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Come imparare di nuovo a vergognarsi?
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Ricevo questa lettera:

«Egregio Direttore,

Ho appena terminato di leggere il suo ultimo articolo “E ci sono anche i Katzoni tra noi” che mi ha pietrificato per la sua lucidità. Ha perfettamente ragione su quanto afferma e a tal proposito le racconterò qualche aneddoto al riguardo. Anni fa, ai tempi delle superiori, vi era un nutrito gruppo di studenti simpatizzanti e/o appartenenti all’area ‘anarchica’ e contestatrice, il quale spesso e volentieri partecipava a ‘manifestazioni pacifiche’ dove danneggiava con zelo e gioia esercizi commerciali e beni pubblici, vantandosene; chiesi loro testualmente ‘ma perché non andate a tirare le pietre contro i camorristi, oppressori e affamatori della nostra comunità’? Alché mi risposero ‘no, perché ci vendono il fumo (hashish)’. Ho assistito anche a pestaggi e risse motivate da beghe calcistiche, odi inestinguibili offerti in sacrificio al gioco del calcio asceso al rango di idolo. Non una menzione relativa ai diritti che ci venivano tolti, alle condizioni economiche generali, ai problemi che di lì a poco ci avrebbero riguardati (travolti)... Niente... Da quel momento, neanche diciottenne, realizzai la vacuità e pusillanimità della mia generazione. Con il tempo, ho avuto ulteriori conferme (come se non bastassero): mentre i reparti della struttura ospedaliera in cui mi sono formato cadevano a pezzi e la didattica degenerava sempre più in un culto autoreferenziale dei docenti, per non parlare delle rette che lievitavano come il pane, i mie colleghi non facevano altro che parlare (ciarlare...) di Grande Fratello (quello televisivo), barche, localini alla moda e altre amenità. La fiera del pensiero stereotipato, il nulla mentale. Dopo la laurea ancora peggio... Alla luce di quanto ho scritto e meditando a lungo sui suoi articoli mi è balenato un pensiero orrendo, da confessionale... e se i talmudisti, dopo tutto, avessero ragione a chiamarci ‘animali parlanti’? Gli si può dare proprio ‘torto’ visto ciò che accade, almeno in Italia?

Distinti saluti

Giovanni B.»



Non ha da pentirsi del suo «pensiero orrendo», caro amico: ridursi ad «animale parlante» è realmente nelle possibilità della libertà umana. L’uomo può scegliere di ridursi al suo essere zoologico. Una libertà di abiezione di cui, tuttavia, noi italiani mi pare tendiamo ad abusare in massa, e con trista voluttà di incanaglimento. I casi di cui lei dà testimonianza, specie la «moralità civile»  di quegli anarchici, la cui «lotta» cessa di applicarsi ai loro fornitori di erba, è amaramente divertente. Scale di valori (chiamiamole così) distorte o rovesciate sono diventate senso comune di massa, comportamenti aberranti sono ammessi e promossi, ultimo esito della «rivoluzione culturale» sessantottina, del «vietato vietare», della «emancipazione» da qualunque autorità e giudizio superiore.

Come prima approssimazione, mi pare che la causa sia l’ottundimento, anzi la cancellazione di un sentimento sociale assai utile e nobile: il sentir vergogna. Il che è un altro modo di denunciare che la cafoneria – questo sedimento ineliminabile dell’italico, originariamente rurale – invece di diminuire col tempo, la modernità e l’istruzione, l’esodo dalle campagne alle città, è diventato sempre più grosso, spesso e grossolano. È infatti il cafone che non si vergogna, poniamo, di parlare masticando con la bocca aperta, di pisciare sul muro o mettersi le dita nel naso, perché ignora quali siano le regole del vivere civile in società urbane. Il cafone originario, lo zappatore, era almeno indecente in modo innocente. Quelli d’oggi, «non si vergognano» protervamente, deliberatamente, con sfida.

Il vergognarsi è un indizio di nobiltà d’animo, almeno di riguardo verso se stessi e il prossimo, il cui giudizio mostriamo di stimare, e ai cui occhi ci rincresce di scadere; per questo la capacità di arrossire è un potente legante sociale, ispiratore spesso di azioni elevate: il pauroso andava all’assalto in una compagnia di camerati animosi per vergogna di farsi vedere vile; in una comunità di frati il neghittoso diverrà zelante, e il ghiottone frugale, per non farsi giudicare spiritualmente basso; nelle società aristocratiche, o dove ancora esiste riconosciuta un’aristocrazia, i plebei si tengono a freno, si sforzano di elevarsi. I borghesi risaliti, imitano le maniere dei nobili. La buona educazione ci guadagna. Ed anche i buoni sentimenti.

Contrariamente infatti a quel che credono i rozzi e volgari, Goethe avvertiva che «vivere a proprio gusto è da plebeo», non da nobile; «il nobile aspira a un ordine e a una legge»: una legge a cui si sottopone volontariamente, e persino per vitale piacere aristocratico (1). Potrei ricordarle le tipiche attività nobiliari come l’ascetica e la cavalleria, attività altamente civilizzatrice dei costumi, per cui il guerriero coperto di ferro non usava la sua forza per violentare la donna, opprimere il debole o derubare l’orfano, perché ciò era «vergognoso». Preferisco ricordare qualcosa a cui nessuno pensa: lo sport.

Eh sì. Lo sport si riduce a gare in cui due uomini, o due squadre, si sfidano e cercano di superarsi atleticamente «allinterno di regole rigorose». Il calcio, che tanto appassiona le nostre tifoserie, è stato inventato dalla nobiltà (britannica) che ne ha anche fissato le regole. Perché vincere rispettando le regole è, per il nobile, più divertente. Ora che il calcio sia diventato uno spettacolo plebeo, di cui i plebei si sono impadroniti, dato che ad essi piace «vivere a proprio gusto», tendono a violare le regole che loro sentono come uno stupido impaccio: molto meglio vincere spaccando le gambe ai calciatori avversari, e se impossibile, almeno le teste ai loro tifosi. Falli, doping, pagamento di arbitri da parte del patron, compravendita di partite, tutto è lecito pur di «vincere». Non riescono a capire, gli ignobili, che con ciò hanno distrutto lo sport e la gara perde significato, e il tutto si trasforma appunto in rissa. Rissa ributtante, e come dice lei «odi inestinguibili» demenziali, o occasionalmente assassini, dove dovrebbe esserci la leale e cordiale rivalità. Dovrebbero vergognarsi e non se ne vergognano: sono cafoni, senza nobiltà alcuna.

Si estenda lo stesso fare plebeo a tutto il resto. Fiorito, la Polverini, apparentemente non hanno mai conosciuto la vergogna. Fini non si è vergognato della famosa villa di Montecarlo al cognato, né del cognato stesso, né di aver promesso «mi dimetto» e non essersi dimesso; e mostra in giro la sua faccia allegra, invece di andare a nascondersi. Rutelli non è arrossito a farsi giudicare un cretino infinocchiato da Lusi per non farsi giudicare ladro. In generale, come noto, mazzette e tangenti non conducono alcun politico a dimettersi per vergogna. Né i magistrati di certe procure hanno ritegno a farsi vedere di parte, trascinando nel fango l’alta funzione giudiziaria.

Bisogna riconoscere che Berlusconi ha dato il maggior contributo, e il più fatale, a questa deriva verso il basso. L’ha fatto coi suoi comportamenti ultimi, con le esibizioni pubbliche del suo sesso a pagamento, le sue Ruby, Olgettine e inrumatrici fatte ministre, per non parlare dei «cucù» fatti durante i consessi internazionali, il far sapere pubblicamente di ritenere la Cancelliera «una culona inscopabile», le barzellette sporche da commesso viaggiatore, e il grido da zappatore campagnolo quando inseguì «mister Obama, mister Obama!» nella famosa riunione del 2009:



Ovvio che un simile sesquipedale cafone senza ritegno abbia creato il sistema TV più diseducativo che sia mai esistito: coronato dal Grande Fratello o dalle trasmissioni della De Filippi, che hanno cancellato nel cuore delle plebi italiche l’ultima regoletta della decenza a cui restavano bene o male fedeli: «I panni sporchi si lavano in famiglia». Constatato che «si può» lavare i propri più schifosi panni, non escluso l’incesto e la violenza su nipotine, davanti a cinque milioni di guardoni, e che anzi questo viene applaudito come trasgressivo (cioè «buono», «progressista», come insegna la Sinistra Intelligente) e porta al «successo», non c’è stato più freno. Le belle ragazze aspiranti veline arruolate da Emilio Fede per le «seratine eleganti» (vertici della mancanza di eleganza, in realtà), sono ovviamente prive di vergogna per questa loro carriera prostitutiva; ma che dire dei loro papà e mamma, fidanzati e fratelli maggiori che le incoraggiavano a darsi al cavalier Pompetta, perché quello paga bene e magari ti fa andare in TV? Sono loro che hanno educato le loro piccole procaci alla prostituzione. Professione lucrosa per chi ha bell’aspetto, l’entrata in essa non può essere frenata che da un elemento impalpabile: il pudore, il rispetto di sé – altresì detto «dignità» – o almeno la prospettiva di esser mal giudicati dai più prossimi. Ma se gli altri non ti giudicano male (anzi), allora l’infamia diventa, per queste superdotate fisiche e subnormali mentali, una legittima via al successo. E scendendo giù giù, si arriva alle ragazzine o ragazzini di 12 anni che si auto-fotografano in atteggiamenti porno col telefonino e inviano le foto a speciali numeri di pedofili, che compensano quegli angioletti con una ricarica telefonica o con regali firmati.

Già, perché succede anche questo: che tra le scolaresche ci si vergogna di non avere – di non potersi permettere – il capo firmato; ma non ci si vergogna di prostituirsi via videocamera, o fare i bulli angariando i compagni perché poveri, perché deboli, per qualche difetto fisico, perché di altra etnia, perché soli. Ovviamente, tali scolari imparano la turpitudine dai genitori; sono loro che danno l’esempio dando importanza assoluta al mostrarsi con la griffe, per non parlare della mamma che «ti presento il tuo nuovo zio, viene a vivere con noi»... Ma la scuola e gli insegnanti hanno del tutto rinunciato per parte loro ad educare alla vergogna; anche gli insegnati dopotutto sono parte del consenso indecente collettivo; non a caso insorgono quando qualcuno propone di valutarli, giudicarli, soppesarli nelle loro capacità. E trovano sempre una grossa parte di politici, ancora più svergognati, che gli danno ragione.

Provate a proporre la divisa per scolari e studenti – ottimo metodo per annullare le differenze sociali e di soldi, di educare all’eguaglianza fra cittadini, allo spirito di corpo (e coesione sociale) e al senso della decenza in comunità – e gli stessi «educatori» (cosiddetti) saranno con veemenza contrari: vietato vietare, «le conquiste del ‘68», eccetera. I politici svergognati non si dimettono e, non si nascondono, perché non si sentono addosso la condanna dell’opinione pubblica, che anzi li invidia. Così, i programmi della De Filippi e in generale la produzione Mediaset, chi deve oscurarli? Dovrebbe essere il biasimo e la nausea del pubblico a decretarne il fallimento, visto che non è possibile sottoporli a censura, perché a difendere quella sconcezza scenderebbero in campo Repubblica, l’Espresso, le sinistre-intelligenti tutte, in nome della «libertà di pensiero» e «di opinione». Senza aver riguardo, e ritegno né vergogna, del fatto che difendono l’osceno cespite dell’odiato miliardario Berlusconi. Ma si vede che le ragioni dell’indecenza sono più forti, nel senso comune dominante, perfino del cieco parteggiare, dei travolgenti odi di pancia.

Perché? Perché questo popolo ha avuto sempre bassa la soglia di tolleranza dell’onore e dignità, ed ora bassissima? Una volta ritenevo che, nonostante tutto, la società si reggesse e andasse avanti sulle spalle di una maggioranza – forse troppo silenziosa – di gente onesta, che educa i figli ad aver pudore e dignità di sé, che si vergognerebbe di fare quel che fanno Berlusconi, Fini, le veline, Marrazzo, e se scoperti, si nasconderebbero, non farebbero più parlare di sé; oggi temo siano ormai una minoranza.

Qualche lettore denuncia il potere antico della Chiesa – «materna» e come tutte le mamme, indulgente coi figli mascalzoni – e il cattolicesimo, che relativizza il peccato (ci si può confessare) e non educa allo spirito civico. L’accusa deve avere qualche fondamento. Ma io mi chiedo se l’attuale sconcezza e impudenza di massa, la perdita totale della salutare vergogna, non sia invece l’esito compiuto della secolarizzazione, la finalmente completata «liberazione» dai terrori delle punizioni divine, dalla Chiesa e da Dio. E da ogni «padrone».

Con ciò, non nego che la Chiesa, nelle sue gerarchie, abbia secondato incoscientemente questa «liberazione» dal rispetto di sé. Ma per una via inattesa. Un sociologo marziano che scendesse tra noi, senza conoscere la scrittura né la nostra storia, si accorgerebbe del fatto che da noi è avvenuta una gravissima crisi della fede, solo osservando come sono cambiate le chiese. Per duemila anni, queste hanno avuto un preciso centro geometrico e prospettico, a cui gli sguardi di chi entrava si volgevano immediatamente e spontaneamente: quella cassetta chiamata «tabernacolo», spesso assai ornata artisticamente, foderata d’oro dentro e fuori; di colpo, da cinquant’anni circa, la suddetta cassetta dorata è stata messa letteralmente da parte. Nelle chiese antiche, pre-crisi, è stata spostata in qualche cappella laterale; nelle moderne, è spesso già concepita «fuori asse» rispetto al centro nel progetto iniziale.

Che cosa è accaduto?, si chiederà il sociologo marziano: quale rivoluzione teologica ha avuto luogo? È cambiato l’oggetto della fede? L’antico Dio ha perso d’importanza, chiaramente. O forse, si è cominciato a vergognarsene? È stato soppiantato da quale altra divinità? Nel centro prospettico svuotato dal tabernacolo, adesso, c’è per lo più un nudo tavolo di pietra o altro minerale sintetico, che per dimensioni e praticità senza fronzoli ricorda un tavolo da obitorio, dove si eseguono le necroscopie.

E non parliamo della pianta degli edifici di culto. Il tema architettonico davvero «centrale» per secoli, il tempio, che gli architetti sapevano benissimo interpretare pur nel succedersi degli stili, è diventato incerto. Per secoli, le chiese hanno avuto per lo più forma di croce, e più raramente pianta centrale; da un cinquantennio circa, sempre più la chiesa viene interpretata come auditorium (cosa che non è mai stata), quando non una qualunque variazione dell’hangar, della sala d’aspetto di grandi stazioni e aeroporti, e perfino della Banca, insomma ai non-luoghi senza senso che costituiscono i «grandi» temi delle archistar.

Il Sacro Cuore di Gesù a Monaco di Baviera


Interno





La chiesa di Fuksas a Foligno


Quale nuova concezione del divino, quale sovversione liturgica, ha fatto sì che gli antichi fastosi portali, a strombo, ed ornati di statue di santi e leoni ipostili, e per secoli architettonicamente sottolineati con energia, siano stati sostituiti da porticine modeste da ufficio di fabbricazione in serie (vedi la chiesa di Monaco di Baviera) o addirittura sottratte alla vista sotto una feritoia cavernosa?

Il messaggio dell’architettura è chiaro: un tempo era «Entra, qui è la Casa del Signore»; oggi è «Entrata consentita solo al personale addetto», oppure: «Meglio se stai alla larga, pericolo di carichi sospesi» (Fuksas). E infatti, chi entra nella chiesa di Fuksas viene sùbito oppresso da pesanti masse di cemento a vista, minacciosamente sospese, pronte a schiacciare ogni minimo tentativo di devozione.

Non commentiamo quello che gli architetti moderni chiamano, con orrendo termine produttivistico, «il trattamento della luce» di tali edifici. Il nostro marziano vedrà che nelle chiese antiche la luce – questo simbolo dell’illuminazione spirituale – è trasformata in modo indefinibile ma inequivocabile: nella nuda semplicità guerresca degli interni romanici, come nella fantasmagoria di colori delle cattedrali gotiche, la luce crea uno spazio che è insieme solenne e interiore, una penombra piena di maestà che invita ad inginocchiarsi; nelle chiese d’oggi, la luce è «quella di fuori», non trasformata nè «trattata»: la luce anonima e neutra, ancorché inondante, degli aeroporti e delle stazioni centrali. Di fatto, anche la luce è «secolarizzata», privata di religiosità e intimità. Il nostro marziano non potrà fare e mano di indovinare la grave crisi di fede che stiamo attraversando, dal fatto che le chiese racchiudevano una volta quadri, statue, affreschi colonne e capitelli animati e figurati: in breve, racchiudevano uno spazio intensamente bello, poetico, nobile, significativo. Oggi, gli spazi architettonici sono privi di vita, di figure umane, di storie sacre, e assolutamente insignificanti. Sono spazi in cui nessuno, fra una funzione e l’altra, entra volentieri per stare a tu per tu – con Chi, del resto? Con Quello messo da parte, o fuori dal centro.

La sorpresa del marziano sarà completa, se apprenderà che questo rovesciamento della teologia, questa secolarizzazione ed insignificanza totale dello spazio ex-sacro, non è stato prodotto da una rivoluzione dal basso, da masse di sediziosi anabattisti o fratelli del libero spirito, di nuove fedi eretiche che hanno conquistato le plebi assetate di innovazioni; no, sono state le gerarchie ecclesiastiche a volerla, spesso contro le proteste dei fedeli, a cui sono state del tutto sorde. La Chiesa di Fuksas è stata scelta, autorizzata ed approvata dalla Conferenza Episcopale Italiana. Come tutte le altre orribili, non sarebbero state mai edificate senza l’approvazione del vescovo locale. La rivoluzione è stata decretata dall’alto.

Non si vergognano?, vien da chiedersi. No, non si vergognano vescovi e cardinali, perché hanno fatto questa rivoluzione dall’alto con la buona intenzione di «avvicinare il Vangelo all’uomo moderno», di venire incontro alla sua supposta insofferenza del mistero, delle liturgie complicate, al suo presunto rigetto di quel che è elevato e non-concreto. Il risultato è stato di privarlo di uno degli ultimi spazi dove poteva respirare la bellezza del generoso e libero sottoporsi ad una severa nobile norma di salvezza, ad una liturgia precisa «ne varietur» come sono le esecuzioni di Bach, di sottrargli uno degli ultimi rifugi di «significato» forte in un mondo sempre più insignificante e insensato, dove ogni cosa vale l’altra, ossia nulla.

Sbaglierò, ma quello è il chiodo a cui sta appesa una società del riserbo, della pudicizia, della educazione. Divelto quello, è caduto tutto (2).

E siccome l’uomo non vive senza liturgia, la massa di senza-vergogna così educata a non arrossire più, se ne inventa altre: meglio se stupide. Il flashmob dello Gangnam ne è un esempio, inventato da agenzie pubblicitarie. La discoteca ne è un’altra, il farsi di coca o di fumo ancora un’altra. Passate le domeniche nei mega-shopping center è un’altra. Sono liturgie adatte ad una umanità che nessuna istanza superiore invita a fare della propria vita una forma d’arte, a scolpirla con fatica per l’alto e l’eterno, nella visione delle cose belle; e nel rifiuto degli atti e costumi e comportamenti che, prima ancora di essere delinquenziali, sono «brutti» e «ignobili». Ci si deve educare a vergognarsi, come Michelangelo e Leonardo furono educati all’arte loro andando a bottega come apprendisti: prima con fatica (imparare è sempre agro, inizialmente), poi con insuperabile perizia, maestria, creatività ed espressione di sé.

Da tutto questo ci siamo collettivamente «liberati». I vescovi dall’architettura sacra, i politici dall’obbligo di non dare cattivo esempio, i genitori dal dovere di mettere in riga i figli devianti – e non sanno nemmeno che cosa sia la deviazione, visto che anche loro deviano. Ai politici che stanno cambiando le leggi elettorali a loro piacimento, «se no Grillo si prende troppi seggi» –impudentemente, giù giù fino alle dodicenni che si vendono col cellulare, fotografandosi «là» per una ricarica. Tout se tient, ciò che è in basso è come ciò che è in alto – per parafrasare la Tavola Smeraldina, ma in tutt’altro senso nient’affatto esoterico.

È evidente che l’abolizione della vergogna è una grave patologia della società. Una società che non è capace di «far vergognare» i suoi membri impudenti è una società malata, dove s’è inceppato un meccanismo essenziale di miglioramento collettivo. E dove tutti sono contro tutti, tutti si danno fastidio a vicenda per maleducazione, imponendo l’uno all’altro piccoli e grandi soprusi (fino al «femminicidio della compagna» o ex-compagna, di cui ora è di moda deplorare gli effetti ma non le cause), divisi in tutto salvo in una cosa: nello zittire corale di chi si prova a gridare: «No! Questo è vietato! Disciplina! Ordine! Decenza!».

Tra l’altro, l’effetto è l’avanzare di tipi umani ameboidi, mollicci, senza carattere e senza nerbo, senza personalità (3). Sono (siamo) sempre più quei residui spettrali che il latino chiamava larvae, lemures, manes: «io» incompleti che nemmeno hanno lo status di fantasmi. È anche l’istupidimento collettivo. Come ha notato lei fra i suoi colleghi, laureati in medicina, la stupidità e la vuotezza dilagano, e sono esibite senza pudore. È che quella che dovrebbe essere una classe dirigente, esemplare cioè, modello per i più piccoli, non sente questo impegno. Appena laureato, l’italiano medio conclude «ho studiato anche troppo» e non apre più un libro né affronta più un argomento serio, se non strettamente necessario alla sua professione. La non-classe dirigente si accomoda e si contenta di essere quello che già è, senza fare alcuno sforzo ulteriore. Come avrà notato – è impossibile non notarlo – dilaga, anche nei ceti socialmente alti, una mancanza non solo di carattere e di stile ma di cultura generale e d’intelligenza, che tipicamente si manifesta in questo: una difficoltà enorme e crescente di cogliere le idee generali, i problemi complessivi – e di conseguenza, l’incapacità di prevedere ciò che certe derive provocheranno. «Ma no! Lei è un catastrofista!», sa quante volte ce lo siamo sentito dire. E quando la catastrofe predetta si avvera, vengono colti di sorpresa, e nemmeno si ricordano che qualcuno l’ha predetta: hanno la memoria corta, come gli ottentotti e i gatti. Sicché il nostro Paese ha bisogno, evidentemente, di una rifondazione radicale, di uno sforzo intellettuale approfondito, filosofico ed analitico senza indulgenze, con la partecipazione più vasta possibile delle migliori menti e dei cuori più nobili: macché, si procede per rappezzature, con leggine «per non far vincere l’antipolitica» (e tenersi i milioni indebiti), per mantenere posizioni lucrose e comode per alcuni quanto rovinose per la società, con derive golpiste che continuiamo a chiamare «democrazia», scardinando quadri normativi, affettando indecenze sempre più ributtanti, soprusi più iniqui e che gridano vendetta al cospetto di Dio, e ritenendo che però tutto continuerà più o meno come prima.

Per questo ho preconizzato che questa società finirà come le sudamericane, sotto il tallone di qualche criminalità organizzata sempre più potente e svergognata. Perché questa società senza onore, questa società disonorata, non può che finire sotto il dominio di qualche Onorata Società: quella che si regge su norme di ferro, su apprendistati duri, su lealtà e gerarchie indefettibili, che ha tutto intatto il sistema delle pene per i trasgressori, compresa ovviamente la pena capitale che noi abbiamo abolito, credendo di avere strappato una «conquista». Provate a «emanciparvi» da quelli, e sapete cosa vi capita.





1) Vertice di questa attitudine aristocratica, è il pensiero del nobile kshatrya, figlio di re, che divenne il Buddha. Raggiunta l’illuminazione e la liberazione assoluta, si disse: « È male vivere senza aver niente da venerare, non aver da obbedire», e cercò nel vasto universo qualche essere a cui sottomettersi. Non avendolo trovato, concluse: «Devo dunque onorare e venerare questa Legga (Dharma) in cui ho ottenuto la totale illuminazione; vivrò sotto di essa» (citato da H. De Lubac, Aspetti del Buddhismo, Milano, 1980. pagina 146). I plebei e volgari d’animo s’immaginano che i re, come ricchi, vivano a proprio gusto, facciano quel che vogliono, eccetera. In analoga vena Gesù (il Re) avvertì di «non essere venuto a cambiare uno iota della Legge»: lo diceva essenzialmente per quegli ebrei, per i quali l’avvento del Messia significava «liberazione» del popolo eletto dalla Legge, specie delle leggi contro l’incesto...
2) A maggior esplicita chiarezza, riporto una citazione di Julius Evola: «Il terminetradizionalenulla ha da spartire con il termineconservatore’. Una Società Tradizionale non è tale perché adotta le leggi, i costumi e i precetti morali del passato, il che sarebbetradizionalismo’, un ridicolo scimmiottamento di ciò che è già superato, bensì perché si rifà alprincipio tradizionale’, il quale afferma che allinterno di una collettività che voglia dirsi in linea con levoluzione del Cosmo, tutti i cittadini si dedicano alla propria realizzazione interiore, ognuno al suo livello e in accordo con le caratteristiche personali. In una società autenticamente tradizionale lelevazione spirituale dellindividuo è vissuta come lunico scopo della vita cosciente di un essere umano. Ogni altra attività, politica, economica, scientifica, educativa, artistica, ruota intorno a tale principio e ne è la manifestazione».
3) Lo Zarathustra di Nietzsche (il grande trasgressore), ricorda beffardamente a chi, troppo umano, aspira a sciogliersi da ogni vincolo, che col legame rischia di gettare anche l’unico valore che lo costituiva. Dopo, non resta più nulla.

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