Meno Israele per gli ebrei USA
14 Dicembre 2007
Qual è il criterio che vi indurrà a scegliere per quale candidato votare?
Questa domanda, se rivolta ad ebrei americani, parrebbe ammettere una sola risposta: Voterò il candidato che ha promesso di fare di più per la «sicurezza di Israele».
E invece, un sondaggio condotto nella comunità più ricca e potente d’America ha rivelato che la risposta è: Voterò il presidente che s’impegna di più per l’economia e la disoccupazione, risponde il 23 per cento.
Quello che ha promesso di darci un sistema sanitario migliore, il 19 per cento.
La «sicurezza di Israele» è la prima preoccupazione solo per il 6 per cento degli ebrei americani, a pari merito con la crisi energetica e l’immigrazione incontrollata (1).
Che gli ebrei USA siano meno fanatici dei loro neocon, non è una novità: anche nelle ultime elezioni hanno votato democratico più che repubblicano.
La novità è che la comunità prende sempre più le distanze dalla Lobby israeliana che distorce la politica estera USA in nome del bene supremo di Israele, e che l’AIPAC (American-Israeli Political Action Committee), che intimidisce il Congresso e manovra la Casa Bianca facendo credere di poter mobilitare il voto e i finanziamenti ebraici a suo piacere, ha dalla sua solo il 6 per cento degli ebrei.
L’altra novità, infine, è più generale: come ogni altro gruppo sociale nel mondo occidentale, non si sente rappresentato dai suoi rappresentanti, o da quelli che si autodichiarano tali: ad ognuno la sua Casta.
Ormai sono due terzi, e in aumento, gli ebrei che dicono che l’America non doveva andare a fare la guerra in Iraq, quella guerra in cui gli USA sono stati trascinati dagli ebrei Wolfowitz, Perle, Douglas Feith e il rabbino Dov Zakheim, che diressero il Pentagono nel 2001.
Il 76 per cento degli ebrei dichiara che quella guerra sta andando male o malissimo.
L’Iran, si capisce, continua ad essere in cima alle preoccupazioni degli ebrei americani, contagiati dalla paranoia dei parenti israeliani.
Per il 59 per cento di loro resta il pericolo maggiore, perché «si fa l’atomica» (ma il sondaggio è stato condotto prima dell’uscita del rapporto NIE, che ha smentito l’esistenza del programma nucleare militare iraniano).
Ma anche qui, ecco una novità.
Alla domanda: «Siete dell’idea che gli USA debbano compiere un attacco preventivo per impedire all’Iran di farsi l’atomica?», solo il 35 per cento rispondono sì.
Il 56 per cento dicono esplicitamente che sono contrari.
Due anni prima, quelli che premevano per l’attacco all’Iran erano il 49 per cento, e i contrari il 46.
In contrasto con questa tendenza a rispondere da «colombe» più che da falchi è l’odio per i palestinesi, che è addirittura cresciuto.
Non solo il 55 per cento degli ebrei americani sostiene che i colloqui tra Olmert e Mahmoud Abbas (OLP) «non porteranno alla pace», e tre su quattro che assolutamente non può esserci pace con Hamas, che controlla la striscia di Gaza.
Essi sono contrari ad un patto palestinese autonomo, più di ieri: nel 2004, ad essere favorevoli all’idea erano 57 su cento, oggi solo 46 su cento.
E’ un «odium theologicum», si può dire.
Difatti ha al suo centro la paura che un accordo con la nazione palestinese comporterebbe la condivisione di Gerusalemme come capitale: oggi sono 58 su cento a dichiararsi per Gerusalemme solo ebraica, contro il 52 per cento dell’anno scorso.
E questo irrigidimento non riguarda solo quel 25 per cento di loro che votano repubblicano, il che non sorprende, ma gran parte del 43 per cento che si autodefinisce «liberal», cioè piuttosto di sinistra.
E certo poco osservanti.
Ma anche loro, sono soggiogati dal messianismo che comporta la ricostruzione del Tempio come «coronamento» indispensabile dello stato sionista.
Misteri dell’anima ebraica e della sua ambivalenza: più americani che giudei quando elencano le preoccupazioni politiche e sociali che ritengono più urgenti, ridiventano ebrei più che americani quando si tratta della «città di Sion».
Tale ambivalenza perdurante continuerà ad impedire che lo scollamento visibile tra la comunità e i neocon si trasformi in aperta frattura e rifiuto esplicito di farsi rappresentare dai super-falchi.
Nella comunità americana, la nuova vena di realismo è dovuta alla costosa catastrofe irachena: le promesse dei nuovi profeti (Wolfowitz & C.) non si sono realizzate, non è stata «una passeggiata», e dunque l’attacco all’Iran non sembra più tanto facile.
Ma il messianismo fondamentale (e irrazionale) resta anche nei più secolarizzati (magari come oscuro senso di colpa: gli ebrei americani, meno sono inclini a fare l’alyah, la «ascesa a Sion», tanto più finanziano i coloni fanatici che a Sion si piazzano armati nel cuore dei territori arabi), e così la comunità continua a farsi dettare le direttive dalla minoranza più estrema.
Come quasi sempre nell’ebraismo, vincono i pochissimi che sono «divorati dallo zelo».
Gli zelanti – più precisamente gli zeloti – hanno campo libero per i loro deliri.
Come Ytzak Cohen, il segretario dello Shas (il partito «religioso» che sostiene da sempre I governi più duri in Israele), il quale ha accusato gli Stati Uniti di essere indifferenti al pericolo iraniano, come lo furono davanti all’Olocausto (2).
In Israele infatti, da quando è stato diffuso il rapporto NIE, gli insulti contro la superpotenza alleata, che si sta dissanguando per Sion, si sprecano.
Il ministro Cohen l’ha fatto durante una riunione del governo Olmert: «L’atteggiamento degli americani di fronte a questo rapporto d’intelligence sull’Iran», ha tuonato, «ricorda l’atteggiamento che ebbero a proposito dei rapporti d’intelligence che parlavano di convogli ferroviari carichi di migliaia di ebrei destinati ad Auschwitz; sostennero che erano trasporti di tipo industriale. Come possiamo fidarci più degli Stati Uniti, se pubblicano questo rapporto che castra tutto ciò che il mondo sa sulle azioni dell’Iran (sic) e rende impotenti gli sforzi contro gli iraniani?».
In quella stessa riunione di gabinetto, informa l’agenzia israeliana YnetNews, i ministri si sono trovati d’accordo sul fatto che «Israele deve neutralizzare gli effetti del NIE».
E’ stata decisa la campagna di propaganda per convincere gli scettici che «Israele è in possesso di informazioni certe che l’Iran non ha cessato il programma per farsi la bomba atomica».
Gli europei sono stati i primi oggetti della propaganda, ed hanno subito obbedito, a cominciare da Sarkozy («L’Iran resta un pericolo»).
Più difficile convincere Russia e Cina, che sono nel Consiglio di Sicurezza e che sicuramente useranno il NIE per contrastare le ingiunzioni di indurire le sanzioni contro Teheran.
Ma soprattutto, è stata di nuovo mobilitata la lobby israeliana e i suoi organi in America, dall’AIPAC al Jinsa (Jewish Institute for national security affairs, il centro di collegamento della lobby con i generali USA).
La lobby era già in piena mobilitazione per conto suo, per un motivo tutto interno: il timore che il rapporto NIE tranquillizzasse la comunità, e dunque ne riducesse lo zelo finanziatore e l’appoggio alla lobby stessa.
«Questa è una società dove gli ebrei sono profondamente divisi in politica interna (americana) e anche su Israele», ha detto Jonathan Sarna, docente di storia ebraica alla Brandeis university: «La questione dell’Iran era un tema che unificava tutti».
Ora, la lobby non vuol perdere quella «unità davanti all’Apocalisse» paventata, per quanto irreale sia il pericolo.
Per tener uniti gli ebrei americani, bisogna far loro paura, suscitare i loro antichi terrori e vittimismi (3).
La linea propagandistica è stata messa a punto dall’AIPAC già prima del rapporto: siamo di nuovo al 1938, «l’Iran è la Germania hitleriana, Ahmadinejad il nuovo Hitler e minaccia Israele copn un nuovo olocausto, nucleare».
E’ singolare che l’AIPAC sia convinta che questo vecchio ritornello mantenga la sua efficacia anche dopo il rapporto NIE: ma dopotutto, quelli sono i veri esperti dei misteri della psiche eletta.
Dunque rassegniamoci, saranno servite altre dosi della stessa zuppa: olocausto, Auschwitz, Apocalisse, pericolo esistenziale per Sion «come nel 1938», quando il mondo guardava indifferente allo sterminio prossimo venturo.
Bisogna pur unire gli ebrei americani, sono così distratti….
1) Jim Lobe, «US Jews tilt rightward on Israel», Antiwar.com, 13 dicembre 2007. Il sondaggio è stato condoto fra gli ebrei americani dall’American Jewish Committee, un braccio della lobby.
2) Roni Sofer, «Sha minister : Americans’ attitude to report reminiscent of Auschwitz», YnetNews, 12 dicembre 2007.
3) Larry Cohen-Esses, «The end of Apocalictic unity- It’s still 1938?», The Jewish Week, 4 dicembre 2007.
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