Nella crisi, l’ottimismo
25 Febbraio 2008
Una quantità di analisti ed economisti al servizio di Wall Street sta spargendo ottimismo sul collasso della finanza globale.
Sì, è una crisi, ammettono gli uni: ma sarà una crisi a «V».
Il che significa: tanto più rapido il crollo, tanto più veloce e aguzza la ripresa (e il rincaro delle azioni sui mercato occidentali).
Altri dicono: sarà una crisi a «U», profonda, e la ripresa un po’ meno rapida.
Pochissimi sussurrano che lo scoppio della bolla finanziaria ci darà una economia a «L» - che crolla verticalmente e resta orizzontale al punto zero, ma questi non sono molto citati dai media.
Nulla di nuovo.
Simili ottimismi erano correnti anche dopo i collassi borsistici del 1929.
La depressione durò fino al ‘39.
Se ne prende gioco Chan Akya, economista anglo-cinese (1).
Beffardo, egli ritiene che queste «previsioni» siano in realtà le preghiere che gli analisti di Wall street stanno rivolgendo al loro dio (che ha fallito).
Gli uni pregano: «Mammona, fa’ che abbia i miei bonus miliardari anche nel 2008» (V).
Gli altri: «Fa’ che non perda il mio strapagato lavoro nel 2008» (U).
Oppure: «Ti prego, non farmi troppo male» (L).
Alfabeto per alfabeto, dice Chan Akya, la lettera che mi pare più probabile per descrivere il nostro futuro è «Y».
Una curva economica simile a «V», ma aggravata da uno sprofondo verticale molto più acuto. «Alcune economie si riprenderanno rapidamente dall’attuale disastro, mentre molte altre cadranno e cadranno, e lentamente (o rapidamente) diventeranno irrilevanti sul mercato globale».
Per Chan Akya, le economie che si riprenderanno saranno quelle asiatiche; quelle che resteranno in crisi e rimpiccioliranno fino a sparire dall’orizzonte economico sono quelle del G7, ossia degli attuali paesi ricchi occidentali.
Vale la pena di seguire il suo ragionamento.
Il tallone d’Achille dei G7 è nel suo sistema finanziario basato sul debito facile, che oggi si rivolta al contrario: assenza di credito.
Nessuno si fida di prestare.
Nemmeno le banche alle altre banche.
In USA, i municipi e gli Stati che ottenevano denaro per far funzionare scuole e ospedali dalle «auction rate securities», ossia dai loro titoli di debito trattati in aste settimanale (e prima considerati molto liquidi) non riescono più a farlo: alle aste non si presenta nessuno che abbia voglia di comprare.
Ciò ha innescato una vera distruzione di ricchezza, che si espande paurosamente.
La massima restrizione di cui oggi soffre l’economia USA è la mancanza di capitale: qualcosa cui i trucchi della Federal Reserve e del governo non possono porre rimedio.
Sarà un po’ come dopo l’uragano Katrina, quando Washington si mostrò incapace di prestare i soccorsi elementari agli alluvionati di New Orleans.
Ora i governi locali si mostreranno incapaci di dare scuole e ospedali.
Il governo di Londra ha dovuto nazionalizzare la Northern Rock dopo aver tentato invano di fonderla con un’altra banca salvatrice.
Il costo per le finanze pubbliche è stato altissimo, e il Regno Unito dovrà ricorrere a super-tasse, proprio in recessione, il che rimanderà una eventuale ripresa per anni o decenni.
La prime cento più grosse banche occidentali vengono rivelando via via, obtorto collo, perdite colossali sui derivati.
Da Credit Suisse a Societé Générale a Paribas, per non parlare delle due banche tedesche IKB e Sachsen LB, per le quali il governo non ha trovato compratori-salvatori.
E i «mercati» si aspettano da un giorno all’altro la bancarotta di una grande banca USA: è in questa attesa che i «mercati» del credito e della speculazione si sono paralizzati.
Gli ottimisti replicano: d’accordo, ma questo non è una novità.
E’ accaduto allo scoppio di altre bolle speculative.
Le banche hanno imbarcato le perdite, e sono tornate in campo.
Dopo lo scoppio della bolla di internet (aziende «punto-com» le cui azioni avevano raggiunto prezzi irreali, anche se dietro non c’erano che due o tre giovanotti con la passione del computer e telecom). Perché stavolta dovrebbe essere diverso?
No, stavolta è diverso, insiste Chan Akya.
Allora i valori di quelle aziende crollarono, ed effettivamente condizione di ogni ripresa è ridare il giusto prezzo ad attivi economici sopravvalutati.
Ma allora, dopo la bolla, al mondo restarono pur sempre Internet, idee per sfruttarlo, e milioni di chilometri di fibra ottica: beni e tecnologie «reali», di cui si trovò subito un uso alternativo.
In pratica, è la Rete che ha creato il boom attuale, fondato sulla delocalizzazione delle aziende nei paesi a bassi salari, che ha giovato all’Asia, competitore invincibile nei salari bassi, e devastato l’Occidente, che ha perso milioni di posti.
Senza la facilità e rapidità delle telecomunicazioni elettroniche, non sarebbe stato possibile.
Oggi, allo scoppio della bolla dei subprime, quali sono i valori «reali» che restano, sia pur in via di deprezzamento?
Case ipotecate, abitazioni pignorate sparse nei quartieri residenziali americani.
Ora, non c’è un pensabile uso alternativo di questi immobili, come ci fu per la Rete e le aziende create dai maghetti del software.
Sì, la case caleranno di prezzo, e molto.
Ma stavolta non innescheranno una ripresa, perché in USA mancherà l’occupazione, e dunque il reddito, per comprare le case al nuovo prezzo.
Oltretutto, quale americano si sposterà poniamo nel Minnesota, dove i prezzi immobiliari saranno bassissimi, se là non troverà lavoro?
Dunque le banche pignoratrici non riusciranno a sbolognare questi «attivi morti» e a fare liquidità. Di conseguenza, dovranno restringere il credito alle imprese.
E le imprese senza fidi chiuderanno.
Accadrà in tutti i Paesi del G7.
Il peggio è che i G7 si sono assuefatti, ed hanno abituato le loro popolazioni, a stili di vita da società del benessere - frutto di decenni di superiorità tecnologico-industriale sul resto del mondo: buone pensioni, assistenza sanitaria da primo mondo e in Europa gratuita, servizi di trasporto e facilità di vita da Paesi ricchi.
E non lo sono più.
Perché nel G7 de-industrializzato la produttività del lavoro è calata rapidamente; ciò che resta di industrie «dipende in modo estremo da attività ad altissima intensità di capitale, le quali dipendono a loro volta da un flusso enorme e continuo di finanziamenti», che ora vengono a mancare a causa della crisi.
Non sono solo gli USA a soffrire di questa patologia mortale.
Chan Akya cita, come esempi palesi, «la Gran Bretagna e l’Italia».
Esempi di «società del benessere» che non possono permettersi più i servizi da società del benessere, perché pochi e sempre meno sono quelli che lavorano in modo produttivo e competitivo, non esportano.
L’analisi qui coincide fin troppo bene con ciò che noi italiani vediamo e soffriamo: paghe di colpo divenute insufficienti per arrivare a fine mese, un apparato pubblico costosissimo e corrotto, e nessuna idea in giro sul come rimediare.
Sempre meno italiani lavorano veramente (e questi sono i peggio pagati, dagli operaio agli ingegneri); il Sud non esporta nulla, ed importa tutto, vivendo sopra i propri mezzi a spese dei lavoratori produttivi, che sono sempre meno: percependo pensioni e ottenendo posti clientelari, che non servono a nessuno (se non a chi li ricopre), e che sono fonti di potere d’acquisto «non guadagnato», causa primaria dell’inflazione.
E’ un processo, come si può capire, che non può durare a lungo.
Nella curva a «Y», noi occidentali saremo nella gambetta verticale della lettera.
Chi invece sarà nella parte benefica della curva aguzza, la rapida crisi e la rapidissima ripresa? Ovviamente, Cina e India.
Non solo sono colossi demografici.
Sono anche i beneficiari di quella che per noi è stata la seconda de-industrializzazione: fabbriche produttive sono andate là, come i call center in India, grazie alle potenzialità della Rete; l’elaborazione di software e la progettazione di gadget elettronici - di cui i nostri giovani inoccupabili e ignoranti sono tanto ghiotti - viene ormai tutta di là.
Presto, i nostri giovani viziati dal benessere non potranno comprarsi nemmeno il telefonino Made in Taiwan, l’Ipod made in China, la playstation made in Japan.
Non saranno capaci, beninteso, di costruirle loro: hanno - abbiamo - perso tutte le competenze tecniche necessarie, a cui dovevamo il nostro benessere e facilità di vita.
Nemmeno l’autarchia più severa potrà salvarci.
I giovani non sono capaci di fare nemmeno le badanti, né vogliono fare i muratori.
Se anche un giorno volessero, i posti sono già occupati.
Proprio ieri, in una fila comunale a Viterbo, ho chiacchierato con una bulgara che chiedeva la residenza.
Campa fra noi facendo la badante ad una bambina spastica, invalida totale.
La bulgara è laureata in psicologia dell’infanzia (cinque anni di corso).
E viene trattata dai suoi «padroni», ristoratori senza alcun titolo di studio ma ricchi, come una uscita dalle foreste del Danubio.
Il marito fa il muratore, anche se ha un diploma di grafico editoriale computerista e parla un paio
di lingue europee.
Hanno due figli, che preferiscono lasciare in Bulgaria perché - dice la badante con laurea - «le scuole là sono molto migliori e più severe».
Dalle sue parole ho tratto il ritratto dell’Italia che conosciamo: ignorante, ma proterva perché ha i soldi.
Per il momento: ma li sta spendendo per assicurarsi i «servizi» che il settore pubblico non dà,
in questo caso la cura di una spastica invalida totale.
Lo Stato-provvidenza già non esiste più.
Cina e India, dunque.
Beninteso, soffriranno della crisi: hanno puntato tutto sull’esportazione nei Paesi G7, che presto non avranno i soldi per importare gadget.
Ma la possibilità di ripresa per loro esiste, a portata di mano: hanno immense popolazioni
sotto-pagate.
Ed hanno i capitali (guadagnati a nostre spese) per alzarne il livello di vita, per fare dei loro due miliardi e passa di abitanti dei consumatori.
Il sostegno al consumo, che i nostri ottimisti predicano per salvarci dalla recessione (e per cui non abbiamo i mezzi), in Cina e India può avvenire facilmente.
Hanno i capitali per mettere i milioni a lavorare infrastrutture, per scuole e servizi utili.
Non è che le loro classi dirigenti lo stiano facendo.
Anzi usano le riserve accumulate per comprare investimenti nella finanza USA (ora più «conveniente»), e salvare la speculazione folle occidentale dai suoi prestiti dementi andati a male.
I dirigenti, come dovunque, sono in ritardo sui tempi.
Ma presto capiranno che il loro vero interesse nazionale è investire all’interno, sulla propria popolazione, abbandonando le banche occidentali al loro collasso.
Prima smetteranno, meglio sarà per loro, dice Chan.
C’è chi crede che questo scenario sia improbabile.
Facendo notare che Cina e India insieme sono ancora economie piccole (valgono insieme 3,5 trilioni di dollari) per influire sulla situazione.
Dopotutto, USA ed Europa «pesano» ciascuna per 11 trilioni di dollari.
Sbagliato, replica Chan: queste cifre riflettono i «valori storici monetari», che «sopravvalutano il valore intrinseco delle economie dei G7».
L’insieme delle case americane pignorate, delle nostre residue fabbriche, delle nostre banche e Borse già trionfanti, dei servizi pubblici, dei salari in calo, delle cravatte Armani e jeans Dolce & Gabbana valgono veramente 22 trilioni di dollari, la somma di USA ed Europa in valuta?
Tutto questo si sta deprezzando rapidamente sotto i nostri occhi.
Il dollaro si è già striminzito, insieme al valore delle case americane; le banche, la City e Wall Street, con tutte le azioni che trattano, non valgono più come a luglio scorso, prima dell’esplosione della bolla subprime.
Dubito del «valore» monetario delle banche stesse, se non acquistano altre banche nemmeno a prezzi da liquidazione.
E chi crede al valore storico delle azioni quotate in Occidente?
Non c’è niente dietro quelle azioni.
Nessuna produzione.
Chi comprerà le Ferrari e le cravatte Armani al prezzo che esibiscono oggi?
Domandiamocelo: finti-Armani e finte-Ferrari cinesi vengono ora a un centesimo di quel prezzo.
Presto le nostre economie «ricche» saranno valutate quanto quelle cino-indiane, diciamo sui 4 trilioni.
Come già dimostra il valore odierno del dollaro.
L’euro lo seguirà presto nel declino, dice Chan, come già ha cominciato a scivolare la sterlina. Monete deboli di un primo mondo che veleggia verso il terzo.
Solo Cina e India hanno i mezzi per accrescere il loro standard di vita nei prossimi decenni.
Al contrario degli altri Paesi asiatici, solo loro hanno la profondità strategico-demografica necessaria, quando il mercato globale non assorbirà più le loro merci come prima, per auto-sostenere la propria economia accelerando sulle infrastrutture fisiche e intellettuali (scuole, università severe), e mettendo in tasca ai loro due miliardi più soldi da spendere.
Solo loro possono oggi praticare il keynesismo.
Se ancora non lo fanno, è solo per un blocco psicologico: perché i loro dirigenti sono ancora legati a un panorama mentale che non esiste più, il globalismo lubrificato dal debito, la liquidità a forza di cambiali planetarie, per di più in protesto.
Ma i nostri dirigenti sono più vispi?
Pensano al futuro nel modo nuovo che è necessario?
Ascoltate Veltroni, ascoltate Berlusconi, guardate le facce di Visco e Pecoraro, di Storace e Fini, e rispondete.
1) Chan Akya, «How about a Y?», Asia Times, 23 febbraio 2008.
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