Perchè Faust è tedesco
Maurizio Blondet
10 Febbraio 2008
Il mito di Faust è tentazione infinita della cultura tedesca, il suo tema musicale e letterario fondamentale, che ripete con variazioni infinite: corrispose a qualcosa di reale?
Qualcuno, fra il Reno e il grigio Baltico, firmò mai il contratto con Satana, vendette la sua anima in cambio del sapere e del potere?
Thomas Mann (che riprese il tema), come noto, lo crede, con la credenza scettica e «ironica» che l’arte consente: il patto, adombra, fu collettivo, firmato dal sangue tedesco, e il naufragio del Reich nella devastazione totale ne sarebbe stato l’esito.
Certo inquieta che il mito di Faust sia stato sempre e solo tedesco.
Una lettura occasionale (1) mi rivela che la prima versione del mito della vendita dell’anima, l’originale, è bizantina, scritta da un certo Eutichiano nel quarto secolo.
Il Faust ortodosso si chiamò Teofilo, monaco di Cilicia, forse realmente vissuto attorno al 530.
Ostacolato nella sua carriera ecclesiastica, Teofilo avrebbe evocato Satana con l’assistenza magica di un giudeo, Saladino di nome; il diavolo gli avrebbe proposto un contratto, da Teofilo regolarmente firmato; da allora il successo gli avrebbe arriso.
Ma infine, travolto dai rimorsi, Teofilo si appellò alla Vergine, la quale riprende a Satana il contratto.
Di questo racconto devoto circolarono varie versioni in Europa; una, in latino, attribuita a Paolo Diacono.
Tuttavia, è singolare che Dante Alighieri, il cantore dell’inferno, lo ignori.
Invece, è il sangue germanico che s’impadronisce del tema e prende a modularlo.
Nell’alto medioevo se ne conoscono tre versioni, in frammenti, in basso-tedesco; in una olandese del secolo XIV, Teofilo è diventato donna («Mariken van Nieumeghen»).
Ma già attorno al Mille l’abbadessa Hroswitha di Gandersheim aveva sistemato il racconto in forma di poema.
La badessa, non si sa quanto pia, frequentava già tali suggestioni.
Prima della sua versione del Teofilo, aveva scritto, in 264 esametri, la storia di un giovane schiavo che evoca il diavolo perché gli procuri l’amore della sua padrona.
Hroswitha fa pronunciare al suo satana parole mai prima udite:
«S’egli vorrà esser mio,
rinnegherà per iscritto il Cristo
e parimenti la Vergine madre;
allora lo innalzerò col mio potere».
Si intuisce il peso che queste parole potevano avere, nell’anno Mille?
La secolarizzazione era di là da venire; si stenta a credere che una badessa abbia solo potuto concepire la possibilità dell’uomo di abbandonare, con patto scritto, ogni speranza di salvezza. Qualcosa, la vertigine del possibile, la superbia, il venire a patti col potere dell’oscurità, già fermentava nell’anima tedesca.
E ciò, insieme ad ossessioni che rigurgitano nell’arte, nella fantasia popolare e colta: la leggenda di Gerbert, Papa Silvestro II mago ed evocatore di spiriti; l’antica storia di Gregorio (2), figlio d’incesto e incestuoso lui stesso, e tuttavia salvato da Dio, e fatto Papa; i terrori renani riprodotti in xilografia, il morente circondato da diavoli striscianti attorno al suo letto per carpirne l’anima, le danze dei morti o «danze macabre» di Holbein (perfino rappresentate in scena a Bruges nel 1449); la fantasia sulle notti di Walpurga; l’agghiacciante metafora della «nave dei folli», illustrata da Duhrer con realismo estremo: l’umanità demente e vaneggiante di vizi e desideri su un barcone abbandonato alla corrente del fiume, Satana il solo timoniere, che sa dove andare.
Il mondo di Bosch.
Il Nord si sente in balia, ad un certo punto, di forze infere.
Imbarcato verso un cattivo destino.
Quel «certo punto» pare essere il germinare, o infuriare, del Rinascimento nordico.
Non si nota mai abbastanza che Dante, l’Italia e la Spagna medievali non citano mai Walpurga e i sabba, che tacciono di navi di folli e danze macabre (ossia che le tengono al di là dei limiti della chiara coscienza cristiana, perché in questo campo parlare è evocare, far esistere).
E infatti non fu il Medio Evo cattolico - realistico, concreto - ad aprire l’abisso del demoniaco fantastico; fu il Rinascimento l’età che fece emergere l’irrazionale, la «delectatio morosa» verso le zone oscure del subconscio.
Per il Medio Evo, il diavolo fu una figura comica, derisoria, corbellata; nel Rinascimento si cominciò a prenderlo sul serio, a «cercarlo».
O a perseguitare i suoi adepti, il che è lo stesso: i processi per stregoneria, mai aperti dove l’Inquisizione aveva reale giurisdizione (la Spagna le ignorò sempre) principiarono nel Rinascimento, e al Nord durarono - in Svezia ad esempio fino a metà del ‘700.
Di fatto, praticanti dell’infero non erano mancati mai, ai margini della società.
Ma fattucchieri e necromanti medievali evocavano demoni «in modo imperii», con la pretesa di comandare a loro; solo al Nord, e dal tardo ‘400, si fa strada l’idea di assoggettarsi a Satana con libero contratto, di avere con lui commercio alla pari.
Primo nucleo del «libero mercato» e della sua «mano invisibile».
Si esprimeva così la volontà di acquisire la scienza, quel sapere che è «potere».
La prima scienza a cui si volsero i colti del Nord fu la Kabbala, la scienza del potere sugli spiriti e i mondi invisibili attraverso le lettere, le parole: come spiegava un tal Reuchlin nel suo «De Arte Cabalistica», all’inizio del XVI, l’uso della parola IHSUH, Gesù, consente di operare prodigi, non per la grazia del Cristo, ma per il «valore» delle lettere ebraiche.
Le opere degli innocui neoplatonici italiani, dei Ficino, dei Pico, furono lette oltre le Alpi come trattati di «magia sapiente», porte socchiuse sui Libri Ermetici egizi, manuali di potere su conoscenze lontane e strane.
La cosa durerà, se il 20 luglio 1592 Filippo II, il duro asceta-imperatore, dalla Spagna dovrà promulgare per i Paesi Bassi, Fiandre, un «placcart», ossia un’ordinanza, per punire
«le innumerevoli imposture, sortilegi, incantamenti, imprecazioni ed altri malefici e abominazioni» che vi si commettevano.
Nel «placcart» si bollano in specie «Gl’individui che si sforzano di turbare l’aria, stregare e ossessionare persone, occuparle di mali amori e renderle come dementi, mostrare persone assenti le une con uno specchio, le altre con l’acqua o con fiale di vetro; far parlare il Diavolo sotto forma di un re, incantare gli altri con ragazze, aghi, spilli, bandiere, e fare diverse macchinazioni degli occhi aiutandosi con carte e altre cose: invenzioni illecite e detestabili».
Ma già da tempo vivevano ed erano vissuti al Nord intellettuali ed eruditi, umanisti a modo loro, con evidenti caratteri faustiani.
Giovanni Tritemio, nato in un villaggio sulla Mosella presso Treviri nel 1462, fu nell’infanzia un orfano, mantenuto malvolentieri da uno zio.
Concepì l’idea di divenire prete; a Treviri prima, ad Heidelberg poi, scoprì l’antichità greco-latina e la Kabbala.
Studente errante, a vent’anni - era il 1482 - si smarrisce una notte sulla strada dalle parti di Kreutznach, e chiede ricovero al monastero di Spanheim.
Vi resterà 23 anni.
Per poco come novizio, dal 1483 come direttore e abate.
Trasformerà, con efficienza «moderna», la vita di quei frati contemplativi, o neghittosi: organizzerà il lavoro produttivo (si tratta di pagare i debiti), farà ricostruire gli edifici in rovina. Soprattutto, li metterà a copiare manoscritti, perché Tritemio, intellettuale, è un bibliofilo entusiasta.
Nel 1502 vanterà - il suo monastero è diventato famoso per questo - di avere in biblioteca ormai oltre duemila volumi.
Padri della Chiesa, beninteso, ma anche (parole sue) «libri né volgari né comuni, ma rari, misteriosi, segreti e ammirevoli», riguardanti «i mirabili segreti della natura».
Non che Tritemio manifesti un interesse concreto per la stregoneria.
Anzi anni dopo, nel suo «Antipalus maleficiorum», reclamerà repressioni severe contro le streghe, e un rafforzamento del numero degli inquisitori.
Il fatto è che gl’innumerevoli testi religiosi che scrive, da poligrafo copiosissimo e instancabile, sono di una banalità spirituale sconcertante.
L’opera cui invece si dedica per anni con originalità e passione è la «Steganografia»: il primo trattato di criptografia, basato sull’erudizione cabalistica.
«Più di cento modi di scrivere in segreto», si vanta candidamente l’abate, e questo «senza (l’aiuto di) spiriti né di magia, ma solo con un procedimento naturale».
A sua insaputa quel suo studio, ancora inedito, gli sparge attorno un odore sulfureo, e sospetti di pratiche occulte.
Lutero, echeggiando le voci, ricorderà che Tritemio era capace di far comparire nella penombra Alessandro Magno e Giulio Cesare (effetto, probabilmente, di una lanterna magica; i pittori italiani usavano già la «camera oscura», e l’abate di Spanheim ne sarà stato conquistato).
Nel 1504 Tritemio mostra il manoscritto a un augusto visitatore, il Piccardo Charles de Bouelle. E, secondo l’abate, costui ne resta incantato: «L’ha ammirato e anche lodato, benché non lo comprendesse interamente non avendone né l’intelligenza né la chiave, e non meritava di intendere né ricevere il nostro insegnamento».
Ingenuo presuntuoso.
Charles de Bouelle si affretta a scrivere al vescovo di Cahors in tutt’altri termini: «Ho sfogliato l’opera di Tritemio. Lo considero non solo un mago, ma uno che nulla intende della ‘vera philosophia’. A gran pena ho tenuto il suo libro in mano per un paio d’ore e l’ho gettato immediatamente, a causa dei tanti scongiuri barbari e nei nomi inauditi degli spiriti (non so se devo dire ‘diavoli’) che han cominciato a farmi paura».
Da allora, Tritemio passò la vita a giustificarsi, senza successo: dovette lasciare l’abbazia di Spanheim, e abbandonare la stesura della «Steganographia».
Morì nel 1516.
Teofrasto Bombasto von Hohenheim (1493-1541) fu un’ulteriore, e perfezionata approssimazione alla personalità di Faust: non a caso si fece chiamare Paracelso, «al di là di Celso», ritenendosi superiore al grande medico greco.
Del resto altre sue opere, «Paragranum», «Paramirum», rivelano (nell’ossessiva ripetizione del suffisso greco «para») la sua insaziabile tensione per «l’oltre»: la faustiana «sete del lontano». L'oltraggio e l’oltranza furono il suo pane.
Tedesco nato in Svizzera, cresciuto a Villach, errante per anni dalla Spagna alla Transilvania, laureato in medicina (secondo la sua pretesa mai dimostrata) a Ferrara, professore a Basilea, Paracelso fu dispregiatore furente, sarcastico, insopportabile, autolesionista, di tutte le tradizioni, le autorità e le gerarchie della sua epoca, che evidentemente lo esasperavano.
Si volle il Lutero della medicina, e perciò diede pubblicamente fuoco al Canone di Avicenna;
i colleghi dottori, li insultò minuziosamente come «ignoranti, grattaculi, illusi, impostori, oscuri, storpiatori, piagnoni, capre, medici di legno».
Definì Aristotile «doppio matto» e «illusionista contagioso».
Finì, come giusto, rifiutato da tutti: il dottor Louis Ferdinand Céline della sua età.
Non gli giovò a ingraziarsi i potenti il suo «Pronostico dei 24 anni a venire» (Augsburg, 1536) in cui previde, fulminante, la fine di ogni monarchia sotto i colpi della plebe.
Gli dobbiamo la prima concezione iatrochimica, l’uso di composti chimici in dosi appropriate (secondo il principio «è la dose che crea il veleno»); fu il primo, e per molti decenni l’unico, a prescrivere di dare aria alle camere dei malati e di lavare e pulire piaghe e ferite.
Spirito «libero», Paracelso derideva l’invocazione dei santi per ottenere la guarigione.
Ma soprattutto per far dispetto alla Chiesa: al potere curativo dell’immaginazione credeva fermamente.
Fu il primo psicosomatista, perchè - sotto le concrezioni alchemiche e astrologiche dei suoi scritti - s’intravede la sua adesione a un vitalismo precorritore.
In Agrippa di Nettesheim (1486-1555) l’umanesimo anti-aristotelico di Pico e Ficino è fermentato ormai in furore dissacratorio, con curiosi esiti di razionalismo oscurantista.
Luteranamemte proclama la «vanitas scientiarum atque artium», bastando la sola fede a salvare l’uomo.
Sostiene: «Non c’è uomo meno disposto a ricevere la dottrina di Cristo che quello dallo spirito coltivato e arricchito di sapere», e tuttavia si confessa posseduto dalla sete di conoscenze occulte, «cupiditas omnium occultarum artium».
In lui, lo studente errante medievale cede al latitante, al fuggiasco sospetto.
Da Pavia si farà cacciare per kabalismo, ma per l’astrologia nutre furioso disprezzo.
A Parigi fonda una scuola d’alchimia, in Spagna si dedica alla pirotecnica.
Il suo platonismo deve poco a Platone e a Plotino (in cui non pare versato) e molto ad Apuleio e Lucano.
A Metz, difende una strega scagliandosi contro gli inquisitori.
Rabelais lo deriderà a dovere nella figura di Herr Trippa, sapiente tedescamente verboso e pedante.
Ciò non toglie che il «De Occulta Philosophia» di Agrippa (1510) sia la più completa raccolta di quel che allora si praticava in fatto di magia, bianca e nera.
Egli stesso, del resto, si definisce «magus».
E «invocator», evocatore di demoni.
Più di qualcosa del mago Agrippa, come di Tritemio e di Paracelso, è entrato a comporre la figura fantastica - se fu fantastica - del dottor Faust.
Ma l’elenco dei precursori può non finire qui.
Lutero aveva Satana in grande rispetto: lo vedeva dietro ogni azione di uomini, ogni temporale atmosferico, ogni malattia.
Per lui le streghe, di cui promosse la persecuzione, erano «le puttane del diavolo». Egli stesso, Lutero, aveva incontrato Satana, e spesso: una volta sotto forma di un grosso cane nero (3), con cui s’era battuto a corpo a corpo.
Quando dunque Goethe fa comparire Mefistofile per la prima volta sotto forma di grosso barbone nero che segue per strada il suo alchimista alla ricerca della giovinezza, deliberatamente annette questa «esperienza» di Lutero alla figura di Faust.
A posteriori, con la reticenza eloquente dell’arte, fa di Lutero il vero Faust, e inquadra tutta la parabola luterana, questo cristianesimo più puro del cattolico, nella sfera allarmante del patto satanico.
La «malattia» come veicolo
L’interpretazione di figure ed eventi storici della Germania come «indizi» di Faust, come profezie della perdizione e vendita dell’anima collettiva, non è insolita nella temperie tedesca: guerre dei Trenta e dei Cento anni, l’avvistamento di comete di sventura (Brahe ne studiò parecchie nel 1577), il susseguirsi di geli feroci e carestie, nei secoli del moderno - fino alla fine del ‘600 - furono costantemente letti come una cospirazione anti-umana, l’esito di qualcosa di orrendo occorso fra il tedesco e Satana.
Questa lettura culmina nel Doktor Faustus di Thomas Mann.
Il semplice fatto di riprendere il tema di Goethe implica in uno scrittore contemporaneo un’audacia inaudita.
Ma in più, Mann ha l’ambizione di annodare tutti i fili della storia e delle leggende tedesche, e tutti i suoi temi paurosi; dal Papa santo e peccatore Gregorio dell’anno Mille (incestuoso e tuttavia innocente, e infine innalzato e salvato «sola fide») fino alla meteora Hitler, al delirio di un impero del male esteticamente bello, e alla devastazione finale tedesca, perfino se stesso e la propria ambivalenza - fra classicismo e torbida «malattia» romantica, fra omosessualità e rispettabilità - come il segno, e l’esito, del doloroso privilegiato rapporto dell’anima tedesca con Mefistofile e il mondo delle tenebre.
E’ l’eccesso della patologia spirituale, mai curata ma, invece, spinta oltre i limiti.
La «malattia» per Mann non è ostacolo, ma il cavallo spettrale degli inferi, che alcuni audaci vertiginosi inforcano per raggiungere zone altrimenti vietate.
La Germania diventa il Faust cosmico, che ha segnato la sua perdizione spregiando la normalità, la salute troppo umana.
Il Faust di Mann è, come noto, Adrian Leverkhun, compositore.
Il genio della musica è morto da anni, nella demenza della sifilide - e ha lasciato ardue opere arcaiche e ultramoderne, sarcastiche e commosse evocazioni dodecafoniche del Medio Evo - quando il suo amico d’infanzia Serenus s’accinge a scriverne la biografia.
Serenus scrive mentre la Germania si dissolve ed esplode sotto i bombardamenti anglo-americani; le due tragedie, dell’amico e della patria, si fondono nel racconto presente come l’esito comune di uno stesso fatale sviamento, l’aver osato contro l’umano troppo umano, l’essersi «perduti troppo in alto».
«Perdersi salendo troppo in alto», questa metafora alpinistica, da sciagura di montagna, Thomas Mann l’usò in un celebre compianto di Federico Nietzsche
(4).
Non a caso. Su Nietzsche Mann ricalca i pochi eventi della vita esteriore di Adrian Leverkhun.
Il ricalco è fedele fino alla minuzia.
Nietzsche raccontò all’amico Deussen che nel febbraio 1865, recatosi da solo a Colonia, noleggiata una guida, s’era fatto da essa accompagnare a vedere i monumenti della città; poi le aveva chiesto di portarlo a un ristorante, e invece il losco accompagnatore l’aveva condotto in un bordello.
«Mi vidi improvvisamente circondato da una mezza dozzina di apparizioni in veli e lustrini, che mi fissavano speranzose. Io rimasi senza parola. Poi mi diressi istintivamente verso il pianoforte, l’unico essere animato in quella compagnia, e ne trassi alcuni accordi. Questi mi liberarono dallo sbalordimento e uscii all’aria aperta».
Thomas Mann fa raccontare al suo Adrian l’identico incidente (capitolo XVI), con gli identici particolari (compreso l’avvicinarsi al pianoforte): e ne fa il centro della vicenda.
L’offensiva tentazione offerta all’anima gelidamente nobile, al vergine non per virtù ma per superbia, è per entrambi la prima carezza del demonio.
Nietzsche tornò nel bordello, è storicamente accertato e vi contrarrà la lue (nella cartella clinica del demente fu scritto: « infezione sifilitica»); anche Adrian vi torna e viene infettato da una di quelle apparizioni in lustrini.
Le spirochete scavano, con la malattia, la via cerebrale che apre la possibilità proibita: il creare artistico impossibile al sano, troppo autocritico per l’abbandono lirico, e troppo freddo per il calore dell’amore.
E’ il dono della potenza creativa, effetto collaterale di malattia e peccato impuro . Soprattutto, i microbi rendono possibile l’incontro e il dialogo «d’affari» con Samael, l’Angelo del Veleno, a cui Adrian vendette la sua anima per venticinque anni - una polvere, un residuo - di creazione d’arte; che non sarà umanamente calda, ma rovente, e interrotta da estremi geli.
Nel Doktor Faustus, il colloquio fra il musicista e il suo demone familiare ha luogo a Palestrina, durante una vacanza in Italia, luogo di classicità infera e terribile.
Nietzsche ebbe un simile incontro?
Nei suoi taccuini dei primi del 1869 (è stato da poco nominato professore a Basilea, stagione di felice rassegnazione della sua vita, la lue tace), fra normali annotazioni da filologo, d’improvviso scrive
(5): «Ciò che temo non è la figura spaventosa dietro la mia sedia, bensì la sua voce; e anche, non le parole, ma il tono orridamente inarticolato e disumano di quella figura. Almeno parlasse, come parlano gli uomini».
Thomas Mann conosceva questo testo enigmatico, pubblicato nel 1940 e subito interpretato dai critici come «allucinazione».
Come suggestione, entrò anch’esso nel suo Faustus, nel suo Adrian.
Come già Goethe sul «santo» Lutero, Mann opera il trapianto di Faust sull’amato, ascetico Nietzsche: i «santi» germanici sono - suggeriscono entrambi - famigli di Satana.
L’ultimo Faust
Anni più tardi, un Faust piccolo e infinitamente più volgare - non però banale, non privo dell’audacia estrema di dire sì al male - avrebbe avuto una simile allucinazione tedesca.
Hermann Rauschning, biografo di Hitler (6), riferisce quel che gli ha raccontato una «persona della cerchia intima» del Fuehrer (io credo, Eva Braun): «Egli si sveglia sovente di notte lanciando grida convulse. Chiama aiuto. Seduto sull’orlo del letto, si trova come paralizzato. E’ preso dal panico, che lo fa tremare a un punto tale che il letto si scuote. Profferisce vociferazioni confuse e incomprensibili. Si affanna come se fosse sul punto di soffocare. La stessa persona mi raccontò di una di queste crisi con particolari che mi rifiuterei di credere, se la fonte non fosse così sicura. Hitler era in piedi in camera sua, barcollando guardando attorno a sé con aria allucinata. ‘E’ lui! E’ lui! Lo vedo qui!’, borbottava. Le sue labbra erano azzurre. Il sudore scorreva in grosse gocce. Repentinamente, pronunciò delle cifre senza alcun senso, poi parole e pezzi di frasi. Era orribile. Impiegava termini bizzarramente allineati, completamente estranei. Dopo, tornò di nuovo silenzioso continuando però a muovere le labbra. Gli fecero frizioni, gli somministrarono una bevanda. Poi, d’improvviso, ruggì: ‘Lì, lì! Nell’angolo. Che cosa c’è lì?’. Batteva il piede sul pavimento di legno e urlava. Gli assicurarono che non succedeva niente di straordinario e, a poco a poco, egli si calmò».
Un malato?
Mi pare che Rauschning non avrebbe dato al suo racconto questo registro arcano, se non avesse agito dentro e dietro di lui, col suo vasto alone oscuro, il motivo di Faust. Ciò che descrive non è una patologia, ma la visione di un essere a suo modo privilegiato, visitato dalle potenze del terrore, che ne parla la lingua estranea.
Ed Hitler stesso ne era consapevole, assunse deliberatamente il mito e il destino di Faust.
Agì come sicuro di una promessa di forze superiori all’umano.
Chiamò la sua dittatura «il Reich dei mille anni», tanti quanti sono dati, secondo l’Apocalisse, alla Bestia, e al Regno dell’Anticristo.
Invase la Russia sicuro d’avere stretto un patto col Generale Inverno, figura a lui solo nota.
E un giorno, annoiato dai discorsi di Himmler sulla fabbricazione zoologica del superuomo ariano a forza di incroci, esclamò (e anche questo annota Rauschning): «L’uomo nuovo vive in mezzo a noi. E’ qui, vi basta questo? Vi confiderò un segreto: ho visto l’uomo nuovo. E’ intrepido e crudele. Ho avuto paura davanti a lui».
Hitler teneva fede al patto: aveva visto l’altro Contraente di persona, e se ne fidava.
I contadini gotici sapevano almeno questo adagio: «Si diabolus non esset mendax et homicida…».
E’ un’ipotetica dell’impossibilità.
Satana vende tempo, e ruba sulla bilancia.
Non può farne a meno.
Non mantiene mai del tutto il contratto.
1) Guy Bechtel, «La sorcière et l’Occident», Plon, Parigi, 1997, pagina 144
2) Mann inserisce la leggenda di Papa Gregorio al capitolo XXXI del suo «Doktor Faust», come soggetto che il suo Adrian mette in musica per la sua opera di burattini (parodia della ingenua fede medievale) «Gesta Romanorum». Nel «Romanzo di un Romanzo», in cui descrive giorno per giorno la fattura del suo «Faust», lo scrittore si confessa sedotto da «la storia bella e sorprendente del santo Papa Gregorio e della sua elezione, meritata (il grassetto è mio) per la sua nascita da una relazione tra fratelli e per l’incesto con la madre, mentre poi tutto è espiato da diciassette anni di incredibile ascesi sullo scoglio solitario». L’aberrante storia di Gregorio è tutta tedesca (Thomas Mann la segue nella versione poetica del medio-alto germanico di Haltmann Von Aue) e sa perché. Questo Edipo gotico è «l’Eletto», il santo luterano «ante litteram», salvato nonostante i peccati, per predestinazione, per sola fede.
3) Guy Bechtel, citato: «Il riformatore credeva veramente al diavolo. L’aveva incontrato spesso e di persona. Lo vide, ad esempio, sotto forma di grosso cane nero. Si battè con lui a corpo a corpo. Il suo universo era pieno di Satana, che egli vedeva dappertutto dietro le azioni umane, e anche nelle malattie, nei furori dell’atmosfera, nelle diverse calamità. In ciò Lutero fece del male alle streghe…comunicando la sua paura del diavolo a centinaia di migliaia di lettori» (pagina 353).
4) Anzi i saggi sono due, uno del 1924 e uno del 1948 (riuniti in «Saggi», Thomas Mann, Mondatori, 1980). In essi, Mann partecipa alla scalata autodistruttiva di Nietzsche, alle sue esaltazioni e alla sua caduta, con la stessa simpatia dolorosa con cui Serenus assiste e rivive l’ascesa e il crollo di Adrian. Che Nietzsche sia la radice del nazismo aborrito lo sa, ma «non posso essere ostile a Nietzsche perché mi ha guastato i miei tedeschi. Se sono stati così idioti, da cadere preda della sua demonicità, è faccenda che riguarda loro soltanto, e se non possono sopportare i loro grandi uomini, non devono crearne più nessuno». Mann dunque condanna il popolo intero, pur di salvare Nietzsche. L ’essere un genio gli dà il diritto all’irresponsabilità. Davanti all’«infantile sadismo» con cui Federico proclama l’avvento della belva bionda, «la nostra anima si torce dalla pena», ma non condanna. Il suo errore, spiega virtuosamente Mann, sta nell’esaltare il contrasto tra la vita e la morale, mentre la vera incompatibilità si deve istituire tra etica ed estetica. Ma così Mann si confessa ancora ambiguamente figlio della Germania che aborre: per lui l’etica non può essere bella, e il Nazismo fu, radicalmente, l’estetizzazione della violenza politica. Il sogno di attuare nel cuore del Male una civiltà corrusca, di organizzare l’inferno come Ordine (nero e bellissimo).
5) Mazzino Montinari, «Che cosa ha veramente detto Nietzsche», Ubaldini, 1975, riferisce questo appunto a pagina 57. Mazzino (si noti il nome: famiglia mazziniana, azionista) Montinari è stato, con Giorgio Colli, il recuperatore di Nietzsche alla «nuova sinistra» per la casa Adelphi. E’ lui a ravvisare in Federico il massimo esponente della «magnanimità dell’errore contemporaneo: ‘dire sì’ a una realtà presupposta insensata, pura forza o male».
6) H. Rauschning, «Hitler ma dit«, edizioni Coopération, Parigi, 1939. Citato in «La Gnosi Nazista», di Cunha Alvarenga.
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