Le nostre elezioni sono più libere che in Russia?
06 Marzo 2008
Si pone la domanda Justin Raimondo, famoso blogger-giornalista (1).
Si sa, viene indicata come strisciante tendenza al totalitarismo il fatto che Putin resti al potere, ora da primo ministro, mentre il suo successore alla presidenza, Medvedev, riceverà ordini da Putin.
Ma è poi davvero diverso in America, dove si sospetta che Bill Clinton farà da suggeritore ad Hillary, se questa vincerà le elezioni?
Almeno in Russia manca l’elemento dinastico, diventato tipico della «democrazia» americana: Putin almeno non ha dato la presidenza a suo figlio, come Bush senior ha comprato la presidenza a Bush junior.
Praticamente, la terra delle libertà è piena di famiglie reali: «i» Bush, «i» Clinton, «i» Kennedy...
Gli elettori russi non avevano una vera scelta tra partiti, dicono gli accusatori di Putin.
I comitati elettorali hanno rifiutato di registrare certi candidati invisi al Cremlino.
D’accordo, ma in USA nessuno da decenni riesce mai a fondare un terzo partito, e con questo arrivare a sottoporsi al giudizio delle urne.
Se le TV di Mosca non danno notizie sul candidato Kasparov, le libere TV americane non fanno menzione di Ron Paul, e dei suoi primi buoni piazzamenti alle primarie: Ron Paul è una non-persona.
Nonostante tutte le restrizioni alle candidature nel regime putiniano, i russi hanno avuto più scelta degli americani.
Il che vale anche per noi italiani, se ci si pensa.
Possiamo scegliere fra due partiti quasi identici fin nel nome (PD e PDL) con programmi quasi uguali.
Nemmeno possiamo esercitare le preferenze: andranno in Parlamento i primi nomi che appaiono nelle liste, lo vogliate o no.
E l’ordine dei nomi nelle liste l’hanno deciso Veltrusconi e Beltroni.
Sono loro che decidono per chi dovete votare.
Impagabile la critica che gli «osservatori» europei hanno diretto alle elezioni russe: i media sono «pregiudizialmente» orientati, hanno detto.
Manca la libertà di stampa.
E in USA?
Mica erano giornalisti russi quei famosi anchormen che aprivano i TG, ai tempi dell’invasione dell’Iraq, esibendo all’occhiello il distintivo patriottico a stelle e strisce.
Mica è russa Judith Miller, famosa giornalista del New York Times, che sul New York Times, il più grosso e indipendente dei giornali americani, raccontò come Saddam, avesse le armi di distruzione di massa, panzana fedelmente ripetuta da tutti quanti i media americani ed europei; poi si è scoperto che la Miller (ebrea) prendeva l’imbeccata su quel che doveva scrivere direttamente da Cheney e da Bush.
I media «indipendenti» occidentali demonizzano chi contesta la versione ufficiale sull’11 settembre, lo definiscono «negazionista e antisemita» (chissà perché), gli negano la parola.
I media occidentali hanno incolpato senza prove Putin di essere il mandante di assassinii vari (la Politkovskaya, uccisa in realtà da gangster ceceni) e l’ex-spia Litvinenko; ancora due giorni fa m’è capitato personalmente di sentire un giornalista italiota accusare Putin della strage nella scuola di Beslan, perpetrata da terroristi ceceni al soldo dell’oligarca Berezovski.
E ovviamente, se l’Ucraina, per una contestazione sul prezzo con Gazprom, minaccia di far mancare all’Europa il gas proveniente dalla Russia, la colpa è di Putin - anche se l’Ucraina ha un obbligo contrattuale a far passare il gas, essendo pagata per questo con ricche royalty.
Insomma, Putin è aggressivo.
Ma allora come definire il presidente Bush, che ha decretato l’invasione di Afghanistan ed Iraq, occupati da sei e quattro anni da truppe USA, che manda a bombardare villaggi in Somalia (in Somalia!), che vuole installare missili a ridosso della Russia in Polonia, i cui commandos si preparano a fare incursioni in Pakistan per impadronirsi delle testate nucleari di quel Paese, le cui flotte belliche assediano minacciosamente le coste iraniane, e il cui massimo alleato (la sola democrazia del Medio Oriente) ha aggredito tre nazioni negli ultimi tre anni, Libano nel 2006, Siria nel 2007, Gaza nel 2008.
Bisogna riconoscere che c’è un certo disordine nel nuovo ordine mondiale: Israele bombarda le famiglie a Gaza dopo averle affamate, la Turchia compie incursioni in profondità in Iraq, la Colombia compie incursioni armate in Ecuador, sicchè sta per scoppiare una guerra fra la Colombia da una parte e l’Ecuador e il Venezuela dall’altra; tutto il mondo si riarma freneticamente (la Cina ha aumentato decisamente le sue spese militari), la NATO progetta di fornirsi di testate atomiche adatte ad un attacco nucleare preventivo.
Ma se il mondo si riarma non è perché ha paura di Putin; lo fa perché ha paura dell’America e della sua attitudine all’aggressione preventiva e non provocata, e alla sua decisione di «diffondere la democrazia» e «fare la guerra globale al terrorismo».
E’ l’America che ha schedato come sospette di «terrorismo» o simpatie per il terrorismo 700 mila persone, non solo stranieri ma cittadini americani; e a queste persone nega il visto d’entrata, e vieta persino di salire su un aereo di linea.
Non è la Russia ad essersi data un nuovo ministero che si chiama «Dipartimento per la Sicurezza della Terra Patria» (Homeland Security), né che ha legalizzato la tortura per interrogare dei sospetti.
E che dire dell’Europa?
Gli osservatori europei che hanno fatto le pulci alle elezioni russe hanno poi dovuto concludere che i risultati «riflettono la volontà di un elettorato il cui potenziale democratico purtroppo resta inespresso».
Potessimo dire lo stesso noi europei degli osservatori europei: membri di un Parlamento Europeo di cui vi sfido a ricordare i nomi di dieci membri (l’abbiamo votato? Sì, ma sono stati i partiti a decidere chi dei loro doveva «andare in Europa»), un parlamento del resto che ha solo poteri consultivi, mentre il potere di governo appartiene alla Commissione, che mai si sottopone ad elezioni.
E’ un’Europa che evita in tutti i modi di sottoporre a referendum la Costituzione (cosiddetta) europea, per non vedersela bocciare.
Sicchè possiamo dire che anche in Europa «il potenziale democratico dell’elettorato resta purtroppo inespresso», ma - al contrario dei russi - non possiamo dire che «i risultati riflettono la volontà dell’elettorato» medesimo.
O forse avete scelto voi Solana, Frattini, Trichet, perché vi piacciono?
I russi, Putin, se lo sono scelto e lo vogliono tenere dov’è.
Forse perché Putin ha tirato fuori la Russia dall’abisso economico-sociale, ha recuperato dal saccheggio degli «oligarchi» finanziati da Wall Stret e dalla City che s’erano accaparrati le materie prime nazionali, e l’ha liberata dalle ricette liberiste suggerite dalla Scuola di Chicago, che l’avevano portata al collasso («liberalizzazione» costata sei milioni di morti, soprattutto fra i pensionati, e il sorgere di una criminalità ferocissima e ricchissima).
Sotto il non-democratico Putin, la Russia è cresciuta economicamente al ritmo del 7% annuo (8,1% nel 2007), mentre i democratici Stati Uniti stanno crollando in una depressione storica a forza di debiti e fantasie finanziarie, con 2 milioni di famiglie che probabilmente nel 2008 perderanno la casa ipotecata.
La Russia, sotto Putin, ha pagato in anticipo tutti i suoi debiti, ed ora ha riserve per 480 miliardi di dollari (nel 1998 le sue riserve erano zero); ha un attivo di bilancio pari al 6% del PIL (l’Italia ha un passivo di… lasciamo perdere); in Russia, l’imposta sul reddito è del 13% (in Italia del 43%, più IVA 20%) (2).
E non è vero, come ripetono i soliti maestri di democrazia, che la Russia è un’economia basata sul petrolio come l’Arabia Saudita.
La sua industria edilizia cresce del 16% annuo, le vendite al dettaglio del 13%, gli investimenti interni del 20% (Putin sta rinnovando le vecchie cadenti infrastrutture sovietiche).
Il suo settore scientifico-tecnologico è di prim’ordine, deve essere solo messo a profitto nel civile, cosa che prima o poi accadrà.
Vero che ci sono inconvenienti (inflazione, corruzione, poca trasparenza, commistione del politico con l’economico).
Vero anche che lo slancio iniziale per la ripresa Putin l’ha tratto da una decisione di aumentare del 50% la produzione annuale di greggio.
Ma questo è stato un vantaggio anche per noi europei: se avesse bloccato la produzione, rifiutandosi come fa l’OPEC di aumentarla e magari associandosi all’OPEC, oggi il petrolio ci costerebbe 150, non 100 dollari al barile.
L’Italia però ha la democrazia.
Forse per questo era la quarta economia mondiale ai tempi di Craxi, ed è oggi la settima.
Sarà perché ancora 15 anni fa il 70% dell’economia italiana era controllata dallo Stato - o meglio dai partiti, siamo in democrazia - ed ancor oggi le privatizzazioni ci hanno dato aziende come Alitalia, Trenitalia e Telecom, dei monopoli più inefficienti e avidi di prima, più incapaci di fornire servizi, solo coi «manager» pagati il triplo di prima, perché ora questi marpioni messi a quelle poltrone da Prodi sono «dirigenti privati».
L’Italia è una democrazia, e perciò l’intrusione dello Stato è moltiplicata con l’intrusione delle Regioni, delle Province, dei Comuni e dei consigli di zona; le università sono moltiplicate in relazione diretta con l’ignoranza generale; la produttività è diminuita, la precarietà aumentata, e per trovare lavoro non ci si rivolge al libero mercato, ma alle raccomandazioni e alle tessere di partito, a Mastella e a De Mita o a Formigoni.
Pensate se al posto di Prodi ci fosse Putin: che rischio per la monnezza di Napoli!
Invece, la democrazia italiana è orgogliosa di poter dire al mondo che la sua terza città è sepolta nella sua stessa spazzature da sei mesi, senza soluzione in vista, grazie al fatto che nessuno esercita l’autoritarismo per costringere a lavorare i 20 mila spazzini-camorristi napoletani, o a costruire gli inceneritori contro la volontà dei numerosi verdi pro-monnezza.
Una splendida democrazia.
Che l’ISN di Zurigo (International Relations and Security Network) ha descritto ai suoi lettori così: «Le agenzie di rating hanno abbassato il debito pubblico a due punti al disopra dei junk-bond; i livelli di disoccupazione nel sud del Paese sono i più alti dell’Europa occidentale; le statistiche pubbliche sono notoriamente inaffidabili; le speranze dei cittadini nel governo sono al livello più basso della storia; la criminalità organizzata controlla vaste zone del territorio nazionale; il sistema giudiziario è privo di autorità; e le prospettive economiche sono di declino» (3).
E ancora: «In politica come in economia compaiono e ricompaiono le stesse facce e le stesse idee che sono in giro da anni».
«In aprile gli italiani andranno al voto con poca possibilità di eleggere un governo che duri per tutto il mandato».
«Non è un segreto che l’Italia ha da anni bisogno di un ampio ventaglio di cambiamenti strutturali, ma che non ha mai avuto un governo con la stabilità e il mandato per imporre questi cambiamenti».
«I problemi economici sono tutti assolutamente dovuti alla politica» (la Casta).
«L’Italia è da troppo anni una nazione ingovernabile come poche altre nel mondo».
L’Italia, prevede l’ISN, è sulla via di diventare un «failed state», uno Stato fallito.
Uno Stato fallito è «uno Stato in cui il governo centrale è troppo incapace (ineffective)
per esercitare il controllo pratico sul suo territorio».
La lista dei failed states ne comprende 32, con in testa «Sudan, Iraq e Somalia».
Ma noi, con le tasse più esose d’Europa, la legislazione più punitiva per gli onesti e più accomodante per i delinquenti, i servizi peggiori, il settore pubblico più pletorico e più pagato del mondo: uno Stato fallito pieno di «ricchi di Stato».
E’ il trionfo della democrazia secessionista permanente.
Mica siamo come i russi, che si tengono l’autoritario, il non-democratico Putin.
1) Justin Raimondo, «Was the russian election any less free than our own?», Antiwar.com, 5 marzo 2008.
2) Liam Halligan, «Russia is emerging as a global economic giant», Telegraph, 2 marzo 2008.
3) Eric J. Lyman, «Italy on the precipice», ISN Security Watch, 5 marzo 2008.
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