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Chi fa vincere McCain?
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STATI UNITI: Chi fa vincere McCain?
Randy Scheuemann: così si chiama il più importante consigliere di sicurezza nazionale che sta affiancando John McCain, il candidato repubblicano favorito nella campagna presidenziale.
Prima, questo Scheunemann faceva un altro mestiere: lobbyista d’alto bordo per il complesso militare-industriale.
Nel 1998 fu la persona che redasse l’Irak Liberation Act, una legge che assegnava, da fondi del Pentagono, 98 milioni di dollari per Ahmad Chalabi, il fuoriuscito iracheno (e ricercato per bancarotta in Giordania) su cui i neoconservatori avevano puntato come il nuovo capo dell’Iraq democratico.

Ma soprattutto, Scheunemann, insieme al vice-presidente della Lockheed-Martin Bruce Jackson, ha presieduto fino al 2002 una entità dal nome significativo: il Committee for NATO Expansion. Questo ente è, dietro le quinte, la lobby che ha determinato l’ammissione nell’Alleanza Atlantica dei Paesi dell’Est ex-Patto di Varsavia, dalla Polonia alla Romania alla Lettonia, e che vuole fortemente nella NATO anche l’Ucraina; la politica che com’è noto Valdimir Putin denuncia inascoltato, fino al punto da indurlo, da ultimo, a minacciare Kiev coi suoi missili intercontinentali.

Il perché non è difficile da capire: ogni Paese che entra nella NATO deve adeguare agli standard occidentali i suoi armamenti.
Dalle decine di milioni di proiettili per le armi portatili all’avionica, dall’equipaggiamento ai cingolati agli apparati di trasmissione.
E’ un affare colossale per l’industria americana degli armamenti, di cui Scheuneman è lobbyista fortunato.

Dall’11 settembre, le esportazioni darmi USA conoscono un boom che non accenna a diminuire. Nel 2006, il complesso militare-industriale ha firmato contratti per forniture militari pari a 16,9 miliardi di dollari, il 40% del totale mondiale.
La Russia, seconda, ha firmato contratti per la metà, 8,7 miliardi.
Ma già nel solo mese di gennaio 2008 gli USA hanno annunciato contratti militari per 19,626 miliardi di dollari, superiori a quelli dell’intero 2006.
E questi sono solo i contratti resi pubblici, perché ovviamente nel settore avvengono forniture d’armi segrete.

Il nuovo disordine mondiale instaurato dall’Amministrazione Bush, e l’area sempre più vasta di instabilità creata dall’invasione di Iraq ed Afghanistan, fanno male all’umanità e alla sua economia (basta pensare ai rincari petroliferi); ma sono l’ambiente ideale per i profitti del complesso militare-industriale USA.
La stessa economia americana sta colando a picco sotto il peso dei subprime e gli scandali finanziari; ma la prosperità non tramonta su Lockheed, Boeing, Martin-Marietta & co.
Di fatto, quella degli armamenti è la sola industria di successo rimasta in USA.
Un’industria potentissima e avanzatissima.

Un'industria che ovviamente non si espone sul «libero mercato», ma è sussidiata pesantemente dallo Stato, anzitutto  dalle commesse del Pentagono, il massimo spenditore mondiale (oltre 600 miliardi di dollari l’anno) della storia.
I contratti servono a rifilare il surplus, nell’attuale corsa agli armamenti alimentata dalla destabilizzazione indotta dalla penetrazione americana in Asia Centrale, dall’entrata nella NATO dei Paesi del Patto di Varsavia, e dalla «guerra al terrorismo globale» contro il mondo islamico.
I profitti sono enormi, da profittatori.

Anni fa fu rivelato che il Pentagono pagava 1.000 dollari per un’asse del WC per i suoi sommergibili a propulsione atomica, e 8 mila dollari un cacciavite.
I buchi neri nel bilancio, gli stanziamenti imprecisati nascosti sotto il segreto militare, offrono immense pieghe oscure per scandalosi profitti del genere.

Il Pentagono coniugato all’industria è, per gli USA, ciò che la Casta è per l’Italia: il campo di tutte le corruzioni e di tutte le appropriazioni di denaro dei contribuenti.
Ovvio che il complesso militare-industriale finanzi i suoi candidati preferiti: è un investimento per i futuri affari.
Ovvio che, data la sua potenza e onnipresenza, possa permettersi di scegliere il suo candidato preferito.

Il candidato preferito è John McCain.
L'’ex presunto eroe di guerra.
Quello che in una pubblica riunione dell’American Conservative Union ha canterellato, tra gli applausi, «Bomb, bomb, bomb Iran».

«Votare McCain significa guerra», ha scritto recentemente Pat Buchanan.
E Justin Raimondo, direttore di Antiwar.com: McCain «sarà il presidente più militarista dai tempi di Teddy Roosevelt, e forse anche più belligerante».
Theodore Roosevelt, da non confondere con F. D. Roosevelt, nel 1898 condusse personalmente la guerra ispano-americana, comandando di persona una sua squadra di mercenari a Cuba, Rough Riders; divenuto presidente dopo l’uccisione del predecessore McKinley nel 1901, condurrà la «politica del grosso bastone», con infiniti interventi militari in Sudamerica.
Ragion per cui riceverà, nel 1906, il Nobel della Pace.

Che McCain voglia mettersi su quelle orme l’ha detto lui stesso, il candidato preferito.
In Iraq l’America resterà, ha promesso, fino alla «vittoria», dovesse l’occupazione «durare cento anni».
Contro «gli estremisti islamici» ha promesso, se lo votano gli americani, di combattere tutto il tempo che ci vorrà per debellarli.
All’Iran, come presidente, «non consentirà di farsi l’atomica».
In Florida, alle primarie, ha detto che nel futuro dell’America ci saranno «altre guerre», ma che «non ci arrenderemo mai».

Soprattutto, ha attaccato Mosca: la Russia deve essere espulsa dal G-8, e la NATO deve essere estesa all’Ucraina e alla Georgia.
Insomma, guerra anche lì, o almeno una nuova guerra fredda: ottima per il business degli armamenti.
Non stupisce che dietro a McCain si siano schierati i neocon.
Ritiratisi alquanto nell’ombra dopo i disastri da loro promossi in Iraq e in Afghanistan, questi si sono dapprima schierati per il candidato Rudy Giuliani; liquidato Giuliani nella corsa delle primarie, i neocon sono scesi in campo apertamente per McCain, appoggiandolo nelle colonne dei giornali su cui scrivono.

Daniel Pipes e Norman Podhoretz, Rober Kagan e James Woolsey sono al suo fianco.
Il senatore ex democratico Joseph Lieberman ha fatto di più: fa campagna per il candidato repubblicano, e nelle primarie ha invitato «numerosi gruppi ebraici a votare per McCain, sottolineando il suo appoggio ad Israele» (2).
E’ possibile che Lieberman compaia accanto a McCain nel ticket presidenziale: un vicepresidente capace di far rimpiangere Dick Cheney.

Ciò può spiegare la rapida ascesa di McCain nella competizione intra-repubblicana, il ritiro di Mitt Romney e il distanziarsi di Huckabee.
Non si può dubitare della spontaneità del voto delle primarie.
Si potrà solo considerare, con sgomento, che le guerre presenti e future degli USA non sono guidate da un vero pensiero strategico, ancorchè imperiale, ma dal business dell’industria militare in cerca di profitti.

L’espansione della NATO, che mette direttamente in pericolo l’Europa, è decisa dagli interessi della Lockheed più che da quelli di Washington.
Brutta cosa, quando sono le armi a dettare la politica.



1) Justin Raimondo, «The rise of the imperial class», Antiwar.com, 11 febbraio 2008.
2) Philip Giraldi, «John McCain and the neocons resurgence», Antiwar.com, 12 febbraio 2008.  
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