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Il mistero di Israele tra storia e profezia
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Questo articolo nasce dalle sollecitazioni provocateci da una mail ricevuta da un lettore israelita
a riscontro del nostro precedente intervento sulla «teologia civile d’Occidente» (1).
Questo lettore paventa nel suo messaggio l’intenzione che dietro l’articolo da lui «censurato» vi sia la volontà di unire due presunti integralismi, quello ebraico dei Neturei Karta e quello cattolico. Vorremmo rassicurarlo che non è affatto questa la nostra intenzione, anche perché, come vedremo, non vi è in entrambi i casi nessun integralismo.
Per chiarire i nostri personali e cristiani sentimenti verso i «fratelli maggiori» ripetiamo qui quel che abbiamo già avuto modo di dire altrove: se avessimo avuto una figlia l’avremmo chiamata Miryam, che come è noto in ebraico sta per Maria.
Devozione alla Madonna, certamente, ma rievocandone l’originario nome ebraico.
Dunque da parte nostra nessuna immotivata ostilità verso i «fratelli maggiori», ma solo una consapevole presa di distanza teologica.
Distanza necessaria proprio al fine di parlarci, tra ebrei e cristiani, con chiarezza senza le ambiguità di un troppo facile ecumenismo e, sopratutto, nella reciproca ma non falsata conoscenza: l’hegeliana «notte in cui tutte le vacche sono nere» non giova a nessuno.

Gli ebrei, lo insegnano San Paolo nella Lettera ai Romani e l’Apocalisse, hanno un ruolo escatologico unico: il giorno in cui essi riconosceranno la Divino-Umanità Messianica di Cristo saranno reinnestati nell’Olivo santo, tutto Israele sarà ricomposto e l’intera creazione avrà il suo adempimento nella gloria della Gerusalemme Celeste e nella trasfigurazione cosmica all’apparizione dei «cieli nuovi e della terra nuova».
Dalla conversione degli ebrei a Cristo, riconosciuto non come «ebreo» secondo quanto sostengono i cristiano-sionisti americani ma come Uomo Universale e Figlio di Dio, dipende il compimento sovra-storico ed oltremondano della vicenda temporale dell’umanità.
Diciamo questo con tutta la necessaria cautela.
Siamo infatti perfettamente consapevoli che questi temi devono essere affrontati con ponderazione e ben spiegati onde evitare che vi possano essere ricadute improprie ed illegittime.
Il pericolo da evitare è sempre quello del millenarismo: che è un’errata interpretazione dell’escatologia, per la Chiesa è un’eresia, consistente in una confusione tra piano storico e piano provvidenziale.
Il millenarismo traspone nella storia ciò che è oltre la storia e pretende di rinchiudere in prospettive esclusivamente mondane, nei termini di un progetto politico volto a realizzare in terra la Gerusalemme celeste, ciò che invece appartiene soltanto alla Trascendenza.
Proprio in base ad una errata interpretazione, di questo tipo, dell’escatologia, interpretazione che imputava agli ebrei il fatto che non accettando la conversione impedivano l’avvento del «millennio», derivarono i massacri delle fiorenti comunità ebraiche centro-europee e danubiane da parte delle masse di pellegrini diretti in Terra Santa nel 1096 durante quella che oggi chiamiamo prima Crociata (le Crociate, infatti, non furono né guerre sante né guerre di religione, ma «pellegrinaggi armati»).

Quelle masse di pellegrini erano guidate da predicatori millenaristici di dubbia regolarità ecclesiastica, come Pietro l’eremita, ed erano animate da un’esaltazione chiliasta a sfondo pauperistico: si trattava per lo più di gente che aspettava l’avvento in terra e nel tempo storico di un «regno messianico di giustizia e di pace assoluta» (molti erano poveri, ma altri erano nobili espulsi dai processi di trasformazione sociale in atto nell’Europa del tempo o in cerca di una nuova e miglior vita).
I cardinali ed i prìncipi reali che pur parteciparono all’impresa faticarono molto a tenere a bada queste masse e, al momento del loro passaggio germanico-danubiano, dovettero intervenire, a sedarle, i vescovi tedeschi, il re d’Ungheria e l’Imperatore in persona (certo per mantenere l’ordine civile e per difesa dell’economia della zona, cui quelle comunità apportavano molti benefici, ma anche per doverosa carità cristiana).
Ricordiamo tutto questo per dire agli eventuali lettori di religione israelitica, sempre pronti a leggere le cose in senso esclusivamente «ebreocentrico», che la storia è complessa ed è assolutamente sleale ridurla a stereotipi e luoghi comuni per imputare, come sembra voler fare il lettore che ci ha spedito la mail di cui sopra, alla Chiesa cattolica le colpe umane di uomini del passato.
Colpe che invece devono essere comprese nel contesto del loro tempo e giudicate con i criteri propri di quei tempi.
Questo naturalmente se si vuol fare storia: dove non ci sono «buoni» e «cattivi», ma uomini con i loro limiti, le loro debolezze, i loro eroismi.
Nell’articolo sul «Betulla» ricordavamo, senza remore, che in passato vi è stata una cattiva prassi pastorale che ha comportato, certamente, errori da parte dei cristiani e che, mentre la sorveglianza sul piano pastorale da parte della Gerarchia non deve mai venire meno, bisogna, al tempo stesso, tenere distinto il piano teologico da quello pratico e non confondere la necessità di un cambiamento di comportamenti, da ispirare senza dubbio a maggior carità (reciproca, però!), con la Verità teologica che, nel caso di cui ci occupiamo, è per i cristiani quella per cui i «fratelli maggiori», lo vogliano essi o meno, versano in una situazione, spiritualmente equivoca, che li pone nella condizione di «rami recisi» dall’Olivo, di «tralci» staccati dalla Vite.
Il lettore nostro interlocutore ci ricorda che il popolino durante il Venerdì Santo assaltava i ghetti.
E’ vero: anche se non in assoluto, non sempre e non ovunque.

Ma è anche vero, e quasi mai viene ricordato come si dovrebbe, che spesso furono proprio i vescovi ed i Papi a frenare il popolino.
Che le violenze contro gli ebrei fossero dovute alla preghiera «pro perfidis judaeis» o alla errata predicazione (ecco: come si vede torna la questione dell’errata pastorale!) di frati esaltati è solo in parte vero, in misura molto meno determinante di quel che generalmente si pensa a causa di una storiografia impostata acriticamente su criteri «ebreocentrici» e sovente anticattolici.
La preghiera per i giudei e le predicazioni esaltate andavano, purtroppo, ad accendere la scintilla di situazioni sature da ben altre tensioni a sfondo politico-economico che avevano al centro, soprattutto, la pratica finanziaria degli ebrei.
Una pratica sovente portata avanti dalle comunità ebraiche in maniera molto più onesta dei loro concorrenti cristiani ma che, con i salatissimi interessi praticati in quelle epoche, pesava indubbiamente sulla povera gente.
Interessi pesanti erano praticati, senza dubbio, anche dai banchieri cristiani che avevano buon gioco nello scaricare l’odio popolare verso i loro concorrenti ebrei.
Ebbene: in tutto questo erano tirate in ballo, strumentalmente ed illegittimamente, le questioni teologiche.
Ora, con tutta sincerità, nessuno può seriamente, da un onesto punto di vista storiografico, imputare alla Fede cristiana ed alla Chiesa la responsabilità di fatti storici che hanno ben più prosaiche cause, per quanto uomini di Chiesa e predicatori incoscienti, che erano però anche uomini del loro tempo e quindi soggetti ai condizionamenti storici di quel loro tempo, possano avere contribuito con una cattiva pastorale ad alimentare, magari inavvertitamente, l’incendio anziché sedarlo (2).
Ma, ripetiamo, questo non accadeva sempre, di norma, perché, generalmente, la Chiesa era, ed è, diffidente verso gli entusiasmi popolari troppo spontanei ed incontrollati.
Molti Papi, citiamo per tutti il beato Pio IX, come in suo favore testimoniò persino il rabbino capo di Roma dell’epoca, furono misericordiosi verso i loro ebrei romani.
Altri un po’ meno: citiamo il caso di Paolo IV che impose agli ebrei di sottostare all’ascolto alla sera della spiegazione secondo esegesi cristiana degli stessi passi scritturali che alla mattina essi avevano ascoltato secondo esegesi talmudica ed ai capi della comunità ebraica romana  di presenziare in Vaticano alla predica del Venerdì Santo.
Eppure, bisogna ammetterlo, anche questa, benché incomprensibile con i nostri parametri moderni, era a suo modo una attenzione cristiana verso i «fratelli maggiori» motivata da, forse eccessivo nei metodi, zelo missionario e carità spirituale.

Carità espressa in modo alquanto maldestro, anche se perfettamente coerente con i parametri culturali dell’epoca, ma pur sempre Carità spirituale.
La parola «perfidis» della preghiera del Venerdì Santo, nel latino liturgico antico, significava nient’altro che «increduli».
Questa parola fu eliminata da Giovanni XXIII nel 1962 proprio perché se ne era ormai perso, da parte dei fedeli, il significato originario (Benedetto XVI ha ora tolto anche la parola, pur paolina, «accecati»: a quanto pare, però, ai «fratelli maggiori» neanche questo va bene).
Già Pio XII, in precedenza, su sollecitazione di Eugenio Zolli, aveva diramato una direttiva ai vescovi affinché si spiegasse bene ai fedeli il vero significato di quel termine.
La gran parte dei santi canonizzati e moltissimi dottori della Chiesa sono sempre stati difensori irremovibili e misericordiosi degli ebrei.
Qualche caso: Santa Teresa d’Avila, dottore della Chiesa e di origine ebrea essa stessa (il nonno era ebreo convertito); San Bernardo di Chiaravalle, il quale nei suoi sermoni non mancava mai di ricordare che nell’ebreo sofferente vi era Cristo sofferente e fece condannare un predicatore millenarista del suo tempo, responsabile di avere aizzato violenze antiebraiche; Sant’Ignazio di Loyola che, a chi tra i cristiani mostrava atteggiamenti antigiudaici, ricordava severamente che Cristo, che in quanto Verbo di Dio e Figlio dell’Uomo ha assunto la Natura Umana nel suo senso Essenziale ed Universale e che per questo nella sua Sacratissima Umanità è sempre al di là di ogni appartenenza etnica specifica, storicamente nacque ebreo e da Madre ebrea.
La Santa regina Isabella di Castiglia (essa, benché, per interferenza dell’ADL, non è ancora stata canonizzata, è comunque già santa nel cuore di molti cattolici, noi compresi) in quanto regina dovette affrontare la grave questione dei marrani, ebrei falsi convertiti, alcuni addirittura giunti alla carica vescovile, che continuavano a praticare il culto giudaico nelle chiese con grande scandalo dei fedeli già di per sé «riscaldati» dai consueti problemi di ordine economico causati dalle smodate ricchezze di molti ebrei.
Isabella, donna di grande religiosità, resistette a lungo alle pressioni popolari e della corte in favore dell’espulsione degli ebrei dal regno e quando, a causa dei gravi disordini provocati dai tumulti antigiudaici popolari che minacciavano la stessa stabilità del giovane regno, dovette cedere a quelle pressioni decretò che gli ebrei ispanici (sefarditi) potessero, indisturbati, portare via tutti i loro beni mobili e che dove possibile fossero risarciti di quelli immobili.
Quegli ebrei finirono poi per la maggior parte a Roma, sotto la protezione del Papa.
Si potrebbero fare molti altri esempi.


Il nostro gentile interlocutore ci ricorda che lui ha portato la triste stella gialla.
Quel simbolo, in forma di «rota gialla» fu inventato dai mussulmani e fu in talune occasioni imposto anche ai cristiani sotto governo islamico (con il che non si vuole inchiodare gli islamici del tempo: anche loro hanno diritto ad essere giudicati in prospettiva storica e senza moralismi). Quel che però non è accettabile, né da un punto di vista cristiano né da un punto di vista meramente storiografico, è l’imposizione che si è fatta in Occidente di una visione «giudeocentrica» della storia.
Una visione che fa dei «fratelli maggiori» il popolo-vittima universale.
Quella degli ebrei, in particolare dopo Cristo, è solo una parte della storia universale: non è la Storia Universale!
Dietro questa costruzione giudeocentrica della storia sta, è innegabile, la fede ebraica post-biblica che identifica l’isaiano «servo sofferente», che per noi cristiani è Gesù Cristo, con Israele e vede in Israele il «messia collettivo» deputato a portare sulla terra il regno della giustizia e della pace globale: è, paradossalmente, ma non tanto a ben leggere teologicamente certi fatti, un ritorno in casa ebraica dello stesso millenarismo ereticale dei pellegrini cristiani medioevali che, diretti in Terra Santa, massacravano gli ebrei.
Ora, è innegabile che degli effetti perversi di questo millenarismo, cresciuto nel seno dell’esegesi talmudica del Vecchio Testamento, che come tutti i millenarismi produce solo male e che di recente è stato trasportato sul piano politico dal sionismo, stanno oggi pagando le conseguenze i palestinesi. Sin dai tempi dei primi insediamenti sionisti in Palestina, negli anni trenta del secolo scorso, un certo tipo di rabbinato, come quello cui appartenevano rabbi Abraham Itzahak ha-Cohen Kook e suo figlio Zvi Yehuda KooK (3), ha conferito ad un’ideologia originariamente secolare, come il nazionalismo sionista, la missione messianica della realizzazione delle profezie veterotestamentarie che, nel modo acristologico in cui gli ebrei talmudici, ed oggi anche i cristiano-sionisti americani, le leggono, sarebbero una promessa al popolo ebreo di ritorno nella terra dei padri: evento che poi dovrebbe coincidere con l’inaugurazione dell’era della «pace universale» per mezzo della fondazione del regno messianico di Israele sulla terra e del riconoscimento da parte di tutti i popoli del primato spirituale ebraico.
Nel XX secolo il sionismo è diventata una ideologia nazional-religiosa e la fede ebraica il supporto teologico di un progetto politico secolare.
E’ a questo che si ribellano i Neturei Karta che sono anche oggi rimasti fedeli alle originarie posizioni di diffidenza, che all’inizio furono dell’intero rabbinato, verso il sionismo.
Essi sono «tradizionalisti», senza dubbio, e sostengono che il Tempio di Gerusalemme non può essere ricostruito da mano umana, ossia con la violenza, l’inganno e la forza di uno Stato secolare, perché esso, il Tempio, ricomparirà quando Dio vorrà con l’apertura dei Cieli.
Per questo essi non riconosco alcunché di messianico allo Stato di Israele ed anzi lo ritengono una sfida, una bestemmia, contro il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.

Quanta assonanza con l’Apocalisse di san Giovanni che identifica come anticristici quei poteri politici che si appoggiano a false istanze religiose e che attende da Dio, all’apertura dei Cieli, la Gerusalemme Celeste.
Posso, come cristiano, non sentire i Neturei Karta sulla mia stessa lunghezza d’onda?
E, del resto, Chi è il Vero Tempio che anch’essi attendono direttamente da Dio se non Gesù Cristo che identificò Sé stesso con il Tempio Eterno, l’Eterna Dimora della Sekinah Divina, quando disse «Distruggete questo Tempio ed in tre giorni lo farò risorgere» (Giovanni 2, 19)?
Ecco perché i Neturei Karta sono già «cristiani», pur non sapendolo.
Li ha consapevolmente preceduti, invece, Israel Zolli, il rabbino capo di Roma durante l’occupazione nazista, che, grande biblista, era sin dagli anni trenta sulla via di Cristo (aveva scritto un libro, «Il Nazareno», pieno di interesse ed amore per Gesù) e che giunse definitivamente alla conversione a Cristo durante la guerra testimone della grande carità di Pio XII verso gli ebrei perseguitati.
Papa Pacelli ha, infatti, salvato con l’apertura dei conventi circa 850.000 ebrei, ma questo non impedisce allo Yad VaShem, il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, di insultarne la memoria con l’apposizione della sua immagine tra i «cattivi», per i suoi presunti (invero loquacissimi) silenzi. Israel Zolli, che al momento della conversione assunse il nome di Eugenio
in omaggio a Papa Pacelli, nelle sue memorie ricorda come reduce da un viaggio in Palestina negli anni trenta, lui che aveva sperato in un sionismo «spirituale» che facesse di Gerusalemme la «casa di preghiera per tutte le genti», si lamentasse, deluso da quanto aveva visto in atto per opera del sionismo talmudizzato, con queste amare parole: «La Bibbia, sorgente di pietà, cammino che porta verso Dio, è diventata monumento nazionale (…). E un professore dell’Università di Gerusalemme afferma che il Regno del Messia, secondo la concezione ebraica, è di questo mondo! (notare l’accento scandalizzato di chi è già sostanzialmente cristiano e sa che il Suo Regno non è di questo mondo, ndr.) E’ come se si sacrificasse il Regno per il regno…
La mia anima ha indossato gli abiti del lutto. Laggiù mi sono sentito escluso, esiliato, straniero nella casa dov’ero nato. Non capivo e non potevo essere capito. Forse è l’idea di ‘regno’, mi chiedevo, che aveva infiammato l’animo e la parola di Isaia? (…). E senza trovare un’eco si spense la preghiera secondo la quale ‘la mia casa’ era destinata a diventare ‘una casa
di preghiera per tutti’? Non ‘La Casa’! Ne hanno fatto una ‘home’, una casa e nient’altro che una casa (il riferimento è all’idea sionista del ‘focolare nazionale’, ndr.). Naturalmente c’è stata la Rinascita della lingua, della letteratura, della scienza, insomma di tutto ciò che occorre per ammobiliare la ‘home’. Non solo una casa abitabile, ma una casa anche abbellita. Ed è così che intristivo e morivo; morivo giorno dopo giorno, ora dopo ora, per rinascere alla grande luce
di Cristo» (4).

Mediante quella visione «giudeocentrica» della storia universale, di cui sopra, si è fatta passare l’idea, e gli effetti si vedono nelle conformiste convinzioni di oggi anche dentro il mondo cattolico, che, oltre alla Vergine Maria, al mondo siano nati e nascano altri esseri umani privi di macchia originale e dunque non solo incapaci di alcunché di male ma addirittura sempre e comunque vittime universali.
Non è vero che il popolo ebreo non abbia, come ogni altro popolo, i suoi scheletri storici nell’armadio: non fosse altro perché nessuno può evangelicamente scagliare la prima pietra perché nessuno è senza peccato.
Il millenario conflitto con il cristianesimo, onestà storica impone di ricordarlo, è stato iniziato da parte ebraica.
Nel Talmud è contenuta la leggenda della nascita adulterina di Gesù Cristo che, secondo appunto tale leggenda, sarebbe stato concepito dalla relazione di Maria con un soldato romano di nome Pantera: ed infatti «ben Pantheras», figlio di Pantera, è in quel libro chiamato, bestemmiato!, il Nostro Redentore.
Questa leggenda, paradossalmente, fu poi ripresa dal nazionalsocialismo nel tentativo di inventare il mito di un «Cristo ariano».
Non è vero, come dice nel suo libro «Il Vangelo nel ghetto» il rabbino Riccardo Di Segni, che questa leggenda fu creata per comprensibile reazione ebraica alle violenze cristiane.
Infatti, la diceria di un concepimento adulterino di Cristo fu messa in giro immediatamente da parte del Sinedrio nel tentativo (poi riuscito il giorno della Passione) di frenare l’amore e l’entusiasmo con cui il popolo ebreo circondava Cristo durante la sua predicazione terrena.
Come ricorda Vittorio Messori (5), ne è una riprova quel che i sinedriti rispondono, in Giovanni 8, 41, a Cristo che li invitava a fare le opere di Abramo: «Noi non siamo nati da prostituzione».
L’eco di questa maldicenza ebraica si ritrova persino nel Corano, dove nella Sura di Maria si polemizza contro gli ebrei per aver insultato quella che anche gli islamici chiamano Vergine Tutta Pura.
Il cristianesimo nascente fu perseguitato dalla Sinagoga, come testimoniamo gli Atti degli Apostoli, sin dall’episodio del martirio di Santo Stefano.
Le comunità cristiane di Roma furono oggetto, come hanno appurato Ennio Innocenti ed Ilaria Ramelli, delle delazioni da parte della ben più antica e ben più accreditata, presso le autorità, comunità ebraica dell’Urbe.
Pare che la stessa persecuzione di Nerone sia stata innescata dalle pressioni che Poppea, giudaizzante adepta di maestri ebraici della diaspora, esercitò sul debosciato marito (6).

Le persecuzioni neroniane furono precedute dalle violenze contro i cristiani di Gerusalemme all’epoca della disastrosa, per la sorte degli ebrei, rivolta «messianica», nel 132, di Bar Kokheba (il «Figlio della Stella»).
E’ invece del VII secolo la persecuzione ebraica dei cristiani, che furono rinchiusi in una sorta di ghetti laddove non espulsi, nel regno giudaico Kazaro (7).
Successivamente fu la volta delle violenze ed insolenze anticristiane dei seguaci messianici  di Sabattai Zevi, XVII secolo, e di Jacob Frank, XVIII secolo, prima della loro apparente conversione/apostasia rispettivamente all’islam ed al cattolicesimo.
Lo storico «antisemitismo» polacco è cosa notoria e da tutte le anime belle condannato (forse il senso di colpa, più polacco che ecclesiale, ha agito anche in Papa Wojtila).
Ma pochi ne conoscono le motivazioni sociali.
In epoca medioevale gli amministratori della debosciata e rapace feudalità polacca erano scelti prevalentemente tra gli ebrei e ad essi era lasciata dai baroni carta bianca nell’amministrazione delle terre e nella riscossione delle rendite.
A pagarne le spese era il contadinato che si vedeva spogliato di tutto da parte di questi amministratori.
La conseguente identificazione degli ebrei come rapaci esattori fu inevitabile ed è rimasta nella memoria storica dei polacchi.
Un po’ come per i marchigiani che nello Stato Pontificio erano gli esattori dei Papi: anche in tal caso la memoria popolare ha codificato la naturale avversione verso la fiscalità rapace nel proverbio popolare «meglio un morto in casa che un marchigiano fuori la porta».
La condanna dei pogrom russi è unanime ma anche in tal caso pochi sono andati a verificare quali siano effettivamente le radici dell’avversione russa verso gli ebrei.
La giudeofobia russa trova la sua motivazione storica in una serie di complessi problemi politico-sociali e non sempre gli ebrei erano le povere vittime.
Spesso essi sono stati oggetto di violenza per la posizione socialmente e duramente egemonica occupata in seno alla società russa.
Ci sono stati però persino episodi di violenza alla rovescia nei quali gli ebrei hanno commesso veri e propri eccidi di russi (8).
Ora, come abbiamo già evidenziato, capitava in tutto ciò che venissero tirate in ballo ed usate abusivamente questioni prettamente teologiche che in realtà nulla avevano a che fare con l’odio etnico-sociale.
Ecco perché è assolutamente necessario iniziare a discernere le varie questioni sin dall’uso troppo «allegro» dei termini.
E’ ora di definire con esattezza storica e concettuale l’estensione della parola «antisemitismo» e rifiutarne un uso troppo vago, impreciso, generale ed onnicomprensivo.


L’antisemitismo propriamente detto è solo quello razziale, moderno, basato sul positivismo darwiniano con retroterra occultistico-teosofico (9).
E’ solo questo l’unico, vero, esclusivo antisemitismo poi portato al suo culmine dal nazionalsocialismo.
Esso è fenomeno assolutamente moderno e non ha basi né teologiche, né socio-economiche, né culturali, sebbene gli antisemiti razziali moderni, compresi i nazisti, non abbiamo esitato ad usare stereotipi premoderni, culturali o socioeconomici.
Anche Marx ha utilizzato, nella sua analisi dei rapporti tra ebraismo ed economia, questi stereotipi. Ma ciò non significa affatto, come vuole la vulgata anticristiana attualmente egemone, che tra i Padri della Chiesa, i pogrom russi ed Auschwitz vi sia un nesso diretto, o indiretto, di causa-effetto.
Diversa dall’antisemitismo vero e proprio, come testé definito, è stata la «giudeofobia» a base socio-economica, di cui si sono fatti alcuni esempi sopra, ma che, a differenza dell’antisemitismo moderno, non mirava affatto alla persecuzione razziale degli ebrei.
La giudeofobia a base economica era solo la conseguenza della conflittualità tra un ceto economicamente, anche se non socialmente o politicamente, egemone, caratterizzato etnicamente e religiosamente, ed i ceti popolari subalterni.
La dimostrazione che il conflitto etnico-sociale era il vero movente della giudeofobia sta nel fatto che in situazioni analoghe si sono verificati fenomeni di similari etnofobie che però non avevano gli ebrei per oggetto: nell’area russofono si è registrata, ad esempio, una «tartarofobia» durante la dominazione tartara nei secoli medioevali.
Assolutamente diversa sia dalla giudeofobia socio-economica che dall’antisemitismo razziale è la problematica puramente e squisitamente teologica delle difficili relazioni ebraico-cristiane.
Da parte cristiana questa problematica è stata tradizionalmente espressa nella forma della cosiddetta «teologia della sostituzione».
Quest’ultima non ha basi né socio-economiche, né razziali, né storico-culturali, ma solo ed esclusivamente teologiche magistralmente impostate da San Paolo e dai Padri della Chiesa sulla base dello stesso Vangelo.
Certamente, sul piano storico e nel corso dei secoli, noi cristiani non sempre siamo stati all’altezza di tale magistero apostolico e patristico: San Paolo, ad esempio, pur ricordando la condizione di «rami tagliati» dei suoi fratelli nella carne, per la conversione dei quali - scriveva - sarebbe stato disposto a dare la vita stessa, raccomandava ai cristiani, per non essere anche essi divelti dall’Olivo santo, la massima carità e misericordia verso gli ebrei.
Ecco: noi cristiani se dobbiamo fare un mea culpa, limitato agli effettivi casi di nostra responsabilità, è solo sul piano della prassi, sul piano pastorale, ma non su quello della Verità teologica.

Ora, su quest’ultimo piano, quello della Verità teologica, noi cristiani non possiamo fare alcuna concessione: è evidente!
Non si può pretendere che un cristiano accetti, senza apostatare dalla sua fede, la teologia ebraica che identifica in Israele il «messia collettivo».
Viceversa, salvo la libertà del doveroso apostolato cristiano, non si può costringere con mezzi impropri o violenti un ebreo a riconoscere la Divino-Umanità Messianica di Cristo (verrà il giorno in cui gli ebrei, ed anche i mussulmani, la riconosceranno ma sarà per opera del Signore Non Per i nostri sforzi umani).
E’ però doveroso per ogni cristiano, ed è esattamente quel che abbiamo cercato di fare su EFFEDIEFFE nell’articolo che non è piaciuto al nostro interlocutore, avvertire i suoi confratelli nella fede dei rischi di apostasia magari inconsapevole che egli, a differenza di altri, intravede.
Un pericolo di apostasia è rappresentato anche dal rischio, magari inavvertito, di sostituire nel culto Auschwitz al Golgota.
L’avvertimento è, evidentemente, rivolto ai cristiani non ai non cristiani, liberissimi, questi ultimi, di pensare altrimenti assumendosene ogni responsabilità in ordine all’eternità.
Il rischio di apostasia, da noi segnalato, è un rischio che corrono i cristiani, sedotti dalla secolarizzazione e sovente abbandonati dalla Gerarchia, non gli altri.
Il rabbino parigino Josy Eisenberg su Le Monde del 26/05/1967 (si noti: siamo a ridosso della conquista israeliana di Gerusalemme) così si rivolgeva ai cristiani: «La rinascita di uno Stato ebreo dà al nostro secolo una dimensione veramente biblica: il ritorno degli esuli precede l’avvento del Messia nei Profeti del Vecchio Testamento… La coscienza ebraica pone al cristianesimo la questione importante: riconoscete questo segno?» (10).
Per questo rabbino, come è evidente, lo Stato di Israele è un fatto teologico.
Ora, da parte nostra riteniamo che questa esegesi ebraica delle Profezie bibliche sia del tutto suscettibile di pericolosi rovesciamenti, a modo loro «razzisti», della stessa fede ebraica, benché, è chiaro ad esempio nel caso dei Neturei Karta, in seno all’ebraismo sussistano letture diverse del Talmud sicché non tutte le scuole ebraiche, a differenza del fondamentalismo giudaico ultraortodosso che cavalca il sionismo politico, ne danno una interpretazione «anti-goym».
Però è del tutto corrispondente a verità che vi sono correnti religiose ebraiche che questa interpretazione la danno e sono quelle che hanno conferito alla persecuzione nazista, al sionismo ed allo Stato di Israele un significato «messianico» e «teologico».
Proprio gli ebrei che da secoli risiedevano in Terra Santa, in pacifica convivenza con cristiani ed islamici, furono, invece, i più intransigenti nella condanna dei primi sionisti che, guidati da rabbi Kook, giunsero in Palestina e subito si resero responsabili delle prime sanguinarie mattanze di arabi. Effetti perversi del millenarismo, anche di quello che è germogliato in casa ebraica e contro il quale il grande studioso di spiritualità ebraica Ahad Ha’ Am protestava energicamente, urlando il suo dolore di pio ebreo, con queste parole: «E’ questo il sogno del ritorno a Sion: macchiare la sua terra di sangue innocente? Se questo è il Messia, non voglio assistere al suo arrivo!» (11).

Per quanto riguarda poi l’attuale politica dello Stato di Israele non si può onestamente negare che essa sia discriminatoria.
Ma va anche detto che le radici di questa politica discriminatoria si trovano nella chiara volontà di pulizia etnica che mosse sin dall’origine le organizzazioni sioniste che hanno fondato lo Stato israeliano.
Oggi Gaza è un lager a cielo aperto ed i palestinesi si trovano, solo i ciechi o i faziosi possono negarlo, nella stessa disperata condizione degli ebrei nel ghetto di Varsavia: anche questi ultimi si ribellarono, nell’estremo tentativo di salvarsi, e Stalin fermò l’avanzata dell’Armata Rossa affinché i nazisti potessero reprimere nel sangue la rivolta.
Chi voglia approfondire sotto un profilo storiografico gli obiettivi ed i piani di pulizia etnica dei padri della patria israeliana, ad iniziare da Ben Gurion, può leggere le opere dello storico israeliano Ilan Pappe.
Questo notevole studioso recentemente, sul finire dell’anno passato, è stato ospite a Roma presso l’ISIAO, dove abbiamo potuto ascoltarne la grande lezione demolitrice dei falsi miti
della storiografia sionista.
Per mezzo di meticolose ricerche d’archivio Pappe ha dimostrato che, contrariamente a quel che la storiografia ufficiale sionista ha raccontato, l’ordine proveniente da Ben Gurion per la pianificazione di una operazione di pulizia etnica, da attuarsi con il terrore nei villaggi palestinesi, fu dato diversi mesi prima, sicuramente non oltre il febbraio 1948, ossia molto prima dello scoppio della prima guerra arabo-israeliana all’indomani della dichiarazione di nascita dello Stato di Israele (15/05/1948).
Pappe ha provato che in quei mesi che precedettero la nascita di Israele circa un milione di arabi, terrorizzati dagli eccidi e dagli stermini dell’Haganà e della Banda Stern o dell’Irgun (l’esercito israeliano e le bande di miliziani sionisti), fu costretto a lasciare le sue terre.
Dunque non è vero, come poi hanno raccontato i sionisti, che gli arabi palestinesi furono convinti a lasciare i villaggi dai Paesi arabi confinanti in lotta con Israele per avere una scusa spendibile sul piano internazionale.
Si approfondiscano anche le idee chiaramente razziste di Jabotinski, il capofila della corrente «fascista» del movimento sionista e padre del Likud di Sharon e del Kadima di Olmert.
Inutile dire che Ilan Pappe ha subito l’ostracismo civile in Israele, come è capitato anche ad Ariel Toaff, ed ha dovuto abbandonare l’Università di Haifa, dove insegnava, per emigrare in una Università inglese.
La radice sottilmente e talmudicamente razzista del sionismo è del resto già evidente negli stessi scritti di Herzl, il fondatore del movimento, come dimostra in un suo interessante saggio Domenico Losurdo (12).

La domanda che attualmente il giudaismo post-biblico, convinto come non mai che le sue mal riposte speranze messianiche siano in via di realizzazione, pone, in definitiva, a noi cristiani è la seguente: vi siete resi conto del significato storico-teologico di Auschwitz?
Ovvero: avete capito che vi siete illusi per duemila anni e che il vostro Gesù Cristo non era affatto il Messia, non era affatto il Verbo di Dio Incarnato, ma nella migliore delle ipotesi un eretico ellenizzante del giudaismo?
O ancora: vi siete resi conto che Auschwitz sta ad indicare chi è il vero messia ossia Israele che con la sua sofferenza salva il mondo dal male e che Dio sta restituendo alla Terra Santa per inaugurare la «pace universale»?
Orbene, ammetterà, il nostro interlocutore, che questi sono interrogativi teologici e che si tratta  di una sfida alla fede cristiana come ha ben capito, ad esempio, Papa Ratzinger.
Il quale, da cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, firmò nel 2001 una garbata ma esplicita introduzione al documento della Pontificia Commissione Biblica «Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana» ponendo proprio la domanda se dopo Auschwitz i cristiani possono avere ancora la pretesa di aver compreso l’esatto messaggio della Bibbia, se, in altri termini, l’esegesi cristiana è quella esatta, per poi spiegare, nonostante ogni pur presente, in quel documento, apertura all’esegesi ebraica, che senza quella che l’esegesi cristiana, sin dai Padri della Chiesa, chiama «prospettiva cristologica» la Bibbia non solo è incomprensibile, come pensò di primo acchito prima della conversione anche Sant’Agostino, ma non ha significato alcuno.
Ora, che la fede ebraica sia diventata la «teologia civile dell’Occidente» non è onestamente negabile ed è, appunto, questo che da un punto di vista cristiano preoccupa.
Da cristiani, ci limitiamo a notare che, se così è, se la fede ebraica è diventata l’identità profonda di questo Occidente post-cristiano, allora l’Occidente liberale, quello della libertà religiosa e della separazione tra Chiesa e Stato, sta tradendo tutti i suoi presupposti e sta imponendo (inavvertitamente?) un nuovo Stato confessionale: quasi che il processo di secolarizzazione sia servito solo ha rimpiazzare, nella funzione di religione di Stato, il cristianesimo con un’altra fede, quella talmudica.
Che fine fanno allora i principi liberali dell’Occidente?

Come cristiani crediamo all’esistenza ed all’agire storico di quel che San Paolo chiamava «mistero d’iniquità».
Ed in questo mistero di iniquità ha posto anche l’antisemitismo e pure la giudeofobia a base economica ed anche l’uso abusivo ed illegittimo della teologia cristiana per la giustificazione di politiche che con la fede in Cristo nulla c’entrano.
L’antisemitismo razziale moderno, con tutta la sua impalcatura di nazionalismo ottocentesco, è stato un’espressione del mistero di iniquità anche quando esso si è nascosto, ed hanno sbagliato i cristiani che vi hanno abboccato, dietro la pretesa della difesa della «cristianità» (è, questa, in fondo la stessa pretesa dell’odierno «ateismo devoto» alla Ferrara, alla Fallaci ed alla Marcello Pera che in nome di un presunto «Occidente cristiano» inneggia allo scontro di civiltà per preparare il terreno
alle future guerre globali).
Crediamo, inoltre, da cristiani alle parole di Cristo: «Quando il Figlio dell’Uomo tornerà troverà ancora la fede sulla terra?».
E ci sembra che l’arretrare storico della fede cristiana a partire quantomeno dal XVI secolo, da Lutero, confermi tale ammonizione.
Leggiamo cristianamente la storia con una chiave teologica: prima di noi lo hanno fatto sant’Agostino e san Bonaventura.
Ma, in conclusione, è necessario tornare a quanto si diceva all’inizio: quello di Israele è un «mistero» sospeso tra storia e profezia.
Il punto è capire quale sia il contenuto di questo mistero.
San Paolo ci dice nella Lettera ai Romani che gli israeliti alla fine dei tempi saranno reinnestati nell’Olivo santo della Fede di Abramo, ossia della Rivelazione.
L’Apostolo delle genti traeva il suo insegnamento direttamente dalle stesse parole di Cristo: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: ‘la vostra casa vi sarà lasciata deserta!’. Vi dico infatti che non mi vedrete più finché non direte: ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore!’ » (Matteo 23, 37-39; Luca 13, 34-35). Cristo, qui, dice chiaramente che il popolo un tempo eletto non lo ha riconosciuto né accolto come non aveva riconosciuto né accolto, prima di Lui, i profeti che erano stati inviati ad annunziarLo.
Per questo la «casa», ossia il Tempio, sarà abbandonato dalla Sekinah, dalla Presenza di Dio, e sarà distrutto, come puntualmente avvenne nell’anno 70 dopo Cristo.


La colpa di Gerusalemme è quella di non aver «riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Luca 19, 44).
Altrove, però, Cristo fornisce un’indicazione importante circa il futuro di Gerusalemme: essa «sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti.» (Luca 21, 24) (13).
Oggi, perlomeno a partire dal 1967, Gerusalemme non è più calpestata, solo, da «pagani», per usare il termine utilizzato da Cristo di fronte al suo uditorio ebraico in un momento precedente all’ingresso dei pagani nel «regno» per sostituirvi gli israeliti in attesa che anche questi ultimi, pentiti, siano riammessi al cospetto del Re.
Hanno dunque ragione i cristiano-sionisti, e sulla loro scorta Antonio Socci (14), in questo giudaizzante, a ritenere il ritorno degli ebrei in Palestina un segno messianico che, in base all’esegesi talmudica, nonché decontestualizzata, delle profezie veterotestamentarie accettata dai sionisti cristiani, annuncerebbe l’imminente fondazione in terra della teocrazia di Israele, gloria del mondo, con un Cristo, «ebreo» e non «cristiano», correggente insieme al risorto Davide (15)?
I Padri della Chiesa, argomentando sulla base della Tradizione apostolica, del Vangelo e delle lettere paoline, compresa quella oggi troppo dimenticata «agli Ebrei», sono giunti a conclusioni del tutto diverse da quelle dei cristiano-sionisti e dei cattolici giudaizzanti come Antonio Socci.
Per una breve rassegna dell’insegnamento dei Padri, circa l’equivoco ruolo del popolo ebreo nel periodo compreso tra Ascensione di Cristo e «compimento dei tempi dei pagani» (che non coincide affatto, nel passo evangelico sopra citato, con la fine dei tempi) rimandiamo ad un nostro precedente intervento (16).
Qui ci interessa porre l’attenzione, per tutti, su Sant’Agostino.
Secondo il santo di Ippona la presenza della Sinagoga anche «dopo» la Chiesa è un mistero di cui i cristiani devono tenere conto senza pretendere di ridurlo in chiave politica.
L’esegesi agostiniana, come ritengono anche Massimo Borghesi ed Adriano Prosperi, noti studiosi rispettivamente di orientamento cattolico, il primo, e laico, il secondo, è quella che ha permesso la coabitazione tra ebrei e cristiani nel primo millennio (17).
Per Agostino, infatti, la permanenza storica della Sinagoga si spiega con la provvidenziale funzione assegnatagli da Dio di testimonianza, per i pagani e gli eretici che la negassero, della continuità nella Chiesa cristiana della Fede di Abramo, che è il vero ebraismo veterotestamentario dei Patriarchi, di Mosé e dei Profeti e che, aggiungiamo noi, è cosa diversa dal talmudismo post-biblico.
Ma, dice sempre Sant’Agostino, uniformandosi al pensiero unanime dei Padri che lo avevano preceduto, la permanenza ebraica è sottoposta a due condizioni: la prima che gli ebrei non devono essere maltrattati o uccisi per essere caduti in disgrazia agli occhi di Dio, perché, come afferma San Paolo, pur essendo essi «nemici in quanto al Vangelo» sono «amati per i meriti dei loro padri» (Romani 11, 28); la seconda che gli ebrei sono destinati alla conversione alla fine dei tempi.

Agostino affermava questo anche collegando il Salmo 58, 15 («convertentur ad vesperam» ossia «ritornano a sera e ringhiano come cani, per la città si aggirano») con Genesi 4, 15: la sopravvivenza degli ebrei come popolo anche dopo Cristo era stata prefigurata dalla vicenda di Caino successiva all’uccisione del mite fratello Abele, che a sua volta è, quest’ultimo, tipo veterotestamentario di Cristo.
Quindi, concludeva l’Ipponate, il «segno» posto da Dio su Caino, al momento del suo allontanamento, affinché nessuno lo uccidesse, era stato posto anche sugli ebrei.
E questo «segno», nel caso degli ebrei, è, secondo Sant’Agostino, la fedeltà ebraica alla Legge. Riprendendo l’interpretazione paolina del salmo poc’anzi citato Agostino affermava la finale conversione degli ebrei ma, appunto, «in fine mundi».
Questa magistrale esegesi agostiniana ha garantito per circa un millennio, sulla base della speranza escatologica e del significato provvidenziale di testimonianza della Verità del Vangelo e dell’Unità di Antico e Nuovo Testamento attribuito alla presenza ebraica, di cui tuttavia non si nascondeva lo stato di «accecamento» come veniva raffigurato nelle diverse effigie della «Sinagoga bendata», la tolleranza cristiana verso gli ebrei e persino il libero esercizio, interno alle comunità ebraiche,
del loro culto.
Anche Léon Poliakov, noto studioso ebreo, concorda nel ritenere che secondo «… il più illustre padre della Chiesa, Agostino, (gli ebrei dovevano) rimanere protetti nelle loro vite e nel loro culto, in quanto ‘popolo testimone della Crocifissione’, per testimoniare così la Verità del cristianesimo e l’errore dell’ebraismo. Così, in seguito, nel corso dei secoli, la Chiesa romana cercò di proteggere gli ebrei i quali, dal canto loro, considerarono i sovrani Pontefici come l’ultima spiaggia.
Ma generalmente, la condizione degli ebrei nel Medioevo non fu uniformemente tragica: certo, fu oscurata da sporadici massacri, da accuse di omicidio rituale ed altre ancora, ma per lo più essi vissero in accordo con i cristiani ed esercitarono (tranne l’agricoltura) i loro stessi mestieri» (18).
Anche Lucie Kaennel ha notato: «Fino all’XI secolo l’integrazione degli ebrei con la popolazione cristiana occidentale e con il mondo arabo spagnolo non presenta grandi difficoltà. Le comunità ebraiche godono della protezione dei sovrani. Mercanti ebrei assicurano le indispensabili relazioni fra la cristianità d’Occidente e il mondo islamico: tra le varie comunità religiose regna una relativa tolleranza» (19).
Tra il 1000 ed il 1200 una sostanziale tolleranza-protezione cristiana verso gli ebrei caratterizza le relazioni ebraico-cristiane.
Ma il presupposto agostiniano della tolleranza verso gli ebrei era, come si è detto, la convinzione che Dio aveva posto su di essi un «segno» consistente nella loro fedeltà alla Legge Antica, alla Torah.
I rapporti ebraico-cristiani iniziarono ha mutare a partire dal XIII e XIV secolo quando, da parte cristiana, una più diffusa e maggiore conoscenza, resa possibile dalle «rivelazioni» degli ebrei convertiti, circa i contenuti del Talmud, lo spurio commentario rabbinico della Torah, comportò una sempre più crescente consapevolezza della essenziale diversità della religione talmudica dall’ebraismo veterotestamentario.

Da questa maggiore consapevolezza da parte cristiana della frattura intervenuta tra ebraismo veterotestamentario, continuato in Cristo e nella Chiesa, e giudaismo talmudico post-biblico conseguì, in un’età nella quale la Chiesa si trovò ad affrontare il pericoloso pullulare di eresie gnostiche a sfondo pauperistico, come il catarismo, un irrigidimento cristiano verso gli ebrei che adesso apparivano chiaramente come «eretici» rispetto al deposito veterotestamentario.
Ed, in effetti, in questo passaggio storico il «mistero» di Israele iniziò a rivelarsi nella direzione già intuita dai Padri (20), e ripresa nel suo «Il Racconto dell’Anticristo» da Soloviev, quella cioè di una funzione di inconsapevole preparazione della via al dilagare dell’iniquità spirituale che dovrà caratterizzare i tempi difficili della persecuzione «anticristica» contro la Chiesa.
Funzione precorritrice che da molti tra i Padri è stata vista prendere corpo nei ricorrenti sogni ebraici di ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, vivi non solo oggi, che sembrano tra l’altro prossimi a realizzarsi restando ad impedirlo soltanto la Cupola della Roccia ossia la Moschea di Al Aqsa sulla spianata del Tempio, ma anche in epoca patristica come dimostra il tentativo fatto dalla diaspora ebraica, con l’aiuto dell’imperatore, ai tempi di Giuliano l’Apostata.
Sempre secondo il magistero dei Padri, tuttavia, questa funzione di preparazione della via all’impostura anticristica, che essi scorgevano tra le pieghe e nelle ambiguità del giudaismo post-biblico, sarà anche storicamente propedeutica, a seguito dell’esito catastrofico sul piano storico delle mal riposte speranze messianiche ebraiche, al cadere definitivo della «benda» dagli occhi della Sinagoga, benda che attualmente impedisce ad essa di riconoscere la Divino-Umanità Messianica di Nostro Signore Gesù Cristo e, quindi, all’adempiersi della promessa di finale conversione degli ebrei al cristianesimo.
In effetti, sin dai tempi antichi di Bar Kokheba per arrivare a quelli moderni di Sabattai Zevi e di Jacob Frank, il giudaismo post-biblico è attraversato, anzi quasi pervaso, da un fremito messianico di tipo millenarista che ha portato i «fratelli maggiori» a ripetute delusioni e ad avventure spirituali e politiche dalle tragiche conseguenze.
Da ultimo, questo fremito messianico ha preso la forma dell’Israele «messia collettivo» che è diventata l’anima talmudica del nazionalismo sionista, originariamente, in apparenza, laico.


I Neturei Karta temono proprio che, questa ennesima trasgressione dei cosiddetti Tre Giuramenti Talmudici, che vietano agli ebrei di mettere fine al loro esilio con la forza (21), stia portando l’Israele odierno verso una catastrofe mai prima vista nella sua storia, con conseguenze globali per l’intera umanità a causa della sfida prometeica che l’eventuale ricostruzione del Tempio, «per forzare la mano di Dio a ristabilire il Patto con Israele», secondo quanto sosteneva rabbi Kook, potrebbe comportare.
Il fatto è che la follia millenarista dell’attuale giudaismo post-biblico, che ha differenza di quello del passato dispone con la nascita dello Stato di Israele, saldamente appoggiato dagli Stati Uniti d’America, di una inaudita potenza politica e militare, rischia di condurre, complice una speculare follia millenarista presente anche in seno al fondamentalismo islamico e a quello protestante cristiano-sionista americano, l’intero genere umano verso un nuovo conflitto mondiale.
Vittorio Messori, che ha perfettamente compreso l’essenza «religiosamente blasfema» dell’attuale conflitto vicino-orientale e le sue implicazioni «profetico-teologiche», ha così risposto ad una domanda tendente a sapere la sua opinione sull’esito di questo conflitto: «Finirà che a un certo punto diventerà soverchiante la disparità numerica: un miliardo di musulmani contro cinque milioni di israeliani. E Israele, quando sarà con le spalle al mare, sarà costretto a usare la bomba atomica» (22).
Ecco perché tutti gli ebrei onesti, e ce ne sono moltissimi, speriamo che anche il nostro interlocutore possa essere annoverato fra essi, devono vieppiù alzare la loro voce contro la politica dello Stato di Israele.
Solo così possono contribuire, insieme ai loro fratelli in umanità, ossia noi «gentili», a salvare il futuro del genere umano.
Da parte nostra, in questa congiuntura, piena di pericoli, della storia mondale, noi cristiani, sicuri di essere da Lui ascoltati, non possiamo far altro che riporre ogni nostra fiducia in Colui che ci ha promesso, che ha promesso a tutti, «Ecco, Io sono con voi ogni giorno, fino alla fine del mondo» (Matteo 28, 20) e pregare per la salvezza di tutta l’umanità: anche per quella degli «increduli» giudei.

Luigi Copertino

1)
Il testo della mail è il seguente: «Egregio Signor Copertino! Nel Suo articolo in oggetto
 mi stupisce l’apprezzamento per il gruppo ‘Neturei Carta’ che oltre a negare lo Stato di Israele
si rifugia in estremismo volto ad un passato fuori tempo e dal quale non hanno ricavato alcun insegnamento. Incontro fra integralismi? Comune avversione allo Stato Israele? A mio parere solo insufficiente conoscenza del mondo ebraico e delle sue divisioni. Il Dialogo ha l’unica funzione
di conoscersi meglio per non dare credito a dicerie che si trasformano in calunnie. Non deve diventare un nuovo mezzo di proselitismo o di sorveglianza. La sensibilità ebraica per certe parole della Liturgia del Venerdì Santo ha la sua radice nei Pogrom che per secoli si sono avuti
in coincidenza delle preghiere per i ‘perfidi’… Le ricordo che in Polonia i nazisti programmarono molte ‘azioni’/rastrellamenti per il Venerdì Santo ritenendo che la popolazione fosse più favorevole. E’ un fatto storico, come è pure un fatto che la Polonia ha il più alto numero di ‘Giusti’ riconosciuti dallo Yad VaShem. E’ pure un fatto che dalle invocazioni per la conversione
dei ‘perfidi ...’ il passo a metodi più convincenti quali discriminazioni e persecuzioni non fu -
il Vostro ‘amico’ Toaff  in certi studi rievoca l’effetto delle prediche di frati cappuccini sulle masse popolari - poi tanto lungo. Come vede le paure sono fondate nella storia.
Post scriptum: Ho portato la Stella Gialla e sono stato deportato quando certi antifascisti
di professione del dopo il 1945 ancora scrivevano su LA DIFESA DELLA RAZZA o facevano parte di ITALIA E FEDE. Proprio per questo evito le solite celebrazioni del 27 gennaio; certuni
non sanno che cosa era avere un SS nell’alloggio o simili. Con i migliori saluti. W.M.».
L’articolo cui essa si riferisce è il nostro «Betulla, il ‘Messia’ e la teologia civile d’Occidente» in EFFEDIEFFE.COM
2) Un caso del tutto particolare di predicazione antigiudaica fu quella francescana (San Bernardino da Siena, San Giovanni da Capestrano, San Bernardino da Feltre) tra XIV e XV secolo tutta incentrata proprio sui problemi connessi alla pratica usuraia ebraica: quei predicatori, ai quali tra l’altro si deve la fondazione dei Monti di Pietà che praticando tassi di interesse tra il 3% ed il 5% venivano in soccorso della povera gente vittima dell’usura, connettevano, ed in tal caso forse
non del tutto a torto, la speculazione finanziaria con il dilagare di eresie in apparenza cristiane,
ma che sovente trovavano la loro origine proprio negli influssi della cultura talmudica e cabalistica
in ambito cristiano. Ma anche in tal caso, quello dei francescani quattrocenteschi, l’uso di categorie teologiche, sebbene certamente più coerente e giustificato, avveniva tuttavia in modo spesso strumentale, perché la «Luce Metafisica» di quelle categorie teologiche rimaneva troppo offuscata dal fine immediato, pur sacrosanto, che ci si proponeva, su un piano prevalentemente storico-sociale, ossia la difesa, in termini di carità materiale e spirituale, del popolo cristiano dall’usura e dall’eresia.
3) Confronta Israel Shahak «Storia ebraica e giudaismo. Il peso di tre millenni», CLS, Verrua Savoia (TO), 1997, pagina 70.
4) Citato in J. Cabaud «Il rabbino che si arrese a Cristo - la storia di Eugenio Zolli rabbino capo
di Roma durante la seconda guerra mondiale», edizioni San Paolo, Milano, 2002, pagine 60-61.
5) Confronta Vittorio Messori «Ipotesi su Maria», Ares, Milano, 2005, pagine 501-502.
6) Confronta Ennio Innocenti - Ilaria Ramelli, «Gesù a Roma», Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe,  Roma, 2006.
7) Confronta Vittorio Messori «Pensare la storia», Edizioni Paoline, Milano, 1992, pagine 405-408.
8) Confronta Aleksandr Solgenitsin «Due secoli insieme - ebrei e russi prima della rivoluzione», Edizioni Controcorrente, 2006; anche confronta Maurizio Blondet «Solgenitsin narra i pogrom»
in EFFEDIEFFE.com 07/04/2007.
9) Confronta Giorgio Galli «Hitler ed il nazismo magico - le componenti esoteriche del Reich millenario», Rizzoli, 1994.
10) Confronta Francesco Spadafora «Cristianesimo e giudaismo», edizioni Krinon, 1987, pagina 18.
11) Confronta Maurizio Blondet «I fanatici dell’Apocalisse - ultimo assalto a Gerusalemme»,
Il Cerchio, Rimini, 2002, pagina 158.
12) Confronta Domenico Losurdo «Che cos’è il fondamentalismo?» in Avallon, 2005, numero 54, pagine 37-41.
13) Si noti che il versetto seguente, Luca 21, 25, recita: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle». Ora è un dato di fatto che a Fatima, ed in altre apparizioni della «Donna vestita
di sole», nel sole vi siano effettivamente stati dei segni. Ed anche che in altre più recenti apparizioni mariane segni vi sarebbero stati pure, nottetempo, con misteriose scritte di «pace» apparse
tra le stelle.
14) Confronta Antonio Socci «Israele e la Chiesa», Il Giornale del 27/07/2005.
15) Ecco quel che grida il tele-predicatore cristiano-sionista Lewis David Allen: «Il Messia regnerà dal trono ristabilito di Davide a Gerusalemme. Risorto, Re Davide sarà co-reggente assieme a Cristo. Israele occuperà una posizione di gloria e dominio sulle nazioni del mondo. I cristiani rinati si uniranno al Messia e ai dirigenti di Israele nell’amministrare il regno di Dio sulla terra. Siamo in marcia verso Sion!». Citato da Lewis David Allen «Can Israel Survive in a Hostile World?», New Leaf Press, Green Forest, AR, USA 1994, pagina 151, ora in M. Martinez
«Il cristianosionismo» in Movimenti Religiosi Alternativi numero 29 reperibile su www.kelebekler.com/christianzionism-it.html
16) Confronta Luigi Copertino «La teologia cristiano-sionista del cardinal Kasper», in particolare la nota numero 11, in EFFEDIEFFE.com
17) Confronta Massimo Borghesi «Lutero, Agostino, gli ebrei» in 30Giorni nella Chiesa e nel mondo, anno XIX, numero 2, 2001, con ampie citazione dell’introduzione di Adriano Prosperi
al testo di Lutero «Degli ebrei e delle loro menzogne», Torino, 2000.
18) Confronta Léon Poliakov, introduzione a AA.VV. «Storia dell’antisemitismo» 1945-1993, Firenze 1996, pagina 7.
19) Confronta Lucie Kaennel «Lutero era antisemita?», Torino 1999, pagina 29.
20) Secondo San Girolamo, ad esempio, Cristo voleva alludere al rischio tremendo che gli ebrei corrono, ad ogni momento della storia, di scambiare l’Impostore per il Messia quando disse:
«Io sono venuto a nome del Padre mio e non mi ricevete, se un altro venisse nel proprio nome,
lo riceverete» (Giovanni 5, 43). Confronta San Girolamo «Epistole, CLI, Ad Algasium; Comm.
In Dan., II, 24».
21) I Tre Giuramenti Talmudici che, secondo i Neturei Karta, legano ogni ebreo sono: quello
di essere leale verso le nazioni del mondo alle quali gli ebrei devono amore, rispetto e non devono cercare mai di ribellarsi, il divieto di intraprendere azioni che possano concorrere ad accelerare
la Fine dei Tempi ed infine il divieto di tornare in massa in Terra Santa. Confronta Maurizio Blondet, «I fanatici… opera citata», pagina 157.
22) Confronta Michele Brambilla intervista a Vittorio Messori «La verità su questa guerra? Non interessa, non finirà mai» in Libero del 21/07/2006.

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