire ipoteticamente a grandi linee.
Ad un certo punto queste civiltà hanno perso le loro classi dirigenti, sacerdotali o sapienziali;
le classi «esemplari» che davano l’esempio, additavano i fini e imponevano gli sforzi collettivi verso il meglio, si sono esse stesse per prime degradate.
Abbandonate a se stesse, persa l’organizzazione (che poteva essere esclusivamente spirituale,
«la sola cosa necessaria») le popolazioni si sono ridotte alle loro proprie capacità
e alle loro necessità.
Hanno cessato di sforzarsi.
Simbolicamente e concretamente, hanno abbandonato la civiltà e si sono ridotte nella foresta primigenia, dove la vita è «più facile».
Hanno abbandonato i vestiti per il perizoma e i tatuaggi.
Hanno fatto secessione da sé e dai loro destini superiori.
Le tribù africane e amazzoniche sono esempi impressionanti di secessione, di particolarismi portati al loro livello più assurdo.
In Africa, ogni trenta chilometri, si incontra gente che parla una lingua totalmente diversa
dalla tribù vicina: e da tempo immemoriale le tribù vicine si combattono, per cause che nemmeno ricordano più.
La barbarie infatti è, sul piano sociale, la rottura della società in «un pullulare di gruppi minimi reciprocamente estranei e ostili»; ma anche questo non è che un sintomo.
Una civiltà si frattura perché ha perso la visione spirituale del suo compito collettivo, e capi capaci di additare (e forzare, se è il caso: il diritto alla forza da parte del potere legittimo non sarà mai abbastanza lodato come fattore di civiltà) il destino comune, anzi di esserne l’avanguardia.
Questa crisi enigmatica e preistorica è adombrata nel mito (mito-verità) della Torre di Babele
e della «confusione delle lingue»: il parlare lingue diverse, il non comprendersi più, ha già notato qualche filosofo, non può essere stato che la conseguenza di una frattura più decisiva:
la rottura, nelle anime, della unità di Dio.
Le tribù «primitive», politeiste e adoratrici di potenze naturali, hanno il ricordo vago di un Dio unico, originario, Padre, che però non ha più culto, che è inattivo.
Ad un certo punto ogni gruppo, tribù-famiglia, ha sentito urgente propiziarsi i suoi dei, la proiezione della propria facilità, della rinuncia ad essere esigenti: in questo senso gli dei sono tutti «falsi», anche se rispondono a vere necessità psichiche.
Il politeismo segnala una caduta del livello, come quello che segnala il vestiario stracco e dozzinale.
Sarebbe qui il luogo di parlare della funzione dei riformatori religiosi come eroi esemplari,
che hanno contrastato il degrado di civiltà: astronomi spirituali come Zarathustra, o di stirpe regale
e guerriera come Buddha e Cristo, hanno rimesso in luce l’essenziale unità contro i formalismi (ebraici o induisti), i tabù inetti; hanno sfrondato la fede dagli interdetti marginali, da questioni formalistiche, dalle minuzie farisaiche del culto, per rimettere in primo piano la «sola cosa che conta», il compito di ciascuno, lo sforzo personale richiesto ad ognuno.
Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema.
Perchè la vera urgenza, per noi, è spiare i segnali del nostro diventare selvaggi.
E capirne il motivo: abbiamo abbandonato ogni sforzo.
Non poniamo più a noi stessi esigenze ardue.
Facciamo ciò che «ci piace» scambiandolo per equivoco con la nostra vocazione autentica,
con quel che «dobbiamo» fare.
I segnali sono purtroppo numerosi, e si moltiplicano.
Non solo la società italiana è sempre più, nel suo insieme, un «pullulare di gruppi minimi fra loro ostili», e che perseguono loro interessi, o idee fisse e ossessioni e paturnie particolari contro tutti
e tutto il bene comune.
Né solo aumenta la gente che abbandona la prima linea per aprire un agriturismo o una palestra.
Basta vedere la musica che corre e si preferisce, insieme alla preferenza per il vestiario stracco. Ascoltate per qualche minuto Bach o Palestrina e un «rap», e fate il confronto.
Non è solo che il «rap» è facile e brutto (3): è che si tratta di un linguaggio totalmente diverso
da quello classico, europeo.
E’ come se l’Europa intera avesse smesso di parlare la sua unitaria lingua musicale, per adottare
i versi di tribù metropolitane marginali, i negri di New York, gli spacciatori di Harlem.
E perché? Perché si è scelto un linguaggio più facile, «alla portata di tutti», dove chiunque
può essere «musicista».
Senza studiare.
Perché la lingua musicale unitaria europea, la musica classica, non è stata ferma, è cambiata,
si è evoluta per secoli: ma sempre all’interno di una tradizione che la rendeva riconoscibile.
Ogni musicista innovatore doveva cominciare con il conoscere e studiare la musica del passato, anche solo per rifiutarla e riformarla.
Questo rifiuto non diventava «frattura», era una ricerca dell’essenziale contro il superfluo,
ciò che era divenuto canone e abitudine, e che non parlava più alle anime.
La frattura sta nell’abbandono dello studio per adottare un linguaggio primitivo.
Altro indizio?
La conclamata «libertà sessuale».
In grazia della quale alcuni «scoprono» di essere, magari, omosessuali, e di avere il «diritto»
di «esprimere se stessi» come invertiti.
Chi spiegherà a costoro che anche la sessualità è un «compito»?
Provo a spiegarmi, sapendo che sarà inutile.
Gli animali, fortunati, non hanno compiti.
Una leonessa non deve sforzarsi per essere femmina, un toro per essere maschio.
Per loro, esistere è essere quello che sono, semplicemente.
Ma essere «uomo» è diverso che essere «maschio», essere «donna» non è la stessa cosa che essere «femmina».
L’essere umano ha questo destino: che deve imparare ad essere «uomo» e «donna», che deve imparare a diventare anche essere umano.
La gloria e il dolore dell’uomo è in questo suo destino, dover imparare, dover diventare
sempre più uomo.
Chi «scopre» di essere omo, scende di livello, rinuncia allo sforzo.
E addita la strada del ritorno allo stato selvaggio.
Perché fa quel che «vuole» anziché quel che «deve».
E’ singolare e indicativo che i grandi riformatori religiosi, da Buddha a Gesù, abbiano tanto insistito sulla castità, abbiano posto questa esigenza estrema ad uomini e donne (al punto che il buddismo
è, essenzialmente, un monachesimo).
E che la civiltà occidentale abbia avuto il suo ultimo grande impulso con la Cavalleria, l’amor cortese, la distanza dell’amata dall’amante: la donna del cavaliere, proprio perché non si concedeva, lo incitava ad azioni magnanime.
Le ragazze d’oggi sono meno esigenti, per loro e nostra disgrazia: si contentano di energumeni senza eleganza, senza magnanimità, di vili «maschietti».
Il contrario dei cavalieri, il cui motto era, come sappiamo «noblesse oblige», la nobiltà obbliga.
Chi non si pone obblighi è il plebeo, il volgare, l’ignobile.
Sono riuscito a spiegarmi?
Temo di no.
Anzi, so già che queste mie osservazioni irriteranno una quantità di lettori (spero non tutti).
Ora, proprio questo è un indice del nostro declino e della nostra barbarie: la quantità di persone
che, di fronte a idee nuove e poco familiari, reagiscono con l’irritazione.
E spesso col rabbioso invito a far tacere il disturbatore, l’anticonformista che sfida le «idee ricevute», i luoghi comuni accettati senza indagine e senza discussione dai più, come i più accettano le mode e gli stili di vestiario, senza chiedersi cosa significano.
Questo impulso, sempre più forte, avrà un ovvio risultato: rendere l’Europa, e l’Italia specialmente, un deserto di idee.
Che è il modo più sicuro per tornare selvaggi.
Bisogna avvertire che è normale.
Le idee nuove e inedite sono, a tutta prima, «irritanti» per chi non è abituato a pensare.
Al punto che costoro spesso impongono la morte del disturbatore, come hanno appreso
a loro danno Socrate e Gesù.
Come certe sostanze che sono «irritanti» perché naturali, ma sono medicine, bisogna avvertire
che l’effetto irritazione passa.
Passa con l’abitudine ad ascoltare idee: magari non per accettarle, magari per rifiutarle dopo esame. I greci, dopo aver fatto bere la cicuta a Socrate, presero tanto gusto alle idee da farne
la loro vocazione, il loro divertimento: la civiltà greca, la civiltà-madre, ha pensato
fino in fondo a tutte le cose più ardue, senza paura.
Perché le idee, anche estreme, non sono pericolose, sono splendidi giocattoli degni dell’uomo. Atene adottò la democrazia - che significava far parlare in piazza tutti i cittadini, anche coloro
che non avevano dalla loro parte la forza del potere - non per carità cristiana verso gli «umili»,
ma per nobile divertimento.
Perché parve loro che una vita dove il solo argomento fosse la forza di fatto non fosse degna
di uomini, ma di belve.
Così, è bene che ci rifacciamo l’abitudine, alle idee.
Ne abbiamo bisogno come di medicine.
Naturalmente, anche questa asserzione va presa con l’ironia propria che si acquista con l’abitudine
a pensare.
Per millenni, le grandi civiltà del passato preistorico non hanno avuto bisogno di idee.
Quegli uomini che, secondo Omero, «ricevevano a pranzo gli dei», avevano di meglio: erano contemplativi, l’intero scopo delle società di cui parlo era la salvazione dell’anima, l’immortalità. Anche la Grecia primordiale, degli acheo-dori ariani, dovette essere così.
Non avevano bisogno di pensare, per scegliere il loro destino più esigente.
Avevano il loro carattere, la loro fedeltà.
In Grecia le idee compaiono per reagire a una crisi dello spirito.
Appaiono i sofisti, che usano l’ideazione come strumento della retorica e del potere; l’unità contemplativa e religiosa si frattura, la società litiga, un gruppo ricorre alla forza contro l’altro:
la specialità dei sofisti era l’«eristica», ossia l’arte del litigio, e del mettere nel sacco
un interlocutore vissuto ormai come avversario.
La comparsa dei sofisti era a sua volta un sintomo: segnalava l’espandersi, nella società ellenica, di una cinica frattura fra la discussione e la verità, l’adesione ad una forma profonda e fatale
di immoralità.
Fare apparire giusto il «discorso ingiusto», come dicevano i sofisti.
E «il giusto è l’utile del più forte», diceva il sofista Gorgia, come i neocon attuali.
Per questo Platone, e Socrate suo maestro, ricorsero alle idee, alla dialettica.
Affrontarono i sofisti sul loro terreno, ma in nome della verità e moralità del pensiero.
In nome dell’unico Dio contro gli dei.
E’ stato detto autorevolmente che Platone non fa che echeggiare, per quanto può dirlo senza violare il segreto iniziatici, la verità intuitiva e assoluta che si otteneva nell’iniziazione di Delfi. Quell’inaudita esperienza dove ogni vero greco, dopo sforzo, ascesi e preparazione, riceveva
la rivelazione del suo «vero» nome, vedeva il suo vero volto, apprendeva cosa il destino esigeva
da lui, personalmente, per la sua salvezza.
Di fronte a questa verità comunicata in un istante, le idee, la dialettica, sono un povero ripiego. Socrate lo sapeva meglio di chiunque altro, e perciò inventa, con le idee, la presa di distanza ironica anche da esse: non sono la verità, sono uno strumento, un dito che la indica.
Platone era un filo-spartano (era accusato di «laconizzare»): insomma il suo ideale era il silenzio, forte armato e sacro, di Sparta, non la chiacchiera di Atene.
Ma la crisi rendeva necessarie le idee: portare alla coscienza ciò che per secoli era stato praticato senza esame, come parte del sacro.
Minacciato di decadenza (ossia di incredulità) il greco doveva imparare a pensare, a trasformare
il culto, almeno, in cultura.
Oggi, viviamo lo stesso bisogno, lo stesso ripiego e stampella.
Perciò scusate se vi irrito.
Poi passa, quanto più ci si abitua a pensare.
1) Questo è il primo motivo per cui in questo sito parliamo poco di politica italiana. La politica italiana è febbrile, agitata, corpuscolare quanto insignificante. Non scalfisce nemmeno i mali della società. Esegue gli ordini che riceve dai poteri occulti mondiali, null’altro. Parlare di politica, oggi, significa smascherare questi poteri, non discutere di Berlusconi e Prodi.
2) La preistoria finisce, per quanto ci riguarda, ad una data precisa: il 19 luglio dell’anno 4241 avanti Cristo, la stessa in cui il pensiero indù fa iniziare il Kali Juga. E’ la prima data certa della storia, ed è opera degli egiziani. E’ precisa perché gli egiziani la adottarono da quel giorno, e fecero partire, il calendario di 365 giorni: un’alta realizzazione scientifica e organizzativa, necessaria per prevedere e controllare le piene del Nilo. Nella stessa epoca, gli egizi costruiscono le grandi piramidi, il che implica una colossale e precisa organizzazione del lavoro e degli approvvigionamenti. Il bello è che gli archeologi, quando cercano quel che c’era subito prima della civiltà egizia, non trovano nulla, solo qualche capanna. Un’immensa civiltà, con il suo sistema sociale e religioso già maturo e mai modificato nei millenni seguenti, appare «dal nulla». Ma prima non c’era il nulla, c’era qualche civiltà che, per essere spirituale, non ha lasciato segni e monumenti di pietra.
3) Per favore, nessun lettore si precipiti a replicarmi che il rap è bello, perché lui lo suona con i suoi più cari amici, va ai concerti e si diverte, ecc. Cercare di capire la visione generale, non perdersi e inalberarsi di fronte a dettagli, è l’ABC se si vuole interloquire.
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