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Un contributo all’esegesi transpolitica della storia contemporanea (1)
08 Gennaio 2013
Prima parte Le motivazioni di questo contributo Innanzitutto un avvertimento. Con questo articolo iniziamo una serie di interventi finalizzati, in modo speriamo abbastanza organico, a fornire ai nostri lettori una chiave di lettura trans-politica, ossia filosofica, della storia contemporanea. Faremo, in questa serie di interventi, anche ampie citazioni (perché bisogna sempre risalire direttamente alle fonti o agli autori che le fonti le hanno studiate). Come altre volte abbiamo suddiviso l’articolo in sezioni, perché il materiale raccolto è tanto. Con la prospettiva, se l’editore vorrà, di raccoglierle in una unica opera futura. Coloro che scrivono solitamente lo fanno perché spinti dalla necessità della ricerca esistenziale della Verità, o almeno, quanto si tratta di storia e non solo di teologia e di filosofia (anche se personalmente abbiamo sempre rivendicato un approccio teologico e filosofico alla storia, pena lo scadere in uno storicismo riduzionista che impedisce di vedere le questioni dall’Alto), delle diverse piccole verità temporali, ovvero storiche ed umane che tuttavia nulla tolgono alla prima, anzi acquistano spessore se lette alla luce di una Verità superiore. Coloro che studiano e ricercano non sono eremiti isolati dal contesto nel quale operano. Quando poi scrivono lo fanno per spiegare, innanzitutto a sé medesimi, la realtà che osservano, magari anche con l’intenzione di fare i conti con il proprio percorso esistenziale e culturale. Uno spettro si aggira per l’Europa: il populismo Oggi si fa un gran parlare di «populismo», come dello «spettro che si aggira per l’Europa» di marxiana memoria. Marx – è vero – si riferiva al comunismo e non poteva immaginare che un altro spettro stava prendendo forma ai suoi tempi, anche, come vedremo, grazie al suo contributo. Ecco perché abbiamo sentito la necessità di ritornare alle radici filosofiche e storico-sociali che sono a fondamento delle reazioni popolari contro gli abusi e lo strapotere del capitalismo finanziario, fattosi, rispetto all’epoca di Marx, globale. Reazioni popolari che, in realtà, hanno, in passato, e potrebbero, in futuro, costituire un altro capitolo della «rivoluzione dei ceti medi». Una rivoluzione, questa, incarnata tra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso (con una appendice sudamericana e panaraba nel secondo dopoguerra, fino agli anni Settanta) dal fascismo o, se si vuole, dai diversi fascismi affacciatisi sulla scena della storia. Non bisogna mai, infatti, dimenticare che l’essenza del fascismo è nella rivolta dei ceti incastrati tra capitalismo e proletariato e che rifiutano sia il liberismo sia il comunismo. Una rivolta guidata dall’aspirazione ad una trasformazione sociale interclassista votata a forme di socialismo nazionale o di nazionalismo sociale. Come, infatti, aveva ben compreso un socialista liberale e grande storico, Renzo De Felice, «Il fascismo fu il tentativo del ceto medio, della piccola borghesia ascendente – non in crisi – di porsi come classe, come forza nuova. In questo senso il fascismo movimento fu un tentativo di prospettare nuove soluzioni ‘moderne’ e ‘più adeguate’. Si spiega allora anche un certo tipo di corporativismo, di ‘interclassismo’… di tipo moderno, non antico (…). L’andata al potere di Mussolini nell’ottobre 1922 fu il frutto di un compromesso tra fascismo e classe dirigente tradizionale (…). Questo compromesso fu ribadito e rafforzato ai primi del 1925 (…). (Nonostante questo) si può parlare (per il fascismo) di fenomeno rivoluzionario (…). Il fascismo è un fenomeno rivoluzionario, se non altro perché è un regime, e ancor più un movimento – e qui c’è da tener presente la differenza di grado tra quello che fu il regime e quello che avrebbe voluto essere il movimento – che tende alla mobilitazione, non alla demobilitazione delle masse, e alla creazione di un nuovo tipo di uomo (…). Esso non ha nulla in comune con i regimi conservatori che erano esistiti prima… e con i regimi reazionari che si sono avuti dopo (…). I regimi conservatori hanno un modello che appartiene al passato, e che va recuperato, un modello che essi ritengono valido e che solo un evento rivoluzionario ha interrotto: bisogna tornare alla situazione prerivoluzionaria. I regimi di tipo fascista, invece, vogliono creare qualcosa che costituisca una nuova fase della civiltà» (1). Un liberale conservatore, della prima metà del secolo scorso, che fu direttore de La Stampa di Torino, nient’affatto tenero verso il fascismo a lui coevo, aveva già compreso la natura sociale del fascismo, benché, a differenza delle successive ricerche che ne hanno chiarito il carattere non discendente ma ascendente, credeva che la piccola borghesia fascista fosse una classe in crisi, incapace di adattarsi al mondo moderno liberale, e dunque facile strumento della reazione capitalista. Questa errata valutazione del ceto medio «fascista» come classe in crisi fu fatta propria dalla storiografia di estrazione marxista ma non corrisponde – non nella valutazione della piccola borghesia quale base popolare del fascismo quanto nel ritenerla un ceto decadente – alla realtà storica. «Il fascismo – scriveva nel 1923 il Salvatorelli – rappresenta la ‘lotta di classe’ della piccola borghesia, incastrantesi fra capitalismo e proletariato, come il terzo fra i due litiganti. Detto questo, è insieme spiegato il fenomeno della duplicità contraddittoria delle ‘due facce’, delle ‘due anime’, che tanto ha dato da fare ai critici del fascismo. In realtà il fascismo è uno; ma appunto perché si contrappone contemporaneamente a due forze sociali tra loro opposte – anche se complementari – esso acquista connotati differenti secondoché lo si guardi nella sua impostazione anticapitalistica o in quella antiproletaria. Parlare di anticapitalismo fascista parrà un assurdo a molti, anche fasciofili, anche fascisti; eppure esso è una realtà. Si ricordino le dichiarazioni esplicite e frequenti, nel campo fascista, contro la plutocrazia, la borghesia, le vecchie classi dirigenti, dichiarazione che si accordano così bene con le origini e l’attività passata della maggior parte dei capi fascisti, e che si avrebbe assolutamente torto a considerare come opportunistiche ed ipocrite. A quelle dichiarazioni, invero, sono seguiti i fatti; è seguito cioè lo spossamento politico – sia pure parziale – di quelle vecchie classi dirigenti (…). E oggi noi vediamo il sindacalismo fascista mostrare chiaramente la tendenza ad assorbire le organizzazioni padronali, industriali ed agrarie, che è quanto dire tentare di sopprimere l’organizzazione sindacale del capitalismo (…)». «In realtà, in Mussolini e nei mussoliniani non c’è stata, dal maggio 1915 ad oggi, … contraddizione. Già da allora essi incentravano nel mito-Nazione (nella Nazione, cioè, presa come entità astratta e valore unico per sé stante) tutto il loro movimento, e la loro contrapposizione così al neutralismo dell’alta borghesia come al pacifismo del proletariato. Già allora il mito-Nazione era per la piccola borghesia il vessillo della sua rivolta; la sua lotta di classe contro capitalismo e proletariato consisteva nella negazione stessa del concetto stesso di classe, e nella sua sostituzione con quello di Nazione (…). In questa negazione della classe e della lotta di classe, e nella sua sostituzione col concetto astratto di Nazione, era già implicito tutto l’antiliberalismo sviluppato poi dal movimento fascista (…). Che cos’è infatti la Nazione-mito del nazionalfascismo se non una legge trascendente che viene ad imporsi, dal di fuori, alla società e alla storia, negando quella libera lotta politica ed economica dei vari elementi sociali, nel cui riconoscimento consiste appunto il liberalismo? (2) Antiliberalismo ed antisocialismo fascisti hanno una stessa radice ideale. Il fascismo è antisocialista perché il socialismo mira a dare una coscienza ed una vita autonoma al proletariato, mentre esso, in nome della Nazione trascendente, nega il proletariato non meno della borghesia. Il fascismo è perfettamente sincero quando dichiara di non volere lo sfruttamento e l’oppressione dei lavoratori, di volere, anzi, il loro bene e la loro prosperità. Ma questo bene e questa prosperità devono essere, anziché libera creazione dei lavoratori stessi, dono paterno dello Stato-Nazione…» (3). Cattolicesimo e populismo: appunti preliminari di un successivo approfondimento Ora, però, i ceti medi non espressero solo il fascismo ma accolsero anche le soluzioni politiche e sociali che, a partire dall’Ottocento, il Cattolicesimo, nel suo sforzo di ripensare e ri-convertire la modernità con cui esso doveva confrontarsi, andava elaborando e proponendo sulla base metapolitica della Tradizione e della Scrittura. Il cattolicesimo politico-sociale ed i fascismi, nei Paesi di identità storica cattolica, furono concorrenti – e tale concorrenza si manifestò proprio nel contendersi l’adesione dei ceti medi e popolari – ma anche, in certi momenti, convergenti benché tale convergenza fosse, e non poteva essere altrimenti, del tutto precaria stante l’assoluta differenza di struttura teologica e filosofica tra essi. Affinché tale convergenza fosse possibile era necessario da parte fascista la rinuncia a proporsi come religione politica di ascendenze «giacobine», quindi concorrente, conflittuale ed alternativa, proprio sul piano «religioso», con il Cattolicesimo. Non a caso lo scontro in effetti fu, poi, inevitabile, sia nel momento di maggior avvicinamento, a seguito della Conciliazione, con la crisi innescata dal tentativo del regime di soffocare l’Azione Cattolica, sia nel momento della alleanza con il nazismo che segnò il naufragio di ogni ipotesi di «battesimo» del fascismo. Lo scontro va storicamente registrato, segnalando però che, tuttavia, esso non impedì un riavvicinamento personale e, forse (solo Dio lo sa perché solo Lui legge nei cuori), la conversione, di Mussolini come di molti altri esponenti politici ed intellettuali del o vicini al fascismo italiano. Esamineremo, nella nostra serie di annunciati interventi, anche questi aspetti della questione in quanto rivestono per noi un particolare interesse. L’autore di questo contributo è stato, adolescente, un convinto seguace delle idee socialiste nazionali ma, successivamente, sia mediante maggiori approfondimenti filosofici e storiografici, sulla scia dei valenti studiosi che spesso richiamerà, i quali lo hanno vaccinato da qualsiasi facile apologetica liberandolo dall’ideologia nella direzione di una migliore e storicamente obiettiva valutazione, anche nelle sue gravi zone d’ombra, del fascismo, sia, soprattutto, avendo incontrato la Persona Divino-Umana di Gesù Cristo, ed avendo fatto una scelta assoluta per Lui, è particolarmente sensibile, anche al fine di un chiarimento innanzitutto personale del proprio percorso di vita, all’approfondimento delle potenzialità di quell’antica concorrenza/convergenza, e delle cause che non l’hanno resa possibile. È, infatti, convinzione dell’autore che un eventuale, nuovo e futuro cattolicesimo politico, un nuovo «popolarismo», deve fare i conti con un eventuale, nuovo e futuro «populismo» che, però – attenzione! – sappia essere nazionale ma non xenofobo o razzista (4). Che anzi costituisca l’antidoto ad ogni ributtante pulsione tribalista e neopagana che affiora nel populismo vecchio o nuovo. Questo al fine di purificare una forza che può essere una efficace risposta al globalismo finanziario ma che se è lasciata putrefare nel paganesimo etnicista avrà, al contrario, il solo ruolo di spauracchio con cui i poteri della finanza transnazionale ed apolide continueranno ad irretire i popoli. In questo senso, come diremo nel corso dell’annunciata nostra serie di interventi, non si può rinunciare alla forma Stato in favore di radicamenti ed identità territoriali a base etnica. Insomma se il populismo non rigetta il suo latente razzismo finirà solo per essere l’utile idiota della finanza speculatrice. D’altro canto, un cattolicesimo politico che sappia essere anche sociale, e magari «socialista» (5), ma non conservatore né liberal-conservatore, deve rimanere – e questa una questione assolutamente fondamentale! – fortemente radicato nella Trascendenza per non ripetere l’errore catto-democratico e «sturziano» di scivolare verso l’omologazione con il progressismo laicista o verso il liberalismo. Perché, come scriveva Augusto Del Noce nel lontano 1978, «Sembra infatti che i cattolici … abbiano dimenticato che la Democrazia Cristiana ha le sue radici ideali nella rinascita cattolica promossa dal Pontefice Leone XIII con l’enciclica Aeternis Patris del 1879. La letteratura sulle origini dei movimenti politici e sociali organizzata dai cattolici si fa… sempre più abbondante, ma la ricerca verte con preferenza assoluta sulle figure anche minime dei modernisti: sembra che la discendenza da un modernismo assolto dall’accusa di eresia e chiamato a giudicare impietosamente, quali calunniatori, i suoi avversari di allora, sia il segno gentilizio. I richiami alle origini autentiche sono estremamente rari. Il migliore che io conosca è quel che dedica loro uno dei maggiori maestri contemporanei del pensiero tomista, il Gilson: ‘Il pensiero profondo di Leone XIII si annuncia all’inizio dell’enciclica Aeternis Patris, ed è un pensiero sociale, essendo ben inteso che l’ordine di ogni società riposa sulla coscienza della verità accettata da coloro che governano il corpo politico. La religione cristiana, diffusa dalla fede nel mondo intero, è la sola capace di insegnare tutta la verità e nient’altro che la verità. Non bisogna però disprezzare gli aiuti naturali che la saggezza divina ha previsto per facilitare l’opera della fede. Principale tra essi è il buon uso della filosofia. Infatti non è invano che Dio ha inserito la luce della ragione nel pensiero dell’uomo; e lungi dallo spegnere o dal diminuire il potere dell’intelligenza, la luce della fede lo perfeziona e, avendo così accresciuto le sue forze, lo rende capace delle cose più grandi. Si tratta dunque nell’enciclica, in tempi di disordini sociali dipendenti essi stessi da un disordine intellettuale, di fare appello al sapere umano per rimettere i popoli sulla via della fede e della salvezza. Quale che sia l’idea che ci si debba fare della filosofia cristiana, è certo che essa definirà un uso apostolico della filosofia, concepita come ausiliaria dell’opera di salvezza dell’umanità’. Dunque, la rinascita cattolica deve essere, secondo il pensiero di Leone XIII, inscindibilmente religiosa, filosofica e politica; ‘politica’ perché richiesta come necessaria per la salvezza temporale della società umana; ma questa politica deve appoggiarsi su una filosofia che sia a sua volta preambolo della fede. Si intende questa unità quando nelle encicliche di Leone XIII si vedano insieme un programma e un punto d’arrivo; il punto d’arrivo di un lungo e tortuoso processo, quello del pensamento cattolico dell’epoca storica che aveva preso inizio dalla Rivoluzione Francese. Il Gilson osserva pure che se si leggono le principali encicliche di Leone XIII nell’ordine logico e non cronologico in cui egli stesso le ha disposte in occasione del venticinquesimo anniversario della sua elezione al Pontificato, ci si accorge che ci si trova davanti a quel che si potrebbe chiamare il Corpus Leoninum della filosofia cristiana del XIX secolo e che si è indotti a riconoscere che ‘Leone XIII prende posto nella storia della filosofia come il più grande filosofo cristiano del secolo XIX e uno dei più grandi di tutti i tempi’. Aggiunge altresì come sia curioso che ‘così pochi tra i nostri contemporanei, dico tra i cristiani, sembrino aver conoscenza di questo fatto’ (…). La posizione dei cattolici nei riguardi del Corpus leoninum è (stata contrassegnata dal fatto che)… è mancata l’attenzione al carattere organico, per un’attitudine analitica nei riguardi delle varie parti, considerate come distinte e sostanzialmente autonome. Così, i vecchi politici cattolici leggevano la Rerum Novarum come se fosse isolabile dall’insieme del Corpus Leoninum; coerentemente i nuovi, portando alle conseguenze ultime il difetto di questa linea, hanno del tutto trascurato di leggerla; capita perciò di sentire che il compito del partito democristiano sarebbe di adeguare la coscienza politica dei cattolici alla moderna società democratica, dissipando le tentazioni teocratiche e integralistiche. O che, alla fine, il partito dovrebbe rinunziare all’aggettivo cristiano per risolversi in un partito democratico inteso a garantire le migliori condizioni per lo sviluppo produttivo e per la realizzazione temporale di ognuno assumendo una pura posizione di neutralità nel campo culturale e nel campo religioso. Ancora un passo e arriviamo all’idea di un cristianesimo che si risolva nella politica, come forza propulsiva di un abbastanza indeterminato progresso sociale…» (6). Cercheremo dunque di dimostrare che la risposta cristiana alla globalizzazione non può non tener conto dell’Eterno e della differenza che sussiste tra Cristianesimo ed umanitarismo, tra Chiesa Universale e cosmopoli globale. E che pertanto quella risposta, come si è detto, non può essere trovata, cristianamente, nei populismi, sovente «neopagani», a meno che non si diano certe condizioni filosofiche e storiche che per la verità non si sono date, finora, che in un caso, del resto non andato a buon fine, nell’Italia degli anni Trenta. Tuttavia, i decenni che ci separano dalla bella pagina delnociana, da noi citata, ci hanno immessi nel pieno della post-modernità, di quella società liquida «profetizzata» quale «età profana della secolarizzazione» proprio da Augusto Del Noce ed oggi ben descritta da Zigmunt Bauman come dissolvente di ogni ideale ed identità. Questo passaggio epocale ha spostato di molto i termini del problema rispetto a come essi erano posti nel XX secolo. Il post-moderno coincide soprattutto con il post-statuale, ossia con il tendenziale superamento, in atto, della forma Stato della Comunità Politica. Questione, questa, che pone seri interrogativi sulle concrete possibilità di successo di un nuovo «populismo», dal momento che privati dello Stato nazionale gli attuali populismi tendono al tribalismo microterritoriale, venato di xenofobia e funzionale proprio alla globalizzazione che credono di combattere ed invece, contribuendo a destrutturare lo Stato nazionale, essi favoriscono. Oppure, tendono alla mera protesta fiscale, sul tipo dell’americano Tea Party, anche in tal caso favorendo, con la destualizzazione che si nascondo dietro l’antifiscalismo, la globalizzazione (7). Parleremo anche di questo. Ma il nostro discorso deve, necessariamente, iniziare dall’attualità, dal contesto della crisi economica partita nel 2008 e che sembra riproporre molti degli scenari già conosciuti negli anni Trenta, come conseguenza del grande crack di Wall Street del 1929. Il Grande Inganno L’attuale crisi economica, che, in un certo senso, è appunto il replay di quella del 1929, sta provocando il collasso sociale dei ceti medi, già da decenni provati dall’apertura globale dei mercati che ha impoverito proprio gli strati sociali popolari. La reazione sociale di tali ceti, in tutti i Paesi europei, non si è affatto fatta attendere e spesso essa ha assunto la forma di un nuovo, temuto dalle élite del capitalismo finanziario, populismo, sia di sinistra (il movimento di Grillo o quello di Ingroia, in Italia, i «pirates» in Germania, i movimenti libertari di massa in Spagna, Grecia, Portogallo) sia di destra (i movimenti nazionalisti ed etnici in Olanda, Germania, Ungheria, il Fronte Nazionale in Francia, la neonazista Alba Dorata in Grecia, la Destra storaciana e Forza Nuova in Italia). Nei mesi scorsi i popoli europei sono scesi nelle piazze. Non solo a Roma, Madrid, Lisbona ed Atene. Ma persino a Berlino, Parigi, Bruxelles ed Amsterdam. Segno che l’insofferenza per le politiche di rigore eurocratiche va crescendo sempre più ed ovunque in Europa. Non solo nei Paesi cosiddetti PIIGS ma anche nella presunta florida Germania, con i suoi sedici milioni di poveri e disoccupati, nel presunto ricco Belgio, con il suo, in proporzione percentuale, altrettanto drammatico livello di povertà e disoccupazione in aumento. Perché quella dell’efficienza della Germania o del Belgio, e di altri Paesi ritenuti, con i parametri monetaristi eurocratici, virtuosi, è solo una mitologia. In un reportage di recente pubblicazione, delle cui conclusioni naturalmente nulla si dirà nelle TV pubbliche e private, è stato smontato il mito dell’efficienza sociale nordica, anche se viene messo in rilievo che i tedeschi poveri non se la passano altrettanto male dei loro co-sfortunati colleghi di altri Paesi, potendo contare su una maggior assistenza pubblica (ossia pagata con il tanto famigerato «debito pubblico»). Apprendiamo dunque, dalla «viva voce» dell’autore dell’indagine in questione, come vivono i «poveri di un Paese ricco»: «In Germania lo è uno su cinque, circa 16 milioni, e gli sfortunati, tra gli europei più fortunati, vanno aumentando, sia pure di poco: il 19,7% e, alla fine di quest’anno, saranno il 19,9%. Naturalmente nessuno soffre la fame, e tutti, se lo vogliono, hanno un alloggio, sia pure di una stanza e servizi. I clochard in inverno avranno dove ricoverarsi (…). Le misure sociali sono sempre le migliori d’Europa, quindi del mondo: ognuno, abbia lavorato o no nella sua vita, riceve 367 euro al mese, il minimo vitale, più un alloggio con tutte le spese connesse, compresa la TV. Ma sopravvivere non è vivere. Secondo i calcoli della UE, è povero chi ha a disposizione meno di 848 euro al mese, che sembrerà molto per chi pensa ancora in lire, un milione e 700 mila lire. È una media comunque ingannevole. In campagna e nelle cittadine è una cifra che consente ancora un’esistenza dignitosa, ma nelle grandi città si finisce nel ghetto degli sfortunati (…). Il record di povertà è sempre di Lipsia (ex DDR), dove cominciò la rivoluzione pacifica nel 1989, con il 25%, ma è quasi uguale a quella di Dortmund (ex Repubblica Federale), nella Ruhr, un tempo il cuore del carbone e dell’acciaio, che arriva al 24,2% (…). Ad Hannover siamo al 22,6%, a Colonia al 20%, a Düsseldorf… al 19,2%, a Brema al 21,3%. Il trend dei cittadini poveri… va dunque crescendo, nonostante tutte le misure adottate. A Berlino, un bambino su tre vive sotto il limite di povertà, e la percentuale di chi vive grazie alle misure sociali è del 21,1% sui 3,5 milioni di abitanti. È l’unica capitale europea più povera della media nazionale (…). La disoccupazione diminuisce, siamo al livello più basso dalla caduta del Muro, sotto i 3 milioni, ma lavorare non basta per evitare la ‘quasi’ povertà: molti hanno salari intorno ai 1.500 euro netti e, pagate tutte le spese, non si vive molto meglio di chi riceve l’assegno sociale, e non deve pensare all’affitto, al riscaldamento e a tutto il resto (…). Per chi non se la cava bene, abbia un lavoro o meno, è più frustante vivere in mezzo all’agiatezza (…). A Berlino, stanno per aprirsi i tradizionali mercatini natalizi che tanto affascinano i turisti, ma uno sarà riservato ai poveri. Si potrà comprare qualche balocco o gustare una frittella solo mostrando la tessera dell’assistenza sociale» (8). Il quadro delineato da questo reportage spiega molto bene la politica liberal-conservatrice della Germania della Merkel fondata sulle esportazioni verso l’esterno, approfittando della moneta unica che non consente ai concorrenti di svalutare, e sul contenimento salariale all’interno. In tal modo la Germania riesce a lucrare ingenti profitti nel commercio estero mantenendo i tassi del proprio debito pubblico bassi così da disporre delle somme necessarie, senza eccessivi costi, per l’assistenza sociale dei suoi poveri. Tutto questo, però, si regge non solo a scapito dei lavoratori tedeschi penalizzati nel salario, quindi con contrazione della domanda aggregata interna compensata dalle esportazioni, ma soprattutto a scapito di tutti gli altri europei, ed in particolare di quelli meridionali. I quali da un lato sono stati per dieci anni, dall’entrata dell’euro, i beneficiari del credito facile e dell’ingente flusso di capitali tedeschi (così si spiega, ad esempio, il boom edilizio della Spagna di Zapatero ora trasformatosi nel quasi default della Spagna di Rajoy) e dall’altro sono diventati le colonie e, predestinate, vittime della crisi non appena quei capitali e quel credito facile sono venuti meno. Una conferma, questa, dell’assunto che per ogni nazione è un rischio gravissimo esporsi troppo verso l’estero in termini di debito, di vincolo esterno, mentre è saggio riservare all’estero solo una parte non maggioritaria del proprio debito e del proprio import/export. All’efficienza economica o finanziaria non corrisponde affatto, nei Paesi «virtuosi», un’efficienza sociale e civile. Il «miracolo» tedesco, ad esempio, è stato ottenuto – e non solo dal governo conservatore della Merkel ma prima di esso dal governo socialdemocratico di Schröder – al prezzo di gravi sacrifici imposti ai ceti meno abbienti. Forse i popoli europei stanno iniziando a capire il «grande inganno» di cui sono stati vittima ovvero che la causa della crisi non è nel debito pubblico – il quale quando non supera certi non stretti, ma neanche troppo larghi, limiti e quando è nelle mani prevalentemente interne dei popoli, e non in quelle dei «mercati» ossia degli speculatori tipo hedge fund, equivale a ricchezza dei cittadini perché misura la spesa che ciascuno Stato sostiene per il proprio popolo – ma nel debito privato delle banche, nell’esposizione finanziaria privata sui casinò incontrollati della globalizzazione del capitalismo terminale fondato sulla volatilità cibernetica del denaro creato dal nulla. Per salvare le banche, che hanno giocato d’azzardo, anche con i soldi loro affidati in deposito dai clienti convinti che fossero usati per sostenere l’economia reale, gli Stati sono dovuti intervenire, con una discutibile quanto illegittima interpretazione della politica keynesiana (9), a salvataggio del sistema bancario globale, con il solo risultato di consentire al capitale finanziario speculativo transazionale, una volta passato, per esso, il peggio registrato a cavallo del 2007/2008, di mordere, mosso dalla sua natura perversa che consiste nell’insaziabile fame da profitto egoistico nonché immediato ed assoluto, la mano pubblica che lo aveva improvvidamente salvato e, quindi, iniziare a speculare sui «debiti sovrani», attaccando, come fa la belva quando assale il branco delle sue prede, i soggetti più deboli. L’aggressione ha funzionato in particolare in Europa perché gli Stati dell’UE, incastrati nella follia di un trattato monetarista e neoliberista come quello di Maastricht, sono, più di altri Stati, esposti alla speculazione, per via della mancanza, per statuto della BCE, di una vera Banca Centrale a loro servizio, da essi non indipendente ed ad essi sottoposta, quindi chiamata, come ad esempio la Federal Reserve americana, a monetizzare il debito pubblico calmierando spread e tassi di interesse sui titoli di Stato. La BCE, invece, è oggi indipendente dagli Stati dell’UE, su di essi sovrana, e impone loro tagli della spesa sociale o tassazione, o entrambe le cose, per monetizzare, e parzialmente, i loro fabbisogni finanziari. Di «grande inganno» iniziano ormai a parlare in molti (10) Si inizia, forse, a comprendere che è falsa la rappresentazione alle opinioni pubbliche, messa in scena da un sistema mediatico prezzolato dalla finanza transnazionale, dell’origine della crisi come di un problema di debito pubblico e di spesa pubblica. Banchieri, grandi corporation finanziarie e think tank monetaristi hanno convinto i popoli di aver vissuto sopra i loro mezzi e che la colpa da cui emendarsi sarebbe la spesa sociale. In realtà, più vengono imposte politiche di rigore e più la spesa pubblica aumenta per il semplice fatto che da un lato essa, rese indipendenti le Banche Centrali, deriva quasi del tutto dal vincolo da interesse esterno che gli Stati, non più sostenuti dalla propria Banca Centrale, sono costretti a sopportare senza possibilità di ridurla per effetto dell’anatocismo liberamente praticato dai «mercati» (lo Stato, privato del controllo della propria sovranità monetaria, per pagare gli interessi di ieri, deve oggi ulteriormente indebitarsi con gli stessi speculatori contraendo gli interessi che dovrà pagare domani, in un circolo vizioso fondato sul debito e favorevole solo ai banchieri) e dall’altro per il semplice fatto che, depressa l’economia reale non solo per le tasse, come troppo si tende a dire, ma soprattutto per i tagli alla spesa pubblica – l’unica in grado, soprattutto in tempi di recessione, di incentivare la domanda aggregata e quindi il mercato reale –, nessuna crescita è possibile compresa quella della base imponibile (che consentirebbe un abbassamento della pressione fiscale) con conseguente ulteriore divaricazione tra PIL e debito pubblico. La dimostrazione sta nel fatto che attualmente la spesa sociale è ferma da anni – le pensioni sono al 15% del PIL e la sanità all’8% – mentre il debito pubblico aumenta sempre di più. Per nascondere questa realtà, la propaganda liberista punta l’indice contro gli sprechi e le inefficienze del pubblico. Sprechi che, se senza dubbio ci sono e devono essere eliminati, non sono però la vera causa dell’indebitamento pubblico, la quale è, come si è detto poc’anzi, nel vincolo da interesse esterno e nelle politiche di rigore che strozzano l’economia reale. Alla favola degli sprechi – che, ripetiamo, devono essere eliminati, ma innanzitutto per un criterio di moralità pubblica – come causa unica o prevalente del debito pubblico abboccano solo gli allocchi, chiunque essi siano e da qualunque parte politica essi provengano. I fatti hanno dimostrato ampiamente che le politiche neoliberiste, imposte in questi anni dalla tecnocrazia bancocratica – quella che ha costruito questa Europa monetarista –, stanno tristemente peggiorando la situazione presentando il conto della crisi, non ai veri responsabili ossia ai banchieri, finanzieri e speculatori, ma ai popoli indifesi ed inermi di fronte allo strapotere della finanza transnazionale e dei loro servi ovvero i politici da operetta che calcano la scena pubblica ed i media menzogneri. La collera contro governi che tagliano pensioni, salari e servizi pubblici per cederli alla speculazione privata e non si oppongono alla globalizzazione deindustrializzante, sta crescendo. L’austerità regressiva porterà, prima o poi, al deflagrare delle tensioni sociali con gli esiti più imprevedibili. Come è accaduto per il comunismo, imposto ai popoli ad esso soggetti da una nomenclatura di «auto-eletti» e perseguito con fanatico dogmatismo fino al collasso definitivo, così accadrà, anzi sta già accadendo, per questa nuova dottrina totalitaria che è il neoliberismo e che chiede, con mentalità azteca, sacrifici umani sull’altare del rigore e dei tagli. Del resto liberismo e comunismo hanno le stesse radici filosofiche immanentiste nell’antisacralità e nell’antipoliticità. L’economia non è un grafico Il fallimento del governo di Mario Monti, il commissario della finanza transnazionale imposto con un golpe legalitario, ma non per questo costituzionalmente legittimo, ad una Nazione come l’Italia che già con Berlusconi al potere era, per dirla con Dante, «Serva, non Donna di province ma bordello», non sarà mai pubblicamente ammesso. Anzi i media hanno ricevuto l’ordine, e lo stanno già eseguendo, di insistere sul fatto che Monti avrebbe ridato credibilità internazionale all’Italia quando invece egli ha solo reso tranquilli gli speculatori circa l’obbedienza italiana nel fare i «compiti a casa» e nel continuare a «servire il debito». Ma la triste realtà, dopo un anno di sospensione tecnocratica della democrazia, è che il debito pubblico è aumentato proprio tagliando la spesa pubblica ossia ingenerando depressione economica. Mario Monti è un economista neoclassico che crede alla mano invisibile del mercato solo perché sulla carta, ossia matematicamente, l’«elegante» grafico che rappresenta l’incontro spontaneo della domanda e dell’offerta, sul diagramma delle ascisse e delle coordinate, funziona. Ma l’economia come scienza matematica è un grande inganno. Non esiste l’economia come scienza fatta solo di algoritmi e grafici. L’economia è innanzitutto una scienza umana, una scienza sociale, ed ha a che fare soprattutto con la storia e con le sue fondamenta trascendenti. Anzi può dirsi che l’economia è quasi esclusivamente esperienza sociale, storicamente misurabile ma strettamente legata a presupposti morali, filosofici e teologici, di un tipo o dell’altro. In tal senso l’economia non sussiste, come scienza, se non congiunta alla storia dell’economia e del pensiero economico. Sicché un economista che non studia la storia dell’economia e del pensiero economico è destinato a non comprendere nulla degli stessi fenomeni economici. Mario Monti appartiene a questo genere di economisti che astraggono l’economia dalla storia e dalla metastoria. E questo genere di economisti sono tutti – guarda caso – di scuola liberista e neoliberista. Il neoliberismo, come abbiamo detto, è una dottrina totalitaria. Ergendosi a «pensiero unico» il neoliberismo ha fagocitato i suoi oppositori esattamente come facevano i regimi totalitari. Certo, si obietterà che non lo ha fatto con la repressione. Ma quando Solženicyn, appena fuori uscito dal gulag, sostenne, nel suo discorso di Harvard, che la differenza tra il totalitarismo sovietico e quello liberale dell’Occidente sta nel fatto che a quest’ultimo basta staccare la spina del microfono per ridurre al silenzio gli oppositori, intendeva proprio puntare il dito su questo carattere totalitario, benché soft, del liberalismo. Per questa ragione, per la sua capacità di seduzione unita alla sua repressione morbida (11), le ammalianti sirene del neoliberismo hanno finito per affascinare anche i suoi antagonisti storici ossia la sinistra e la destra sociale che sono giunte a gettare alle ortiche il loro patrimonio ideale fatto di aspirazioni alla giustizia sociale e di tutela e valorizzazione delle identità comunitarie. Luigi Copertino • Parte 2 • Parte 3
1) Confronta Renzo De Felice, «Intervista sul fascismo», Laterza, Roma-Bari, 1975. 2) Qui, in questo passaggio del Salvatorelli, è evidente – e questo valga da caveat per tutti i cattolici liberali – quale sia la vera essenza del liberalismo ovvero l’assoluto immanentismo. Egli, infatti, da buon liberale ha orrore di una «legge trascendente che si imponga, dal di fuori, alla società ed alla storia». Ora, Salvatorelli sbaglia nel credere che nel fascismo faccia capolino una tale «trascendenza». Il fascismo, al di là delle sue possibili ma mai attuate conversioni verso l’autentica Trascendenza, è nato dalla cultura immanentista, idealista, marxista, rivoluzionaria, storicista e se ad alcuni, come al Salvatorelli, apparve «trascendente» questo fu dovuto soltanto al fatto che, fattosi Stato, esso ha goduto, nell’epoca «sacrale» della secolarizzazione, del riflesso di quella «sacralità artificiale» con cui lo Stato nazionale moderno, l’hobbesiano «dio mortale», lo schmittiano «primo agente della secolarizzazione», si è imposto sulla scena storica moderna. 3) Confronta Luigi Salvatorelli, «Nazionalfascismo», Torino, 1923. 4) L’assonanza fonetica dei termini «popolarismo» e «populismo» dovrebbe far riflettere il mondo cattolico, anche alla luce della storica concorrenza tra cattolicesimo sociale e fascismi, ed indurlo, come del resto già segnalava un Maritain, a mezzo servizio tra maurranesimo e catto-progressismo, a considerare, in ciò che di positivo hanno, i valori comunitari portati avanti dai populismi, chiedendo loro di rimodularsi nel senso di un sano comunitarismo nazionale, senza pulsioni razziste di nessun genere. D’altro canto i populismi dovrebbero accettare che le identità nazional-popolari, certamente radicate anche nella tradizione religiosa di un popolo, non possono pretendere di assorbire, strumentalmente, la Trascendenza, che rimane sempre infinitamente superiore ad ogni identità storico-culturale popolare, e che quanto di positivo essi possono rappresentare non ha nessuna possibilità di senso e significato umano se non accettando – si ripete: non strumentalmente! – la Luce che viene dall’Alto. Pio XI, nella «Non abbiamo bisogno» ha chiaramente distinto il sano amore per la propria patria, che deve essere parte del bagaglio di fede perché il cristiano, nell’Universale votato alla Trascendenza della Chiesa, non nega l’identità patria altrui laddove pone al contempo la propria, dal nazionalismo razzista e xenofobo cristianamente inaccettabile perché costituisce una «idolatria pagana». Proprio questa chiusura alla Trascendenza costringe i populismi al tribalismo ed ha spinto il cattolicesimo politico, il «popolarismo», in mancanza di un sano riferimento politico, alla deriva verso la liberal-democrazia ossia verso il vuoto simulacro formalista usato, per la beffa dei popoli, dalla finanza apolide e socialmente assassina. 5) Intendiamo – sia ben chiaro – per «socialismo» quella sua forma comunitaria che nulla ha a che fare con l’ideologia marxista. Esiste un «socialismo comunitario» che ha le sue radici nel tradizionalismo reazionario. De Maistre e De Bonald sono, sotto questo profilo, con la loro perorazione del comunitarismo premoderno, «socialisti» tanto che proprio Marx – che d’altro canto ha attinto, senza confessarlo, anche da loro – li disprezzava come i rappresentanti di un «socialismo aristocratico« che – sono parole del filosofo di Treviri – innalzava la bisaccia del povero solo per opporsi alla modernità borghese. Per quanto il tradizionalismo sia stato trattato con sospetto – e non senza ragioni – dal magistero ecclesiale, bisogna tuttavia riconoscere che tutto il cattolicesimo sociale ottocentesco ne sviluppa, per tanti versi, la critica al mondo liberale. 6) Augusto Del Noce, «Il suicidio della Rivoluzione», Rusconi, Milano, 1978, pagine 257-260. 7) Naturalmente non è, qui, in questione la protesta contro l’eccesso di tassazione. Se fosse solo questo nulla quaestio. In realtà dietro la protesta antifiscale, per quanto fondata possa essere, si muovono sempre quelle potenti forze culturali ed economiche che, mediante la «marxiana» abolizione dello Stato nazionale, mirano a perfezionare il processo di globalizzazione. Del resto è anche vero che, proprio per evitare l’uso strumentale di una protesta che in parte ha anche delle ragioni, lo Stato dovrebbe praticare una politica fiscale equa ed accettabile e che personaggi come Befera, con i suoi molteplici incarichi politicamente fiduciari, rappresenta la degenerazione statalista della statualità, sicché proprio tali alti dirigenti amministrativi sono quelli che portano acqua alla destatualizzazione. 8) Confronta Roberto Giardina «Vivere da poveri in un Paese ricco» in Italia Oggi del 22 novembre 2012. 9) Mentre negli anni ‘30 Roosevelt pose un freno alla speculazione ed usò la spesa pubblica per riavviare l’economia mediante il deficit spending, ossia investimenti pubblici per incentivare la domanda aggregata e quindi anche gli investimenti privati, invece a partire dal 2008, quando iniziò l’attuale crisi, i governi, anziché salvare industrie e posti di lavoro, si sono preoccupati di salvare dal fallimento le grandi banche d’affari, che fino al giorno prima invocavano la deregulation finanziaria ed il ritrarsi della mano visibile pubblica dal «sacrosanto» libero mercato. 10) Confronta intervista a Luciano Gallino su Il Centro del 15 novembre 2012. 11) In realtà la repressione morbida del liberalismo occidentale può facilmente trasformarsi in furore da «caccia alle streghe» come ben sanno tutti coloro che, per solo protestare in pubblico idee poco consone al dominio degli attuali «idola tribus», rischiano la pubblica e mediatica proscrizione, quando gli va bene, o addirittura la galera, quando gli va male.
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