Una gentile lettrice, che ci sembra essere cattolica, intervenendo, in margine al nostro articolo «Disincanto Pomigliano» (1) , ci conferma su quanto dicevamo, nell’articolo, a proposito dell’incapacità dell’attuale cultura cattolica di elaborare analisi proprie senza andare dietro a quelle liberali.
Non ce ne voglia, la nostra lettrice. Questa non è una valutazione sulle sue idee. Ci mancherebbe. Abbiamo chiuso il nostro precedente intervento dicendo che non abbiamo ricette da proporre. Figuriamoci se intendiamo giudicare chi invece la ricetta, quella unica ed infallibile, sulla scorta del pensiero unico, è sicura di averla.
Ci limitiamo solo a richiamare la nostra lettrice, e gli altri amici lettori, all’esatta comprensione di quel che abbiamo scritto.
Crediamo di aver detto chiaramente che l’industrializzazione ha migliorato le condizioni di vita dell’umanità. Ma, ci sembra, che non, per questo, si possa tacere, in una analisi storico-filosofica, sui molti guasti e mali da quel processo prodotti.
Un processo che, come molte cose umane, non ha trovato corrispondenza, innanzitutto, nelle attese vere e profonde del cuore umano: ad iniziare dalla giustizia.
Non stiamo qui a ricordare i molti, tristissimi, capitoli del «libro nero del capitalismo» (non esiste, infatti, solo il «libro nero del comunismo»), altrimenti non potremmo evitare, in un’epoca nella quale è egemone il liberal-conservatorismo, l’accusa di «cripto-marxismo».
Quel che invece ci fa indignare, di fronte alle pretese del globalismo attuale come ai misfatti storici del liberalismo, è solo la Fede in Gesù Cristo: Via, Verità, Vita.
La nostra gentile lettrice, molto probabilmente, non ha ancora capito che il liberismo non è una dottrina che si limita, come sostengono i suoi sostenitori, a descrivere l’andamento naturale delle cose economiche, ma è, soprattutto nella sua attuale forma globalista, una ideologia, portatrice di una visione immanentista e millenarista, alla stessa stregua del marxismo. Chi voglia convincersene legga «La paura e la speranza» di Giulio Tremonti, che certo non può essere accusato di cripto-marxismo, oppure le opere di un pensatore liberale, ma critico del globalismo, come il premio Nobel per l’economia Maurice Allais.
Quel che la nostra amica lettrice, sulla scorta della Scuola di Vienna, crede essere nient’altro che un ineludibile processo di mercato, è invece soltanto un ben preciso disegno ideologico che si è servito, e si sta servendo, anche di mezzi e strategie di tipo culturali delle quali, in Italia, case editrici come la Rubbettino sono espressione.
Questa strategia culturale ha fatto breccia proprio nel mondo cattolico un tempo «tradizionalista», che tale era però più per anticomunismo che per antiliberalismo.
Di fronte a tale debacle cattolica, serve un sano bagno di realismo storico. Farebbe molto bene a chi, come la nostra amica lettrice, ritiene essere mitologia marxista ricordare come avvenne la prima industrializzazione.
Non crediamo che uno storico come Jean Dumont possa essere definito marxista o essere sospettato di simpatie marxiste. Eppure è proprio Dumont, in alcune pagine di una sua importante opera (2), a ricordare quei drammi ed a rammentare che la Chiesa, in alcuni suoi esponenti come gli abati di Lione, si erse quasi subito a difesa degli artigiani in via di impoverimento.
Più che un «mito marxista» esistono oggi molti «miti liberali» che circolano tranquillamente tra il pubblico. Anche tra un certo pubblico cattolico: quello che legge, acriticamente, Il Giornale, Libero, Il Timone, etc…
Tuttavia, questi «miti», di matrice liberale, non fanno alcuna presa a livelli storiografici seri, scientifici e specializzati. L’apologetica di certa cultura catto-liberale è nient’altro che la fiera della menzogna storica.
«Mito marxista» il fatto che la prima industrializzazione provocò reazioni da parte di coloro che scivolavano verso la pauperizzazione a causa del venir meno delle tradizionali protezioni corporative o, in campagna, dei tradizionali usi civici, a motivo dell’industrializzazione in Inghilterra e di certe trasformazioni indotte da provvedimenti come la legge Le Chapelier nella Francia rivoluzionaria (3)?
Se i luddisti si opponevano alla Rivoluzione Industriale in Inghilterra, vandeani, insorgenti e contadini sanfedisti si opposero ai principi liberisti che la Rivoluzione Francese esportava ovunque in Europa e che il Codice di Napoleone codificò.
Gli insorgenti, infatti, non erano solo «antigiacobini», sia perché la fase giacobina, propriamente detta, della Rivoluzione era tramontata da un pezzo quando i francesi invasero l’Europa, sia perché la «democrazia statalista e totalitaria» sognata dai giacobini e il liberalismo conservatore auspicato dai rivoluzionari moderati avevano la stessa radice filosofica nel «contrattualismo sociale» di origine protestante.
Industrializzazione e Rivoluzione Francese abolirono le antiche corporazioni e l’apprendistato. Le legislazioni, da quel momento, contemplarono il «delitto di coalizione», penalmente perseguibile, abrogato in Francia solo nel 1864. Le associazioni sindacali di lavoratori furono proibite, insieme al diritto di sciopero, con l’argomento che, abolite le vecchie corporazioni, non si poteva permetterne la ricostruzione di nuove, che si interponessero fra Stato e cittadini. Questo perché, come si diceva allora, «a nessuno è permesso di ispirare ai cittadini un interesse intermediario».
Dal momento che siamo incappati nell’accusa di esserne influenzati, lasciamo ogni prudenza e tiriamo in ballo proprio Karl Marx.
Lo evochiamo per ricordare quanto egli ha scritto ne «Il Manifesto» (1848) circa il ruolo rivoluzionario che la borghesia, ai suoi tempi, andava svolgendo. Quel ruolo consisteva, come con cinismo quasi lirico egli affermava, nel raffreddare gli slanci mistici della religione e nel dissolvere i variopinti legami comunitari fra gli uomini allo scopo di mettere l’umanità a nudo di fronte a ciò che davvero sarebbe il motore della storia ossia il gelido calcolo utilitarista ed il tornaconto personale o di classe.
Certamente, Marx introduceva, poi, anche un elemento millenaristico, quello dell’auspicata e futura società senza classi, ed autogestionaria, che il comunismo avrebbe fatto conseguire all’umanità. In questo Marx riprendeva, secolarizzandola, la speranza escatologica.
Ma Marx non disprezzava affatto il ruolo rivoluzionario della borghesia, anzi lo esaltava come il battistrada del comunismo, lasciando in tal modo intravvedere la segreta parentela filosofica che lega marxismo e liberismo. Infatti, con il termine «borghesia», Marx indicava in particolare le idee rivoluzionarie di cui la borghesia, come classe sociale, si faceva portatrice. Quelle idee erano conosciute, nella sua epoca, con la denominazione di «fisiocrazia». Oggi diremmo liberismo. Non a caso i padri filosofici, nell’analisi economica, dai quali, pur con l’intenzione di perfezionarne il pensiero, prende le mosse Marx sono Ricardo e Adam Smith, i liberisti classici.
In una cosa, però, il Marx de «Il Manifesto» aveva ragione: il liberismo riduce tutta la realtà a calcolo economico e concepisce le relazioni tra gli uomini esclusivamente come rapporti sinallagmatici, ossia contrattualistici, di scambio. Un riduzionismo che raffredda lo slancio mistico così come dissolve i legami comunitari.
In un certo senso si può dire che il marxismo, o perlomeno il pensiero marxiano, abbia trovato la sua realizzazione nell’Occidente liberista.
Dove, infatti, si è realizzata la silenziosa estinzione di Dio, che Marx auspicava, se non nell’attuale Occidente?
Dove si è realizzata la socializzazione dello Stato, ossia lo scioglimento della sua trascendenza politica nell’organizzazione sociale o aziendale, se non nell’Occidente oggi trionfante?
Dove ha vinto la prospettiva solipsista e prometeica marxiana dell’uomo capace di superare i limiti naturali dell’umanità mediante il potenziamento della tecnica, se non in Occidente?
E dove, infine, si è realizzata la spontaneità sociale immaginata da Marx, per la sua società futura, se non nell’automatismo del mercato che rifiuta ogni eterodirezione?
Persino l’internazionalismo del «proletari di tutti il mondo unitevi» ha trovato il suo adempimento, inaspettato dai comunisti, nella globalizzazione dei mercati. Lo riconosceva anni fa D’Alema ammettendo che nel corso del XX secolo il capitalismo aveva conseguito, in modo più efficiente ed efficace, l’unità economica del genere umano in direzione della quale il comunismo inutilmente si era affannato, fallendo completamente.
Se, tra marxismo e liberismo, c’è una differenza, essa è soltanto quella per la quale laddove il liberismo assegna allo spontaneismo invisibile del mercato la capacità di tutto aggiustare e di conseguire la perfezione dell’armonia sociale, senza bisogno di interventi di Dio - leggasi Carità o morale solidarista - e dello Stato, Marx vede il raggiungimento di quella armonica perfezione solo alla fine di un processo dialettico di scontro classista. Ma anche qui, anche in Marx, la società, per raggiungere la sua perfezione autogestionaria, ha necessità di abolire sia Dio che lo Stato, perché il Primo sarebbe la giustificazione teologica del diritto assoluto di proprietà ed il secondo il «comitato d’affari» della classe capitalista.
Tornando alle critiche mosseci in margine a quanto abbiamo detto a proposito della questione di Pomigliano, pensiamo, sinceramente, che quando non si è in grado di distinguere una seria analisi storico-filosofica dai propri desiderata ideologici, che vorrebbero che l’ideologia liberista, nella sua marcia trionfale verso le «magnifiche sorti e progressive», abbia alle spalle una storia immacolata, non sia affatto il caso di accusare altri di essere influenzati dalla «mitologia marxista».
Questo perché la cultura liberale, cui la nostra critica interlocutrice fa riferimento, è sostanzialmente una grande costruzione mitologica che non regge affatto il confronto con la gran mole di lavori della più seria storiografia, anche economica.
Con il che non si vuol certamente negare che ogni ricostruzione storiografica ha i suoi limiti. Ed è per questo che la storia è sempre continua revisione. Tuttavia revisionare non significa piegare la realtà storica alle sole esigenze di una dottrina prefissata, fosse pure quella della Scuola di Vienna.
Per quanto riguarda, invece, la Scuola di Salamanca, è del tutto vero che essa si è occupata anche di economia sulla scorta delle elaborazioni, in argomento, di origine medioevale, come quelle sul «giusto prezzo». Ma appunto si trattava di analisi teologico-morali dei fenomeni economici che erano però sviluppate in seno ad una precisa visione del mondo, di riferimento, ossia quella cattolica.
Per la teologia morale cattolica, che fu propria anche dell’insegnamento salmantino, il lavoro non è mai una merce. E’ stato Leone XIII a codificare tale principio, latente nella Tradizione teologica precedente, e dopo di lui tutti i Papi non hanno mai mancato di ribadirne l’assunto.
Questo, come appare evidente, fa la differenza con la visione liberale per la quale anche il lavoro è invece soggetto alla presunta «mano invisibile», senza che pattuizioni collettive, che in qualche modo ripristinano le «abolite protezioni corporative», o interventi esterni dello Stato vengano a perturbare l’armonica autoregolazione (?!) del mercato.
Il punto sta tutto nel fatto che quando la teologia cattolica e la dottrina liberale parlano di morale applicata all’economia esse intendono concezioni del tutto diverse.
La teologia cattolica suppone un fondamento etero-economico dell’economia che è dato dalla Giustizia e dall’Equità (che necessitano di un supporto di grazia dall’Alto) e che legittimano le solidarietà associative e gli interventi redistributivi della pubblica autorità. Invece il liberalismo suppone, protestanticamente, una morale sganciata da ogni fondamento metafisico. Una «morale» che, quindi, si riduce soltanto alla ratifica dell’equilibrio automatico imposto dalla legge della domanda e dell’offerta. Equilibrio che viene ritenuto, di per sé e per definizione, sempre equo e giusto.
Non è così, però, per il Magistero Sociale dei Papi, che in tale automatismo non hanno mai creduto e che, soprattutto, mai hanno asseverato che dalla mano invisibile possano spontaneamente nascere, quasi per emersione quantitativa dal basso, equità e giustizia.
Il liberalismo, anche quando pretende per sé una moralità adamantina, resta in realtà sempre e solo una delle forme del pensiero filosofico immanentista ed in quanto tale in perpetua rotta di collisione con il Cattolicesimo. E, benché in molti si sforzano soprattutto oggi di smussare i punti di attrito, i nodi prima o poi vengono sempre e comunque al pettine. Inevitabilmente.
La Scuola di Salamanca, volendo dire di più, ha anche elaborato, due secoli e mezzo prima della Rivoluzione Francese, l’idea dei diritti dell’uomo. Diventa essa, solo per questo, una antesignana dell’illuminismo o del diritto internazione globale?!
No, perché in realtà i suoi succedanei non cattolici, come Grozio e Pufendorf, di area protestante e, poi, illuminista, hanno certamente ripreso molte delle istanze dei salmantini ma - ed ecco il punto - decapitando la radice prima del loro pensiero, ossia il fondamento metafisico in Dio, che era garantito dalla visione teologica cattolica, riducendo quelle «rubate» istanze salmantine ad un filosofia umanitaria, priva dell’originario fondamento metafisico sostituito, tutt’al più, da un fondamento «morale» ma nel senso della «morale secolarizzata» di cui sopra.
Lo stesso dicasi per il rapporto che, in apparenza, lega la Scuola di Salamanca alla Scuola di Vienna: quest’ultima ha decapitato la Radice Prima, metafisica, riducendo tutto il pensiero economico salmantino ad una giustificazione morale - ma, come detto, di una morale sciolta da ogni istanza di carattere superiore e sovraumano - del primato liberale del mercato.
Si tratta non dello sviluppo del pensiero salmantino ma piuttosto di una sua rielaborazione, effettuata prescindendo dalla sua matrice cattolica. Sotto il profilo storico, siamo di fronte ad una operazione di «falsificazione», nel senso che tale termine ha presso gli storici ossia quello di «rielaborazione decontestualizzata».
In ogni caso, resta sicuro, proprio sotto un profilo storico ed insieme teologico, che giammai i salmantini, ad iniziare dai massimi esponenti come Vitoria e Suarez, hanno postulato il primato morale del mercato sul Politico.
Per la Scuola di Salamanca il primato, in temporalibus, è della Comunità politica di diritto naturale, che trova le sue declinazioni storiche nelle diverse forme nella quali essa compare nel corso dei secoli, dalla polis al regno, dalla tribù alla nazione, dall’impero sovranazionale alla confederazione di Stati sovrani (4).
Il primato, i grandi maestri di Salamanca, lo riconoscevano piuttosto al Politico avendo essi portato a termine l’elaborazione, di origini tomiste, dell’idea della naturalità della comunità politica.
Non dimentichiamoci che essi storicamente vissero l’età che vide gli albori dello Stato nazionale in un’Europa che andava perdendo di vista l’universalismo medioevale. Tanto è vero che per i salmantini l’Imperatore non poteva più avanzare alcuna pretesa di potere universale mentre il Papa poteva averne solo in spiritualibus.
Da qui, da un lato, il riconoscimento, contro ogni tentazione teocratica, che i salmantini facevano della legittimità politico-naturale dei «regni» indios appena conquistati dagli spagnoli, e dall’altro, appunto, l’elaborazione di un’idea cattolica di diritto umano (5).
Poi sono arrivati i Pufendorf, i Grozio, gli Hobbes, i Rousseau che hanno, per l’appunto, decontestualizzato, come più tardi fecero sul piano del pensiero economico anche i von Mises ed i von Hayek, il pensiero dei Vitoria, dei Suarez, dei Domingo de Soto, dei Molina.
Rimane il fatto che, per l’appunto, è posizione «ideologico-mitologica» quella della cultura liberale che mentre osanna la presunta superiorità dell’Occidente ne nasconde, però, storiograficamente truffando, il «lato oscuro», con la pretesa oltretutto, ed anche in tal caso con evidente anacronismo storico e falsificazione teologica, di fare del Cristianesimo la radice di questo tipo di Occidente nato dal dissolvimento della Cristianità.
La Cristianità, infatti, è stata uccisa proprio dall’Occidente moderno. Quest’ultimo, poi, sin dalle sue origini «luterane», ha, tra l’altro, impedito anche una possibile diversa modernità che proprio la Scuola di Salamanca aveva contribuito ad «ipotizzare» (6).
Luigi Copertino
1) «Spero non risulti noioso un ennesimo commento controcorrente a favore della Scuola Austriaca, però mi sembra pertinente sottolineare che esiste e sta crescendo rapidamente un movimento di pensiero economico per cui la Scuola di Salamanca è tutt’altro che dimenticata, che vi identifica orgogliosamente le sue origini e ne rivendica continuità di pensiero. Dalla Scuola di Salamanca originò l’idea che esistono leggi economiche che possono essere comprese con l’analisi e la logica, e la Scuola Austriaca ha proseguito su queste basi. La Scuola Austriaca è notoriamente a favore del più radicale liberismo economico, intendendo però qualcosa di molto diverso (ovvero opposto) da ‘le banche possono fare quello che vogliono con i soldi delle persone comuni con l’autorizzazione dello Stato’, bensì intendendolo come (esprimendo il concetto al negativo) ‘la minima libertà per chiunque di disporre della proprietà degli altri senza il loro consenso’; in pieno accordo con il più antico, formidabile e conciso precetto per la prosperità: non rubare. Una delle voci più attive e conosciute della Scuola Austriaca è il giovane storico Thomas Woods, cattolico decisamente tradizionalista, che ha scritto qualche anno fa un libro credo abbastanza unico: ‘Chiesa e mercato. Una difesa cattolica della libera economia’, edito in italiano da Liberilibri. In questo libro si affrontano quelli che Woods percepisce come i più diffusi equivoci di economia in ambito cattolico. Ovviamente, la critica non riguarda i principî morali alla base della dottrina sociale della Chiesa, bensì quale sia il modo più adeguato per ottemperare a tali principî. C’è anche una estesa discussione sul distributismo di Chesterton e Belloc (una delle tante istanze di idee scaturite dalle buone intenzioni che per superficialità di analisi economica finiscono per sortire gli effetti opposti di quelli desiderati). Già gli studiosi di Salamanca avevano capito le ragioni per cui il ‘giusto prezzo’ del lavoro è quello che deriva dalla libera e volontaria contrattazione tra le parti. Non perché non riuscissero a immaginare delle alternative, ma perché avevano concluso che qualsiasi altra soluzione sarebbe stata comunque arbitraria, e avrebbe introdotto delle distorsioni che in ultima analisi avrebbero danneggiato proprio i prestatori d’opera. Questo non ha mai smesso di essere vero. L’immagine dei lavoratori della Rivoluzione Industriale costretti ad accettare turni di lavoro massacranti e paghe minime perché ‘non difesi nella contrattazione’ e quindi non in grado di resistere ai ‘suprusi dei capitalisti’ è stata inventata e perpetuata dal mito marxista. Essi accettavano quei turni massacranti e quelle paghe perché erano migliori delle alternative che avevano. Con la Rivoluzione Industriale le condizioni materiali della parte più povera della popolazione migliorarono enormemente, tant’è che la popolazione inglese raddoppiò. Si può dire che la Rivoluzione Industriale creò il proletariato, non nel senso della propaganda marxista, cioè impoverendo una fetta di popolazione che prima viveva meglio, bensì nel senso che per la prima volta per un ampio strato di popolazione smise di essere ineluttabile che la propria vita e quella dei figli sarebbe stata nella povertà e nell’indigenza, falcidiati dalle morti precoci. Solo l’aumento di produttività del lavoro (che si ottiene con migliori mezzi di produzione) migliora le condizioni materiali della vita degli strati poveri della popolazione, consentendo di soddisfare le necessità primarie come cibo e vestiario con un minor numero di ore di lavoro, e quindi creando le condizioni per lavorare meno, avere maggiore potere d’acquisto e poter soddisfare anche i bisogni materiali via via meno impellenti.
L’introduzione di migliori mezzi di produzione ha sempre la conseguenza che qualcuno è costretto a cambiare lavoro, ma questo succede insieme ad un miglior tenore di vita che investe tutti, compresi quelli che devono cambiar lavoro.
Non costruire veicoli a motore e ferrovie perché questo costringeva gli allevatori di cavalli a cambiare lavoro non mi sembra avrebbe giovato al benessere dei poveri. Quando si parla di ‘sicurezza del lavoro’, un desiderio che è naturale per tutti, bisognerebbe ricordare che prima dell’era industriale per moltissimi esseri umani nel mondo occidentale non c’era neanche una ragionevole sicurezza di essere vivi il giorno dopo, e riflettere su quali sono realmente le cause di una maggiore sicurezza economica. Maria Missiroli».
2) Confronta J. Dumont, «I falsi miti della Rivoluzione Francese», Effedieffe, Milano.
3) Per le trasformazioni nelle campagne si veda E. Bloch, «La nascita dell’individualismo agrario nella Francia del XVIII secolo», Jaca Book, Milano.
4) Per quanto riguarda la dottrina dello Stato dei salmantini, nell’ambito di una sistemazione teoretica cattolica, rimandiamo alla classica opera del Rommen ,«Lo Stato nel pensiero cattolico», Giuffré.
5) Confronta Claudio Finzi «Gli indios e l’impero universale- scoperta dell’America e dottrina dello Stato», Il Cerchio, Rimini.
6) Su un possibile diverso esito dell’incipit della modernità si veda F. Cardini - S. Valzania, «Le radici perdute dell’Europa - da Carlo V ai conflitti mondiali», Mondadori.