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Lobbysmo
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Il lobbying non è vietato, è ritenuta un'attività legittima, e se ben ricordo (feci un’inchiesta anni fa) è auto-regolato da un codice di comportamento.
I lobbyisti italiani vengono per lo più dal mondo delle «pubbliche relazioni»,  qualcosa tra il giornalismo e la pubblicità.
L’idea è che gruppi con legittimi interessi economici, industriali o sociali, hanno il diritto di farlo presente ai legislatori, difendendoli, e spiegando la loro eventuale opposizione su una legge
(per esempio) che può danneggiarli.

Per far questo, è lecito affidarsi a professionisti che «avvicinano» i parlamentari, i ministri o i consiglieri regionali e forniscono documentazione «di parte» a favore delle tesi dei loro clienti.
Sono vietati «argomenti» consistenti in omaggi, viaggi-vacanze, pranzi e cene, corruzione varia…
Questo in teoria.
In pratica, l’attività di lobby assedia il potere legislativo ed esecutivo così da vicino e in modo così esclusivo da intorbidare il processo democratico, specie nel parlamento di Bruxelles, lontano dagli elettori.
Di fatto, l’unico interesse legittimo che non abbia una sua lobby è l’opinione pubblica, i cittadini in generale.

Il lobbyismo diventa allora una influenza dietro le quinte, di cui la gente è ignara, e che può danneggiare l’interesse generale.
Rischio tanto più grave e presente, quanto più il centro del potere è «vuoto» intellettualmente e moralmente, come i governi oggi (e ancor più la Commissione UE): questi governi o semi-governi concepiscono il loro compito come mediatori fra lobby.

O spesso, anche peggio, sono grati alle lobby perché i lobbyisti a volte forniscono disegni di legge già bell’e fatti, formalmente ineccepibili, che il parlamentare (che non ha tempo di pensare) presenta come farina del suo sacco.
Abolire per legge il lobbyismo sarebbe forse peggio, l’attività continuerebbe ma in modo più occulto e obliquo, ne sapremmo ancora meno.

Ci fu un tentativo storico di portare alla luce gli interessi legittimi che oggi si impongono attraverso l’azione di lobby: la formazione di una Camera dove gli interessi, industriali o sindacali, fossero rappresentati da delegati votati da ogni sindacato o corporazione professionale.
In questo modo, gli interessi non solo venivano «contati» (oggi, chi sa quanto è forte, poniamo, la UIL tra i lavoratori?), ma erano obbligati a dichiarare i loro desideri in un pubblico dibattito, confrontandosi con altri interessi opposti; perché il processo «giusto» non è criminalizzare tutti
gli interessi, ma costringere ciascuno di essi a dimostrare, in pubblico dibattito e contraddittorio, che il loro interesse è «anche» utile a tutti gli altri, o almeno non dannoso.
Ossia, in altre parole, che la via maestra per fare il proprio interesse di sindacato o corporazione, è «tener conto» della società in generale, a cui rispondere.

Questo esperimento storico fu il corporativismo.
Funzionò?
Non funzionò?
Difficile dare una risposta decisiva.
Ma fu il segno che il problema era stato compreso e affrontato.
Oggi è impossibile evocarlo, perché tutto questo è chiuso in una bottiglia di ferro, sotto l’etichetta di «Male Assoluto»: un’etichetta fatta apposta per impedire l’analisi del contenuto.

 
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