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L’Europa sempre sottomessa
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Più di un lettore pone domande sull’evento storico, tremendo e grandioso, che si profila: la rapidissima caduta dell’unica superpotenza rimasta.

«Sono convinto quanto Lei», scrive uno, «che la superpotenza minidotata, gli Stati Uniti, siano sull’orlo del baratro, è altrettanto facile prevedere una (lunga?) fase di transizione confusa nel Paese, tale da poter portare a grossi disservizi, carenze e deficit anche nell’apparato militare.
Non credo sia uno scenario irreale il configurarsi di una fase di stallo, anche decisionale, nei vertici delle forze armate statunitensi; ebbene una situazione di questo tipo genera in me paura e una domanda, la paura è legata ad azioni sconsiderate da parte di singoli generali, un po’ alla ‘dottor Stranamore’.
La domanda invece riguarda le basi NATO sul nostro territorio, cosa ne faremo? Saranno mantenute in efficienza le postazioni di lancio, i missili, l’arsenale in genere presente sul nostro suolo?».

Difficile prevedere, caro amico.
Solo di una cosa sono abbastanza sicuro: non ci saranno fughe in avanti di generali-Stranamore.
I generali USA, umiliati dalla realtà, sono oggi i meno inclini ad impegnare le loro forze
(di cui conoscono l’usura) in una nuova guerra.
Il vero pericolo di avventurismi e fughe in avanti viene, come sempre, dai civili: quegli strateghi da tavolino che non avendo mai visto una guerra, credono ancora nelle fantastiche capacità delle super-armi di garantire un’egemonia già persa.

Specificamente, i neocon, quelli che hanno trascinato l’America nei pantani afghani e iracheni: questa gente approfitta del vuoto di leadership americano (indice primario della crisi: alla Casa Bianca c’è il vuoto) per agitare fantastici scenari o sogni di potere globale, che per quanto irreali non sono meno pericolosi.
Di recente un guru dei neoconservatori, Robert Kagan, si rallegrava della tensione fra Europa e Russia, creata da questioni come i missili (USA) piazzati in Polonia e il riconoscimento
del Kosovo (1).

La sua proposta: trasformare queste tensioni in «fratture», onde arrivare ad un conflitto armato con la Russia sul suolo europeo.
«Una crisi in Ucraina, che vuole unirsi alla NATO», scrive il fanatico, «può portare ad un faccia a faccia diretto con la Russia. E le dispute tra il governo georgiano e le forze separatiste di Abkhazia e sud-Ossetia, sostenute dalla Russia, possono salire fino a un conflitto militare tra Tbilisi e Mosca. Allora, un conflitto più vasto può essere preordinato».

Questo conflitto è benvenuto, sottintende Kagan, perché assicurerà la sottomissione dell’Europa disarmata al suo protettore storico (Washington) compensando la perdite di egemonia americana in Asia.
E’ per questo, in fondo, che Washington ha voluto fortemente, con pressioni inaudite sugli europei, il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo: creare problemi e ferite aperte in Europa, onde perpetuare il bisogno di «sicurezza», fornitoci - presuntivamente - dagli Stati Uniti.
Praticamente ogni attrito dell’Europa con Mosca è stato causato non dall’Europa (né da Mosca), bensì da decisioni americane.

Washington capisce che non può più esercitare il controllo sul mondo, e rafforza il suo controllo sulla UE, il suo cane d’appartamento, già domestico.
Solo con la UE, con il suo enorme mercato, gli USA sono ancora qualcosa di fronte alla Cina.
Non siamo noi che abbiamo bisogno di loro, ma loro ad aver bisogno di noi.

Si noti: questo Kagan può diventare un ministro nell’amministrazione McCain, se il repubblicano preferito dall’industria degli armamenti verrà eletto.
Folli ma lucidi, i neocon conoscono bene il riflesso cui cede l’America quando cade - com’è già accaduto nel ‘29 - in una «très grande dépression» economica: il riflesso dell’isolazionismo, del ritirarsi dagli affari del mondo, a curare le sue ferite sociali ed economiche nazionali.
Il ridimensionamento delle ambizioni globali.
Essi sono decisi a impedirlo, in nome del business multinazionale, della finanza, del complesso militare-industriale e del «destino manifesto».

Oggi, Bush implora l’Arabia Saudita di aumentare la produzione di greggio («Danneggia le nostre famiglie, la benzina cara fa male alle nostre famiglie»), e ne riceve un rifiuto.
Robert Gates, il capo del Pentagono, esige con arroganza dall’Europa che mandi più truppe a morire in Afghanistan, nella guerra voluta dagli USA e in cui l’Europa non ha nulla da guadagnare.
Sei anni fa, Rumsfeld rifiutò l’aiuto militare europeo.
Oggi gli eurocrati sarebbero ben lieti di obbedire scodinzolando, ma le opinioni pubbliche europee non lo tollererebbero.

Ecco l’altra parte del problema del tramonto della superpotenza: l’Europa resta, nei suoi «governanti», servile.
Il rischio è che obbedirà anche a Kagan, se diventa ministro.
Nonostante la palese impotenza crescente della superpotenza, la UE e gli staterelli-membri continuano a piegarsi alle sue arroganze.
Il sito Dedefensa, con le sue ottime entrature a Bruxelles, ne dà un esempio (2).

Particolarmente penoso per noi, perché riguarda «una fonte italiana di alto livello vicina a Prodi», «una fonte che fu vicina al primo ministro, nel suo governo, lungo tutta la durata del governo».
A questa fonte italiana ministeriale (Parisi? D’Alema? Ricardo Franco Levi?) il giornalista fa domande a proposito del Joint Strike Fighter, il supercaccia fortemente voluto dagli americani, che altri Paesi europei hanno rifiutato (inutilmente costoso, per le minacce presenti e del tutto superfluo nelle guerre coloniali che paiono essere il nostro destino), ma che Berlusconi ha abbracciato con entusiasmo, e Prodi non ha affatto cancellato.
Ebbene: la «fonte», invece di pronunciare le frasi diplomatiche d’uso («E’ un buon programma, ovvio che lo abbiamo proseguito») si mette a piagnucolare sulle pressioni che il governo Prodi ha ricevuto da Washington.

Le frasi testuali, riportate da Dedefensa: «Non potevamo fare niente; c’è stata una tale pressione, una tale costanza nella pressione, che ha impregnato tutto il nostro sistema politico. Siamo letteralmente prigionieri. E’ molto più che una normale situazione di ‘influenza’. E’ una situazione che è insita nella psicologia e nella stessa sostanza del nostro sistema politico».
E' una agghiacciante confessione, da leggere su più livelli.
Si ha paura di un «alleato» di cui s’indovina la follia, l’irrazionalismo disperato, ma ne «siamo letteralmente prigionieri».
E questa prigionia non viene dalla potenza dell’alleato, ma dalla «psicologia e dalla sostanza stessa» del nostro sistema politico.

Cinquant’anni di subordinazione hanno creato un’abitudine alla dipendenza, che non si sa né si vuole scuotere.
Perché bisognerebbe ripensare in termini di strategia e geopolitica, e non solo i nostri cosiddetti governanti non ne sono capaci, ma nemmeno sospettano che la geopolitica e il pensiero strategico mondiale servano a qualcosa: per loro «politica» è la sceneggiata tutta interna e meschina che ci offrono ogni giorno.

Berlusconi resta fisso nel suo filo-americanismo ormai insensato, senza nemmeno intuire che l’America presto si rimpicciolirà all’orizzonte, dopo chissà quali colpi di coda.
Veltroni non ha mai detto nulla in politica estera.
Entrambi, credo, pensano che l’alleanza-subordinazione con gli USA, e la durata della NATO, la fede nella invincibile potenza USA, e nella sua cosiddetta democrazia (che si è trasformata in uno Stato di repressione) «vadano da sé».
La consapevolezza che esprime il nostro lettore, e che rende fremente la sua preoccupata domanda: che cosa accadrà?, non li tocca nemmeno, i nostri politici.

Che cosa accade quando tramonta un impero, anzi precipita in una sorta di follia apocalittica, incapace di commisurare i fini ai mezzi, affidato ai Kagan e ai Wolfowitz?
Quali le conseguenze del fallimento della sua ideologia primaria, «l’internazionalismo capitalista» che ci ha travolto tutti nella globalizzazione speculativa?
Quali autarchie dobbiamo ristabilire rapidamente?
Quali instabilità e destabilizzazioni dobbiamo prevedere, per schivarle?
Quali alleanze stabilire?
Qual è, nel disordine mondiale, il nostro interesse nazionale?
I nostri politici non se lo domandano, e nemmeno sanno che devono domandarselo.

Uno torna al ponte di Messina, l’altro al «si può fare», al centrismo para-democristiano.
Chi dei due vincerà e ci governerà importa poco: sappiamo che saranno inadeguati al compito dei tempi nuovi e calamitosi che ci attendono.
Per esempio, le conseguenze di un dato che già si manifesta nel mondo, e che Flynt Leverett, analista di geopolitica dell’energia alla New America Foundation, ha espresso così (3):
«Una ‘comunità’ di potenze industriali e di esportatori d’energia largamente non democratici (secondo la concezione USA) sta già fondando le basi per una reciproca collaborazione strategica, intesa a limitare la capacità americana di adempiere ai suoi progetti egemonici».

Ecco un’analisi adatta ai tempi: di fronte a un’America indebolita e indebitata e schiacciata dalla sua stessa corazzatura militare, sale il blocco in formazione di potenze reali (industriali come la Cina, esportatrici d’energia come Russia e Iran e Paesi del Golfo) che già oggi contrastano insieme le pretese mondiali di Washington.
Questa è già la nuova figura del mondo: la forza reale sta in potenze «non democratiche» e ben consce del rischioso momento e del proprio interesse nazionale.
E noi?
Dovremmo chiederci con chi stare, come situarci.

Invece, riconosciamo il Kosovo, «Stato indipendente» che ha bisogno di assistenza e difesa, spina nel fianco che non serve a noi, ma alla superpotenza in precipitoso declino.
Perché è «l’alleato che ci ha liberato dal fascismo», come diceva Enzo Biagi.
Perché «ne siamo prigionieri»: prigionieri anzitutto psicologicamente.
Prigionieri, in fondo, della nostra stupidità, servilità, arretratezza intellettuale.


1) Citato da Ulrich Rippert, «NATO security conference: US demands more european troops in Afghanistan», WSW, 13 febbraio 2008. L’articolo di Robert Kagan si intitola «The battle of Century», «La battaglia del secolo». Kagan è quello che, mentre Bush innescava le sue guerra, ha inventato lo pseudo concetto che l’Europa è «Venere» imbelle, mentre l’America è «Marte».
S’è visto.
2) «L’impuissance, l’ingérence et le JSF italien», Dedefensa, 18 febbraio 2008.
3) Jim Lobe, «Can the US brace its fall?», Antiwar.com, 18 febbraio 2008. «A ‘community’ of largely non-democratic manufacturing powers and energy exporters is already laying the groundwork for real strategic collaboration, aimed at limiting America’s ability to carry out [its] hegemonic agendas, Leverett, who served in the National Security Council under Bill Clinton and Bush, wrote recently in the National Interest journal published by the Nixon Center. As a result, the degree to which Washington can slow its decline and preserve its primacy will depend increasingly on its willingness to suppress its unilateralist reflexes and ‘to take account of the perceptions and interests of others in its foreign-policy decision-making’, according to Leverett».


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