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Un anglo ha un dubbio sulla finanza...
18 Febbraio 2013
Che cos’è realmente l’economia? Fondamentalmente, è «un bilancio dinamico fra energia prodotta ed energia consumata». E allora, che cos’è la moneta? È solo «uno stadio secondario nel processo economico, dei gettoni... che non ha senso avere, se non ci sono cose da comprare». Di conseguenza, la finanza ha solo un ruolo ausiliario: «L’economia è un’applicazione della fisica, non della finanza». E il debito? «È una pretesa su energia futura». Ordunque, ci sarà mai abbastanza energia fisica per coprire gli enormi indebitamenti che oggi gravano sull’economia globale...? Benvenuto nell’economia reale, dottor Tim Morgan; la nuda, cruda economia della realtà fisica. Perché se alcuni nostri lettori (di Schiavi delle Banche, ad esempio) possono ritenere quelli di cui sopra quasi dei luoghi comuni, per un finanziere anglosassone rappresentano un vero e proprio «risveglio della coscienza», quasi rivoluzionario. E Tim Morgan è il «capo di ricerca globale» della Tullett Prebon, una delle maggiori finanziarie di brokeraggio monetario, per di più quotata a Londra: dunque la quintessenza della finanza britannica. Forse è un sintomo che, qualcuno nel mondo anglo-sassone dopo un trentennio di orgia speculativa tutta fondata sulla finanza più pura e staccata dal mondo materiale e in spregio alle sue limitazioni concrete, su invenzioni sempre più fantasiose di «creatività» della cosiddetta ingegneria finanziaria; dopo un’inveterata abitudine a pensare che siano «economia» cose come i derivati, le cartolarizzazioni, le quotazioni, i cambi, i rating dei debiti e i tassi LIBOR, di botto ci si accorge di aver sbagliato tutto, di energia consumata (troppa) ed energia prodotta (poca). E che, a forza di profitti monetari, siamo rovinati. Complimenti a Tim Morgan. E lo si dice senza alcuna ironia: perché solo se queste concezioni passano prima dal mondo anglo-americano e diventano dominanti là, i nostri economisti, politici e eurocrati – in questa periferia culturale, priva di forza intellettuale propria – cominceranno ad adottarle, col consueto ritardo di servi sciocchi. Speriamo. «Perfect Storm - Energy, Finance and the End of Growth» è il titolo che Morgan ha dato al suo studio: la tempesta perfetta, ci spiega, è dovuta alla convergenza di alcuni fattori letali: l’implosione della bolla- debito più titanica della storia, «l’esperimento disastroso della globalizzazione», la falsificazione dei dati statistici che ha oscurato i trend economici veri, e il costo della produzione dell’energia, che sta superando la quantità di energia prodotta. L’integrale lo potete trovare QUI. Se le idee di Morgan non sono nuove per noi, le esprime con vivace intelligenza ed una semplicità, che speriamo possa essere accessibile persino ad uno dei nostri politici, persino ad un professore della Bocconi. Ne diamo qualche accenno, nella vaga speranza che venga alle orecchie di costoro. La globalizzazione: un disastro «Noi», lo sappiamo già. Vediamo come la spiega Morgan. Mettiamo – dice – che una ditta americana fabbricasse un televisore al costo di 350 dollari, e lo vendesse a 400, facendo un margine di 50 dollari. La stessa ditta, grazie alla globalizzazione, fabbrica ora quel televisore in Cina al costo di 50 dollari, aumentando enormemente il suo profitto. La delocalizzazione delle manifatture, mentre provocava un’emorragia di lavori qualificati in Occidente, ha creato enormi profitti alle ditte, e per conseguenza grandi flussi di cassa che sono stati depositati nelle banche; la retribuzione dei capitali, in Occidente, è aumentata a spese delle retribuzioni del lavoro. Frattanto in Cina, i lavoratori hanno cominciato a guadagnare di più (ancorché molto meno dei loro colleghi occidentali), e invece di spendere i loro nuovi guadagni, li hanno risparmiati: nelle banche. Risultato: all’Ovest come all’Est, le banche sono (erano) strapiene di soldi. Ciò pone ai banchieri un problema urgente: come investire tutti quei quattrini con buon profitto? Trovarono volonterosi prenditori negli americani (e negli occidentali in genere): che avendo dovuto scambiare i lavori ben pagati con posti a bassi salari, volevano mantenere il loro livello di vita. Non ve lo potete permettere? Vi facciamo un prestito!, annunciava la finanza. Non bastava ancora, troppi i soldi in cassa. Come sappiamo, i banchieri USA hanno ampliato il mercato dei loro debitori, anticipando mutui a categorie sociali che sapevano non essere nemmeno lontanamente in grado di «servire» i ratei del mutuo: tipicamente, finanziavano il SUV al neo-immigrato messicano senza lavoro fisso, e la villetta alla ragazza-madre negra con 3 figli e 800 dollari al mese. I famigerati debitori «subprime». I banchieri sapevano che questi debitori sarebbero stati presto insolventi. Ma non se ne preoccupavano più, perché avevano trovato il trucco per girare ad altri il rischio di quei mutui: invece di tenerseli nei loro libri contabili, li hanno mescolati a migliaia, macinati e affettati in «titoli» che hanno chiamato «obbligazioni con debito come collaterale» (CDO), che hanno poi spacciato a fondi d’investimento, rifilato a fondi pensione ed altre banche nel mondo, dichiarandoli «investimenti sicuri» – con tanto di rating delle agenzie più prestigiose. Si chiamò «cartolarizzazione» (securitisation) dei debiti. Era un nuovo mestiere per le banche, dice Morgan, che è stato molto facilitato dalla disastrosa abolizione della legge Glass Steagal che vietava alle banche commerciali di fare le banche d’affari: esse non erano più nel business di prestare, ma in quello di confezionatrici di prestiti a pacchi... Ciò parve aumentare i profitti delle banche (e di conseguenza i bonus dei suoi dirigenti), ma era un profitto che avveniva a prezzo dei propri bilanci; e peggio, in quanto questi pacchi di debiti «cartolarizzati» se li vendevano le banche stesse, rempiendosene i forzieri, fuori bilancio. S’intende che, a causa delle delocalizzazioni, il risparmio dell’Occidente diminuiva, e quello dell’Oriente diventava dominante, ed era offerto in misura sempre maggiore sui «mercati», in cerca di frutti. Alle banche occidentali sembrò che fosse equivalente andare a cercare i capitali da prestare sui mercati internazionali, anziché ottenerli dal risparmio generato nella propria nazione. Invece, si esponevano ad un rischio ulteriore: finanziarsi sui mercati anziché dai risparmiatori depositanti significa esporsi ad improvvise fughe del credito, a volatilità catastrofiche, specie se – come avviene – sui mercati i prestiti sono concessi a breve termine e devono essere continuamente rinnovati. Soprattutto, i finanzieri ubriachi di bonus dimenticarono quel che avveniva nell’economia reale sottostante: che in America e poco meno in Europa, la produzione di beni fisici stava declinando, mentre i consumi aumentavano, drogati dal credito facile. Guardavano al mondo, i banchieri. Ma «dal punto di vista nazionale, aumentare il consumo mentre cala la produzione è per definizione un processo insostenibile». Bella scoperta, dottor Morgan... Equivoco deflazione E i governanti, fra cui vanno compresi i banchieri centrali e gli eurocrati? Videro che per la globalizzazione i prezzi dei prodotti manifatturieri (importati dalla Cina) calavano; nelle università di economia avevano appreso che il declino dei prezzi significa «deflazione»; e dunque si comportarono come se dovessero battere la deflazione: abbassando i tassi d’interesse fino a quasi zero. Anzi, a renderli negativi in termini reali. Grave errore. L’espansione industriale in Cina (e altri Paesi emergenti) stava aumentando la domanda di materie prime, e dunque il loro prezzo, provocando inflazione, fenomeno già accentuato dal solo fatto di chiedere prestiti per i consumi. Fino al punto che il rincaro delle materie prime ha superato il vantaggio del declino dei prezzi delle merci importate e fabbricate all’estero: ciò che ha finito per frenare la corsa del consumo-a-debito, innescando la crisi attuale. Ma come ha risposto la teoria liberista al declino delle manifatture in Occidente? Annunciando la nascita della «società dei servizi». Operai licenziati dalle fabbriche, niente paura! Riciclatevi nel settore dei servizi! Il settore terziario, ecco il futuro! Terziario avanzato, come la finanza, il software, il marketing, la creatività! Oppure i «servizi alla persona», in impetuoso sviluppo! Infermieri, badanti, portinai, camerieri, personale alberghiero... Per i finanzieri e gli economisti da loro promossi, che pensano l’economia in termini di moneta, l’un settore vale l’altro. Ma, dice Morgan, «si sarebbe dovuto chiedersi quanto valore reale viene creato facendosi la lavanderia l’uno l’altro, andando più spesso al fast-food o facendo più sedute dalla manicure». Humor britannico. Gli economisti finanziari hanno dimenticato l’antica distinzione, ben nota agli economisti di ieri, fra «produzione vendibile sul piano mondiale» (che comprende prodotti industriali, estrattivi, agricoli e servizi esportabili) e i «servizi consumabili all’interno», che sono i servizi che i cittadini si prestano a vicenda, e loro volta divisi in servizi privati e in servizi pubblici, forniti dal governo (dai politici). La «produzione esportabile» deve essere competitiva coi prezzi mondiali; i servizi interni, no, possono rincarare perché non hanno concorrenti. E non producono ricchezza. Tra il 1980, l’economia americana è cresciuta del 128% ($ 8,5 trilioni). Ma di questa espansione, solo il 10% del totale (0,9 trilioni) è dovuto a produzioni esportabili. Il resto, ossia 7,6 trilioni di dollari, è venuto da servizi che gli americani si son prestato l’un l’altro: o come privati (6,4 trilioni) o come governo (1,2 trilioni). Dunque, dalla globalizzazione in poi l’economia USA ha subito un forte dislocamento: dalla produzione di beni ai servizi consumati all’interno. Molti di questi servizi, inoltre, non sono che monetizzazione di attività informali o marginali: la cura dei vecchi o l’allevamento dei figli, prima importanti attività però non monetarie delle donne di casa, sono diventati «marketables», attività oggi pagate a badanti o maestre d’asilo... E sono entrate nel calcolo del Pil. Nel 1980, in USA, il tasso di consumo privato rispetto alla produzione «globalmente vendibile» era un già allarmante 2,1: 1, ossia: l’americano consumava per 2,1 dollari per ogni dollaro di prodotto vendibile dal paese. Nel 2010, il rapporto è salito a 3,8:1. Ossia per ogni dollaro realmente prodotto, l’americano ne spende 3,8 in consumi. A credito. Non a caso nel 2011 gli USA hanno accusato un deficit di 765 miliardi di dollari (in beni importati), contro solo 187 miliardi di servizi netti esportati. Detto in altro modo, gli americani hanno vissuto e guadagnato moneta facendosi il manicure a vicenda o «lavando i panni l’uno dell’altro». Lo stesso è avvenuto, in diverse misure, in Europa. La teoria corrente, molto insegnata alla Bocconi, ha insegnato agli economisti tipo Monti a spregiare «le manifatture» (di cui parlava Tremonti), come attività superate e incompetitive, e a credere ad un futuro tutto fatto di «servizi». La Germania s’è tenuta le manifatture, stringendo uno storico patto fra produttori per renderle competitive globalmente; in Italia l’euro forte, le tasse strangolatrici, l’ideologia bocconiana e Mario Monti hanno finito per distruggerle a tappo. Per di più, in Italia, il tutto è aggravato dal fatto che la massima parte dei cosiddetti «servizi» sono i servizi pubblici, che lo Stato dovrebbe fornirci e non ci fornisce, ma per i quali si fa pagare e strapagare, distruggendo ricchezza in quantità titaniche. Fatto sta che in USA, il paziente esemplare di questa patologia chiamata finanza, il mercato del credito, che era di 29 trilioni nel 2001, è salito a 54 trilioni di dollari dieci anni dopo: +48% anche se si tiene conto dell’inflazione. Per contro, il Pil americano, nello stesso decennio, è cresciuto sì, ma solo a 17,4 trilioni di dollari. Ciò significa che nel 1980 ci volevano 2,95 dollari di nuovo debito per far crescere di 1 dollaro il Pil; oggi, l’americano deve prendere in prestito 5,67 dollari per crearne 1 per il Pil. L’indebitamento dell’americano, nei soli ultimi dieci anni (200-2010) è salito del 52%; e la crescita è dovuta per lo più ai mutui facili, che hanno prodotto una sopravvalutazione drammatica degli immobili – la quale a sua volta ha spinto ad aumentare l’indebitamento, accendendo un’ipoteca sulla casa di cui si stava pagando il mutuo, ossia addizionando debito al debito, e spendendo il denaro così ottenuto i un nuovo SUV della Toyota o Hyundai; per i banchieri, che volentieri concedevano l’ipoteca, erano «attivi» da addizionare ad «attivi»... fino al collasso dell’estate 2007. In USA il debito pubblico, nel 2007, era ancora il 60% del Pil. Ma il debito privato era già il 300 %. In Italia, come sappiamo, è il contrario: debito privato relativamente basso, debito pubblico immane, oltre il 120 % del Pil, anzi di più se si prendono in conto gli impegni a pagare i fornitori per ora non pagati (70-80) miliardi e a pagare pensionati e pensioni da fondi esausti e svuotati... Fatto è che, in tutto l’Occidente, le torreggianti proporzioni dell’indebitamento sono state mascherate dalle banche dalla «cartolarizzazione» fuori bilancio: titoli cartolarizzati poi detenuti per lo più dalle banche stesse. A questo punto, è bastato il minimo dubbio sulla incapacità di «servire» il debito (ossia di pagare i ratei di interessi; ancor meno di ripagarlo), per bloccare nel terrore i mercati del credito; il valore di quegli «attivi» (costituiti da debito che la ragazze-madre negra) che si alzava, è crollato; e siccome erano il «collaterale» che le banche davano in pegno per indebitarsi, esse mostrarono enormi buchi nei loro bilanci. L’intero sistema era sull’orlo della catastrofe. A questa situazione, quando cioè esplodono le bolle create da bassi tassi d’interesse, le banche centrali rispondono storicamente abbassando an cora i tassi, sperando di rigonfiare gli attivi e di evitare (meglio: rimandare) la recessione. Questo tentativo è stato fatto, ma s’è interrotto nel 2008-9, perché gli interessi erano ormai sottozero. Allora è avvenuto un altro procedimento, chiamato «trasferimento di attivi tossici». Quando i debiti sono diventati troppo onerosi per i clienti, questi li hanno trasferiti alle banche; quando le banche si sono sovraccaricate di attivi tossici, se li sono accollati gli Stati – ossia li hanno accollati ai contribuenti, a loro insaputa. A quel punto, non rimane alle Banche Centrali che l’opzione chiamata «Quantitative Easing». Si tratta di stampare moneta. Anzi no, dicono i banchieri centrali, perché la moneta che oggi stampiamo (tipo il trilione di euro all’1% regalato da Draghi alle banche), lo ritireremo e asciugheremo appena l’economia comincerà a riprendersi. Secondo Morgan, la pretesa della Fed, Bank of England e BCE di poter invertire a volontà il quantitive easing, è puro illusionismo. Quando (non se) nascerà il dubbio su questa magica possibilità, saremo travolti dall’iper-inflazione e collasso monetario finale. Spero abbiate qualche moneta d’oro da parte, per quei giorni... Tutta questa rovina ce la siamo procurati – riconosce Morgan – con la nostra ideologia. Siamo noi che abbiamo creato la globalizzazione, cedendo interi settori economici a Paesi emergenti, perché sedotti dalla teoria del «vantaggio competitivo» di Ricardo e Adam Smith, convinti di tener per noi i settori dei servizi avanzati più profittevoli; siamo noi che continuiamo a svenarci per tener fede al libero commercio, mentre altri Paesi emergenti giocano secondo altre regole, proteggendo i loro mercati e sussidiando le loro merci. Ma siamo noi che abbiamo anche sprecato – immobilizzato – enormi capitali nel settore immobiliare (un investimento che non dà frutto, o poco) sottraendoli ad altri investimenti essenziali per accrescere la nostra produttività, le infrastrutture fisiche, virtuali e culturali (istruzione di alto livello, ricerca scientifica): definitiva conferma che l’idea che «i mercati sanno allocare i capitali» meno della volontà politica, è una mascherata. Si aggiunga il rifiuto della selezione e del merito; il crescere di una cultura dei «diritti» sociali insostenibili; l’incontrollato consumismo eccitato da una industria pubblicitaria che vale 470 miliardi di dollari l’anno, senza alcuna preoccupazione di connettere la propensione al consumo con la produzione. Il costo dell’energia Abbiamo voluto dimenticare che l’economia è, in ultima analisi, un’applicazione dell’energia, dunque è soggetta alle leggi della fisica – contro le quali la creatività finanziaria, derivati, cartolarizzazioni ed altre diavolerie, non possono nulla. In che senso? Morgan lo spiega così: mettete un gallone di benzina nella vostra auto, guidate finché il carburante si esaurisce, e poi pagate un tizio che spinga la macchina al punto di partenza. Sono due modi di usare energia. Ma vediamo il costo: un gallone di benzina dà 36,4 kwh. Un’ora di lavoro umano fisico dà tra 74 a 100 watt; per fornire l’equivalente del gallone di carburante, il tizio che spinge l’auto deve lavorare per 364-492 ore. Mettiamo che il tizio sia pagato 8 dollari all’ora per questa dura fatica: costerà 3.300 dollari, mentre un gallone di benzina costa in Usa (beati loro) $ 3,50. Per diversi millenni la forza è stata fornita da uomini e animali: dunque dall’energia della loro alimentazione. Un miglioramento epocale è avvenuto 9mila anni fa, con l’invenzione dell’agricoltura e la produzione sovrabbondante di granaglie molto energetiche: cosa che ha potuto sottrarre un certo numero di produttori al compito di coltivare, per utilizzarli nella produzione di beni capitali anziché di beni di consumo: dai mulini alle strade, dagli oggetti da guerra e di lusso. Ma per millenni il surplus energetico da agricoltura è stato estremamente modesto. La rivoluzione energetica, e dunque la nascita dell’economia moderna, è dovuta alla macchina a vapore e ai motori termici che hanno permesso di sfruttare l’energia fossile: producendo un aumento esponenziale del flusso di energia nella società umana, dunque un aumento della popolazione (rimasta stagnante fino al 1600). Sono cambiamenti recenti, di soli 3 secoli fa. In tutti i secoli precedenti fino al 1750, il consumo di energia era non-commerciabile, quindi non misurabile. Dal 1750, con le macchine a vapore, il consumo energetico (allora da carbone) ammontava all’incirca a 3 milioni di tonnellate di petrolio-equivalente (3 mmtoe). Un secolo dopo, era salita a 52 mmtoe. Ma solo dopo il 18500 il petrolio divenne una componente misurabile dell’energia; nel 1870, era già salita a 142 mmtoe. Nel 1920 si alzò 1000 mmtoe, negli anni ’50 salì a 2000 mmtoe. Bel 2008 ha superato i 10 mila mmtoe. Come si intravvede, è un aumento esponenziale, dove la curva salita lentamente nei secoli, di botto si verticalizza e tende a raggiungere l’infinito. Parallelamente, la crescita del flusso energetico nella società umana ha aumentato esponenzialmente la popolazione. Fatto che aumenta ancora il consumo energetico. E la moneta, in tutto questo? La moneta ha una funzione ausiliaria, non primaria: sono dei «gettoni» inventati per gettonare l’economia, renderla misurabile e comprarla: quando paghiamo una merce o un servizio, compriamo con gettoni accettati e riconosciuti il lavoro di qualcuno o di molti, di braccianti per arare il campo, di badanti per la nonna, in ultima analisi compriamo energia. Ossia, nel mondo moderno, da ultimo, energia petrolifera (e in minor misura da carbone, nucleare eccetera). La finanza ha dimenticato il suo ruolo di ausiliaria, ha imposto la sua ideologia del profitto monetario, e ha creato montagne su montagne di debiti. Ma che cos’è un debito? È una pretesa su denaro futuro. E siccome il denaro è un «gettone» per ottenere energia, il debito è un diritto di pretendere energia. La «sostenibilità» della finanza folle, dunque, si riduce a questa domanda: ci sarà nel pianeta abbastanza energia (greggio o altro) da coprire questa immane pretesa, rappresentata dalla crescita esponenziale dei debiti, che tutti ci siamo impegnati a pagare (o che i Governi hanno impegnato noi contribuenti a pagare?). C’è abbastanza petrolio sul pianeta? Troveremo altre fonti di energia? Si discute molto se sia già avvenuto il «picco petrolifero», o se mai avverrà. Tim Morgan supera d’un balzo questa discussione, con questo argomento: non c’è dubbio che estrarre materie prime energetiche diventa sempre più difficile, dunque più costoso in termini energetici. Quanti litri di petrolio ci costa estrarre un litro di greggio? O un metro cubo di gas? Questa equazione si chiama EROEI (Energy Return on Energy Invested). Se lo EROEI è 50:1, che significa che per estrarre 50 unità (litri, metri cubi..) di sostanza energetica ne dobbiamo usare, ossia consumare, 1. Ora, tutto dice che questo rapporto sta peggiorando: scisti bituminosi, estrazioni al Circolo Polare. energia «alternative» di basso rendimento, eccetera aumentano i costi, e dunque l’investimento energetico necessario per estrarre una unità di energia. Ora, anche questo rapporto ha una tendenza esponenziale: solo, al contrario. Mentre la domanda di energia sale esponenzialmente, il rendimento nel produrla cala, altrettanto esponenzialmente, Ovviamente, non c’è alcun senso nel consumare 100 unità per estrarre 100 unità. Ma il processo diventa «insostenibile» già molto prima. Nel 1990, lo EROEI era 40:1; nel 2010 è sceso a 20:1, ossia consumando una sola unità si ottenevano 40 unità di energetico, ed oggi 20. Già la produzione di energia dalle pale eoliche, nei casi migliori (Mare del Nord), ha un EROEI di 17:1 (con una unità consumata se ne ottengono 17). Diversi esperti dicono che è vicino, fra un altro decennio, lo EROEI 5:1, ossia che occorrerà consumare una unità per ottenerne solo 5. Il che significa: il prezzo dell’energia assorbirà quasi il 17% del Pil da solo, con un rincaro dei costi energetici del 250%. Il che significa che siamo tutti fritti. L’EROEI è la «killer equation», l’equazione assassina di tutte le pretese dell’economia finanziaria. In breve: comunque la mettiamo, i giganteschi debiti prodotti dalla finanza sono pretese su quantità di energia che non ci sono, né ci saranno mai. Primo corollario: i debiti impossibili non vanno pagati. È inutile farsi imporre austerità dai creditori, visto che già la fisica (l’economia) ce li imporrà. La cosa da fare subito è: ripudiare debiti, sgonfiare i finanzieri, e cominciare a vivere nel mondo della frugalità estrema che ci attende.
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