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Perché Papa Ratzinger-Benedetto XVI dovrebbe ritirare le sue dimissioni
Enrico Maria Radaelli
20 Febbraio 2013
1. LE DIMISSIONI
L’11 febbraio 2013, festa della Santa Vergine di Lourdes, il mondo ha ascoltato impietrito il Comunicato con cui è stato annunciato che Papa Joseph Ratzinger-Benedetto XVI ha dato le dimissioni, con effetto il giorno 28 dello stesso mese, dal suo altissimo Trono di Vicario di Cristo, di Sommo Romano Pontefice, di Vescovo di Roma e del mondo.
Le motivazioni adombrerebbero un sentimento di riconoscimento razionale e ponderato di insufficienza della persona, ormai molto avanti negli anni, impossibilitata ad affrontare i doveri cui è chiamato un Pontefice “del giorno d'oggi”, ossia davanti al carico immenso, sempre più oneroso, oramai davvero soverchiante, dell’altissimo ufficio.
Quel che qui si vuole esprimere potrebbe contrastare in qualche misura o anche totalmente il punto di vista di persone religiose di diversa sensibilità da quella di chi scrive, ma mi si permetta di esporre il mio convincimento prendendolo quale vuol essere e non come forse nella foga del discorso potrebbe apparire: una del tutto possibile congettura, un’ipotesi di lavoro; certo: ragionevolmente convinta, adeguatamente argomentata – si crede – logicamente e scritturalmente, che non vuole avere alcuno scatto di perentorietà, se non quello di sollecitare il tempo a fermarsi almeno qualche attimo, così da avere per un giorno, quasi, il sole fermo, e così non permettere ciò che, nella prospettiva qui da me aperta – l’irreparabile, appunto – davvero avvenga. In un lunedì di ordinario concistoro, divenuto improvvisamente fatidico, la cattolicità resta frastornata, inebetita da un annuncio inatteso, da una sonorità di tuono che quasi la pietrifica: “Il Papa si dimette”. La notizia avvolge il mondo in un baleno, e subito lo rinserra come in unica pietra.
2. L’ELEZIONE DI PIETRO. A COSA? ALLA CROCE DI CRISTO
Il Papa si dimette. Si dimette?! Come: “Si dimette”? E la madre di famiglia? e la luna? è caduta anche la luna? perché non si dimette la madre di famiglia? perché non cade la luna? Come fa il Papa a ‘dimettersi’?
Infatti la carica ricoperta da un Papa è carica dove il sacrificio è natura sua indistruttibile e assoluta conditio a priori a ogni altra considerazione: « “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. Gli disse: “Pasci le mie pecorelle”. Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi ami?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. Gli rispose GESÙ: “Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”». (Gv 21, 15-8).
La croce è lo status di ogni cristiano: Cristo, crocevia tra Dio e gli uomini, Imago dell’Immagine di Dio per rappresentare dai Cieli Dio agli uomini e dalla terra gli uomini a Dio; è il modello esemplare a ogni suo seguace. Non c’è seguace di Cristo, non c’è “cristiano” cui la croce possa essere alleggerita, né tantomeno tolta: a san Paolo, esemplarmente, che per ben tre volte supplicò il Signore di sollevarlo dai tormenti, Cristo rispose: « Ti basta la mia grazia. La mia potenza infatti si manifesta pienamente nella [tua] debolezza » (2 Cor 12, 9). E se si sale al Monte degli Ulivi, si sentirà ancora l’eco delle decise, coraggiose parole di obbedienza e sottomissione del divino Agonizzante: « Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà » (Mt 26, 42).
Conseguenze: ribellarsi al proprio status, rigettare una grazia ricevuta, parrebbe per un cristiano, da san Paolo in giù – per non dire da Cristo in giù –, colpa (grave) contro la virtù della speranza, contro la grazia e contro il valore soprannaturale dell’accettazione della propria condizione umana, tanto più grave se la condizione ricopre ruoli in sacris, come è la condizione, di tutte la più eminente, di Papa.
Non mi avvalgo delle centinaia di Pontefici che accettarono fino allo stremo il durissimo incarico: a decine li troviamo, nei secoli più terrificanti e bui della storia, eletti al Sacro Soglio magari già vecchi di anni oltre ogni dire – e spesso, maliziosamente, eletti proprio in quanto vecchi e acciaccati oltre ogni dire –, e Papi che ciò accettarono spesso ben sapendo della malizia con cui si approfittava della loro canizie.
Chi non ha letto nei libri di storia dei Papi che gli eletti dopo Papa Gregorio X, furono tutti di breve, di brevissima durata, perché nominati con la machiavellica intenzione che per la loro età o la loro salute o entrambe le cose, sul Sacro Soglio restassero l’espace d’un matin, così da creare una situazione insostenibile e poi prenderla ancor meglio in pugno?
3. LA CROCE DEI PAPI NELLA STORIA
Non mi avvalgo delle centinaia di Papi che eroicamente resistettero davanti ai soprusi più sfacciati, alle angherie più ribalde, ai tormenti più atroci: querce indomite, spesso però dal fisico di fuscelli e di men che fuscelli, macerati poi di sovente anche da lunghi digiuni e da vere penitenze (allora digiuni e penitenze si comandavano e si facevano), la Chiesa offre boschi interi di forti Papi tanto ben radicati nell’amore a Cristo e nella fede che di tale amore è la sostanza più interna e inflessibile: queste robustissime querce, come Pietre son rimaste tutte al loro posto malgrado la violenza dei tormenti soffiasse sopra di esse e tutt’attorno – e certo anche nei loro cuori di carne, ben tremebondi com’erano per ciò che sapevano essi di essere se non avessero anche saputo che era il Signore a comandarli dov’erano –, cercando di spazzarle via come pagliuzze e anche abbruciarle.
Non mi avvalgo poi delle decine e decine di Papi propriamente e materialmente ‘martiri’, sarebbe troppo facile: il loro sangue si è sparso a fiumi per almeno tre secoli sulla rena del primo Cristianesimo davanti a plebi e imperatori che sghignazzando li avrebbero anche volentieri calpestati pur di annientare in loro il loro vero nemico, Cristo GESÙ: essi non si sottrassero al martirio, né al carcere durissimo, né ai lavori forzati, ma tutto assunsero nella loro intrepida ma anche trepidissima carne. « “Simone di Giovanni, mi ami tu?” “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. “Pasci i miei agnelli”. ». Che è a dire: “Simone di Giovanni, vuoi vincolarti a me con il vincolo più forte della morte?” “Sì, Signore, lo voglio”. “Governa ciò che è mio”. Neanche la morte può recidere un vincolo tre volte più forte della morte come è questo vincolo, questo specialissimo vincolo. Non c'è un vincolo tra Cielo e Terra, tra Verità e umanità, più solido e più indistruttibile di questo vincolo.
Dunque non mi avvalgo della storia. Ma è del Cristo che mi avvalgo. La storia nulla è, se non le si riconosce l’intima sua qualità di rivestire, di ricoprire, quasi di nascondere, un’essenza, la quale essenza però, di suo, le sfugge, le è superiore, e la governa: i Papi, molti, moltissimi Papi si sono sacrificati fino a dare la vita, e non solo col sangue; molti, la maggioranza straripante, si sono interamente regalati all’amore totale e totalizzante per il loro Cristo e per il loro gregge, il quale è loro perché è del loro Cristo. La storia dei Papi è stracolma di esempi straordinari di immolazione sull’altare della fede e dell’amore per il loro GESÙ. L’essenza rivestita dalla storia, immobile e sovrastorica, è l’amore divino che l’ha generata, che da Dio fluisce ma pure che a Dio ritorna attraverso l’immolazione dei suoi adoratori e seguaci.
Molti, non tutti, dicevo, sono i Papi ‘donatori di sé’: molti, e non tutti, perché la storia, schiava del diavolo, mille volte cerca di sottrarsi all’amore potente ma delicato di Cristo, e viene strattonata con le unghie e con i denti dal vile menzognero, malgrado l’amore del Cristo sia mille volte più ragionevole e diecimila volte più persuasivo delle insignificanti suggestioni del feroce e astutissimo suo imitatore.
4. PIETRO E IL PRIMO TENTATIVO DI DIMISSIONI DALLA CROCE
Sull'Appia antica, all’incirca all’incrocio con la via Ardeatina, ai tempi della prima persecuzione di Nerone, gli Atti di Pietro, pur apocrifi, narrano comunque di un Pietro fuggiasco, che, impaurito, terrorizzato dalla ferocia neroniana scatenata come fuoco contro la nuova setta dei Cristiani, temendo di presto perdere la vita, corre sulla strada che porta a Brindisi, per poi lì imbarcarsi verso Israele, verso Ierusalem, ma si imbatte in GESÙ, che cammina in direzione contraria, verso l’Urbe: « Quo vadis, Domine? », « Dove vai, Signore? », stu-pefatto gli dice. E GESÙ: « Vado a morire al posto tuo, Simone ». Notare: “Simone”, non “Pietro”. Il fuggiasco non è più degno di portare il nome caricatogli dal Cristo, Cefa, Pietra, Roccia, ‘L’Infallibile certezza di altissima Verità’. Il pavido egoista e molto umano Simone, che certo avrebbe ricevuto la più totale comprensione dai de Bortoli, dai Galli della Loggia, dai Magris, dai Mancuso, dai Mauro, dai Melloni, dagli Scalfari, dai liberali insomma di tutto il mondo dentro e fuori la Chiesa, quasi il suo sia « per il bene della Chiesa » un gesto di grande libertà e di ardente coraggio, « un gesto profetico », come sussiegosamente esclamano persino i laicisti più spinti, si trova nudo nel suo antico nome di pescatore da nulla, Simone: un uomo slegato dalla Croce. Ma qui ci si chiede se quell’uomo non si sia slegato, in qualche modo, anche dalla Provvidenza dei Cieli. Ecco cosa succede quando un Papa (ma anche un vescovo qualsiasi, anche un chierico tra i tanti, dirò di più: persino l’ultimo dei fedeli) fugge dal luogo dove l’ha spinto Cristo a penare, a soffrire, forse a morire: succede che Cristo va a penare, a soffrire, forse anche a morire, sì, al posto suo. Il fatto è che quella sofferenza qualcuno la deve fare, e la deve fare perché la deve offrire, perché il male non può andare perduto: il male, ogni singolo male, va redento, va riscattato, ossia non solo va raccolto e tramutato nel bene originale che era, ma, con l’avvento di Cristo, va fatto salire alla pienezza del bene divino e di bene divino va riempito. Cristo ha portato la croce nel mondo per togliere, « inchiodandolo alla croce » (Col 2, 14), il male dal mondo, come dice il Salmo: « Gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra di me » (Sal 69, 10): il male, immane insulto dei demoni e dell’Inferno alla meraviglia dell’opera della creazione compiuta da Dio Padre, è ricaduto tutto sulla croce del Figlio, tutto, così che essa ha raccolto tutto il male del mondo e lo ha inchiodato a sé. Tutti i fedeli di Cristo si lasciano compenetrare dal desiderio d’amore di dedizione di partecipare in crocifiggente pienezza al suo Sacrificio anche solo con la propria semplice vita quotidiana da nulla, con atti banali quali salire sui mezzi pubblici stracolmi, affrontare il freddo e il gelo per fare anche qualcosa di più del proprio dovere, non rispondere a un ingiusto rimprovero, preparare la tavola con amore anche quando a fine giornata si è prostrati dalla fatica, pronti sempre a salire nell’immolazione in atti sempre più eroici – pubblici o silenti che siano – sempre nella più generosa offerta di sé, nell’obbedienza anche estrema alle leggi di Dio e a ogni suo volere, inchiodandosi in ogni modo comunque alla croce con lui e così, trafitti dai medesimi chiodi dal demoniaco insulto, in ogni attimo invece vincerlo. Qui non ci si sta interrogando su quali possano essere le ragioni di un ripiegamento, perché, o si sta alle ragioni addotte – « sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino » –, o si possono aprire le porte alle illazioni più fantasiose, ma lasciando nell’angolo il punto fondamentale: se le dimissioni costituiscano o non costituiscano un bene per la Chiesa, cioè se siano moralmente un lacerante vulnus o invece l’unica strada da prendere per il prosieguo del suo cammino di evangelizzatrice e santificatrice del mondo.
5. SE LE DIMISSIONI DEL PAPA SIANO CONVENIENTI AL MOMENTO STORICO CHE STA ATTRAVERSANDO LA CHIESA
Davanti alla Chiesa si sono assiepati in questi ultimi cinquant’anni conflitti teologici sempre più gravi, le eresie più antiche e pericolose si sono ridestate come serpi alzando il capo davanti e fin dentro le chiese di tutto il mondo senza che alcun Pastore le riconoscesse, le additasse, le fulminasse; la sconcezza della libertà di Rito si è sparsa per gli altari dell’orbe cattolico schiacciando al muro l’unico Rito che avrebbe avuto e difatti aveva la forza di combattere e vincere il liberalismo e il modernismo dedogmatizzante ora tanto vittorioso; per non dire delle terrificanti, squallide e odiose cancrene in cui sono stati e sono tutt’ora coinvolti a centinaia i suoi Pastori, e, di questi, proprio quelli che più dovrebbero mostrare integrità celestiale per il loro contatto con la purezza infantile; premono infine da ogni dove, ossia persino dalle voci inaspettate di cardinali ad alta visibilità e ad ancor più alto progressismo come il defunto Carlo Maria Martini, e in generale oramai direi da pressoché tutta l’universalità cattolica, che, avendo subìto negli ultimi cinquant’anni una forte accelerazione alla propria già latente protestantizzazione dal Rito dedogmatizzato del Novus Ordo Missæ, ora non chiede che di uniformarsi, nei costumi, alle dottrine naturalistiche assorbite, premono, dicevo, le richieste per equiparare i costumi cattolici a valenza soprannaturale a quelli laicisti a valenza naturalistica, e quest’ultimo è forse, di tutti, l’elemento più vistoso, e magari anche lo scatenante. La marcatura naturalistica è oramai nella Chiesa spiccatissima (vedi Comunione e Liberazione), il sentire semiprotestantico prepotente (vedi Bose, Taizé, Sant'Egidio, Neocatecumenali e Focolarini), e quelle pur larghe sacche cattoliche integre che ancora volentieri sarebbero anche disposte a rigettare l’una e l’altro, sono intimidite, intimorite oltre ogni dire dalla voce grossa e boriosa dei potentissimi laicisti e liberisti, i quali, esterni e interni alla Chiesa, dettano legge, nel senso che, appropriatisi da decenni dei registri accademici e dei tabulati degli organici di filosofia, scienza, cultura, pedagogia, di tutte le arti e della comunicazione, impongono come vere e come naturali quelle leggi velleitarie e innaturali che da se stessi si sono a propria misura procacciate. Da qui le richieste di rivoluzionare finalmente i costumi concedendo per esempio la comunione alle coppie divorziate e ai risposati, il matrimonio alle persone dello stesso sesso, il diritto alle medesime, una volta “sposate”, di adottare bambini, per non parlare delle pretese che si hanno nel vastissimo e delicatissimo campo del diritto alla vita, pressato dalla nascita alla morte da richieste germinate non da altro che dal più sfrenato naturalismo. Ma perché non chiamarlo con il suo nome? Esso nient’altro è se non sfrenato, puro e semplice egoismo. Tutte queste varie maree che sui due piani – teoretico sopra, pratico sotto – sono da tempo straripate nella Chiesa dopo il Vaticano II, che ha aperto le porte della doppia esondazione allorché trapassò il linguaggio della Chiesa, da naturaliter dogmatico qual era, a simpliciter pastorale, che poi neanche pastorale è, come dimostro ne Il domani – terribile o radioso? – del dogma appena pubblicato, in tal modo polverizzando l’unica e sola diga veritativa che avrebbe potuto e dovuto tenere la Chiesa a propria difesa dal demonio e dal mondo, e, in sé, l’uomo, e intorno a sé la civiltà, la storia, l’avvenire tutto, per tutti tenere e tutti portare nella realtà.
Quindi si deve capire bene, a mio avviso, che non è certo questo il momento in cui – se per ipotesi la cosa si potesse realizzare, ma ora si vedrà che no: non si può – si possano dare le dimissioni da Vicario di Cristo: la Chiesa è sotto schiaffo ora più che mai, e il timoniere, con gli argomenti portati, a mio avviso deve stare ben saldo, malgrado tutto, al suo posto di timoniere. A Dio il sommo timone: Egli sa commisurare le nostre forze alle altrui, e ciò sufficit.
6. LE DIMISSIONI DI BENEDETTO XVI, IL CONCILIO VATICANO II E IL CONCETTO DI AUTORITÀ
Le dimissioni di Benedetto XVI vanno inquadrate in questo scenario ipodogmatico, a basso profilo veritativo, in questa che Amerio chiamava « desistenza dell’autorità », dove dominano i gesti e i linguaggi artificiali, i gesti e i linguaggi di legno, finti, irreali, portati dal mondo nella Chiesa in occasione dell’assise di cinquant’anni fa, che siano quelli del linguaggio magisteriale piuttosto che quelli della liturgia, quelli delle nuove comunicazioni con cui ancora il magistero si inerpica con una certa dose di sprovvedutezza, tipo Biennale di Venezia o twitter, alla ricerca della società, o quelli di irrevocabili decisioni del supremo Pastore: magistero pastorale post Vaticano II, Novus Ordo Missæ e dimissioni papali sono tre eventi epocali, grandiosi, abnormi, protratti per decenni nel tempo o ratti come fulmine che siano non ha alcuna influenza né importanza: restano comunque artificiali, restano avvenimenti disgiunti, sconnessi, avulsi dalla realtà.
Il motivo per cui sono “di legno”, come ho detto, i linguaggi di magistero e liturgia post Vaticano II, lo spiego esaurientemente nel mio appena citato Il domani del dogma; quello invece per cui lo sono le attuali dimissioni papali lo argomenterò ora: va considerato infatti che il canone 332.2 del Codice di Diritto Canonico, di recessione dal triplo mandato che le consentono (recessione dal munus docendi, dal munus regendi e dal munus sanctificandi), non a caso voluto da quel Papa autodimissionato che Dante inchioda nella vigliaccheria (Inf., III, 60), Pietro da Morrone-Celestino V, usa assolutamente del potere che gli è conferito di monarca sommo e assoluto, ma è un canone che mette in contraddizione il papato con se stesso, e ciò, a mio avviso, non è possibile.
7. IL CONCETTO DI “POTERE ASSOLUTO DEL PAPA”
Infatti, nemmeno Dio usa assolutamente del suo potere assoluto, né lo potrebbe, ma solo relativamente, come ben spiega san Tommaso, che in primo luogo ricorda: « Nulla si oppone alla ragione di ente, se non il non-ente » e spiega: « Dunque, alla ragione di possibile assoluto, oggetto dell’onnipotenza divina, ripugna solo quello che implica in sé simultaneamente l’essere e il non-essere. Ciò, infatti, è fuori del dominio della divina onnipotenza, non per difetto della potenza di Dio, ma perché non ha la natura di cosa fattibile o possibile. Così, resta che tutto ciò che non implica contraddizione, è contenuto tra quei possibili rispetto ai quali Dio si dice onnipotente » (S. Th., I, 25, 3).
Solo la nozione di Dio che hanno gli Islamici è una nozione assolutista, perché per essa Dio è onnipotente nel senso che può persino – per tale sua illimitata potenza – volere di non essere Dio. Ma san Tommaso mostra che Dio, Essere tutto in atto, non può volere ciò che ripugna all’essere: lui, l’Essere, non può volere di non essere (e neanche lo può pensare). Solo un Papa, si dice, può avere il potere di dimettersi, ma io dico che tale potere non l’ha neanche il Papa, perché sarebbe l’esercizio di un potere assoluto che contrasta con l’essere di se stesso medesimo, di non essere quel che si è. Ora, imporre a se stesso di non essere se stesso è impossibile, come si è visto essere impossibile persino a Dio, perché, come a Dio, ciò implica la contraddizione dell’essere. Un occhio non può dire a se stesso di accecarsi, né un piede di rattrappirsi. Essi ricevono da altri la vista e il moto, e da altri ne riceveranno l’annichilimento. Certo, altri sono i datori di vista e moto e altri i loro distruttori, come nel caso di un Papa i datori del suo essere sono i cardinali elettori e il suo rapitore è invece Dio, ma, come si vede, i soggetti: occhio, piede o Papa che siano, per quanto perfetti in ciascuna delle specifiche loro forme di occhio, di piede e di Pontefice Massimo, sono del tutto impotenti in quanto a ricevere o viceversa veder da sé sottratta la loro propria vita e sussistenza. Cosa vuol dire infatti “essere Papa”? Ecco cosa vuol dire: come il sacerdote riceve uno status, un marchio – l’ordine del sacerdozio – che rimane in eterno, perché riceve dal vescovo la partecipazione al sacerdozio di Cristo che è sacerdozio eterno, così anche la papalità riceve da Dio un munus spirituale: la vicarietà di Cristo Capo della Chiesa in eterno, che solo Dio può togliere. E Dio la toglie solo con la morte. Ma la toglie solo al corpo che muore, non all’anima che non muore. È solo in questo senso che si dice che Dio fa scendere dalla Croce: perché il corpo ha smesso di soffrire. I poteri che implicano l’eternità possono essere interrotti solo materialiter, non substantialiter, infatti chi è consacrato sacerdote rimane sacerdote in eterno, che egli sia post mortem eletto al Regno dei Cieli o gettato nelle fiamme perenni. Nella Chiesa esiste un solo sacerdozio in Cristo, come sappiamo, ma i gradi di sacerdozio sono due: uno universale, al quale partecipano tutti i battezzati, e uno sacramentale, conferito con l’Ordine. Ma anche questo grado di sacerdozio, metafisicamente parlando, si distingue in due gradi: uno è quello di tutti i chierici, l’altro è quello, ad personam, conferito unicamente al Vicario di Cristo, al Papa, in virtù della sua vicarietà: egli solo è rappresentante di Cristo in terra. Il Papa riceve da Dio ad personam un vincolo mistico tra sé e il Corpo mistico della Chiesa, vincolo che lo lega ad essa con un legame divino unico, che non ha assolutamente nessun altro membro della Chiesa, come ad essa con il suo amore divino – e dunque legame divino – è legato il Cristo.
Questo vincolo, tre volte stretto all’essere dal laccio perentorio della risposta « Signore, tu lo sai che ti amo » alla perentoria domanda di Cristo: « Simone di Giovanni, mi ami tu? », è un vincolo che solo la morte può togliere. Ma, ripeto, è, questa, un’interruzione unicamente materiale: l’amore proclamato e dunque affermato come ‘fatto dato nell’essere’, nell’essere rimane, e vi rimane in eterno. È il carisma di Pietro.
8. LE DIMISSIONI DI UN PAPA DAVANTI ALLA LEGGE CANONICA E DAVANTI ALLA LEGGE METAFISICA DELL’ESSERE
Le dimissioni sono permesse legalmente, il canone congetturato dalla persona stessa che aveva maturato la volontà di dimettersi ne configura le modalità. Ma l’istituto delle dimissioni non è stato mai indagato nella sua conformazione metafisica, e tutti hanno sempre ritenuto che esse potessero discendere dal potere assoluto del monarca, che può tutto, senza distinguere – come invece fa san Tommaso – tra potenza assoluta in sé e potenza assoluta relativamente alla ragione di ente, ossia al principio di non-contraddizione.
Le dimissioni non sono permesse metafisicamente, e misticamente, perché nella metafisica sono legate al laccio dell’essere, che non permette che una cosa contemporaneamente sia e non sia, e nella mistica sono legate al laccio del Corpo mistico che è la Chiesa, per il quale la vicarietà assunta con il giuramento dell’elezione pone l’essere dell’eletto su un piano ontologico non accidentalmente ma sostanzialmente diverso da quello lasciato: dal piano già alto del sacerdozio sacramentale di Cristo lo pone sul piano ancora più metafi-sicamente e spiritualmente alto di Vicario di Cristo.
Dunque la legge è sovrastata ancora una volta dalla metafisica, che è a dire che la storia (la legge positiva appartiene alla storia) ancora una volta è sovrastata dalla metafisica, dall’ontologia, che è a dire dalla verità delle cose, dalla legge naturale, in primo luogo dal principio di non-contraddizione, cui deve assolutamente obbedire. Non considerare questi fatti è a mio parere un colpo micidiale al dogma, dimissionarsi è perdere il nome universale di Pietro e regredire nell’essere privato di Simone, ma ciò non può darsi, perché il nome di Pietro, di Cephas, di Roccia, è dato su un piano divino a un uomo che, ricevendolo, non è più solo se stesso, ma “è Chiesa”: « Tu sei Pietro, e su questa Pietra fonderò la mia Chiesa » (Mt 16, 18).
Il dogma rigetta il colpo, e non ne risente, perché l’atto, come solito, non è stato formalizzato dogmaticamente, ma ne risente la Chiesa nel suo ambito umano, che difatti accusa il colpo nella sua confusione estrema, nella prostrazione e nel turbamento massimi subito corsi per tutta la cattolicità.
9. IL CONFLITTO TRA LEGGE CANONICA E LEGGE METAFISICA HA COME CONSEGUENZA LA CREAZIONE DI UN ANTIPAPA
Senza contare che si sta realizzando la probabilità che, lasciando che una legge positiva permanga nell’ordinamento canonico malgrado sia in patente contrasto con una legge metafisica che le è superiore e che dovrebbe governarla, ciò porti a conseguenze ancor più gravi della gravità dell’atto compiuto a mezzo di quella legge: non potendo in realtà dimettersi il Papa autodimessosi, il Papa subentrante, suo malgrado, in realtà, metafisicamente parlando, che vuol dire nella realtà più vera e che di per sé sorpassa ogni legge storica, non sarà che un antipapa. Ma regnante sarà lui, l’antipapa, non il vero Papa, ora dimesso. Siamo tornati ai secoli atri di Guiberto e di Maginulfo, ma ribaltati, e dunque ora, di quelli, questo secolo è anche peggio.
La Chiesa sta correndo verso il naturalismo, e queste dimissioni papali, staccando ancor più la Chiesa reale da quella metafisica da cui dipende, la avvicinano ancor più all’orlo del baratro. Che questo orlo non sia superabile, come dimostro ancora in Il domani – terribile o radioso? – del dogma, non toglie il pericolo, ma lo accentua, perché il mondo e il diavolo, credendoci, inneggiano come già fatta alla vittoria.
10. CONCLUSIONE: RITIRARE LE DIMISSIONI
Si può suggerire a un Papa ciò che il Papa deve fare? In linea di massima non si potrebbe, sarebbe cosa davvero massimamente disdicevole. Ma il momento è di tale gravità, è di tale straordinarietà, è di tale turbamento che si rende necessario osare ciò che in tempo ordinario è proibito, e qui si compie proprio questo atto: si osa mettere sul tappeto davanti al Trono più alto ciò che si considera essere un dato da prendere in seria considerazione, e ciò si osa fare prima che sia troppo tardi, prima che sia compiuto l’ineluttabile: prima che sia compiuto un atto legale, sì, ma metafisicamente “ripugnante”. La considerazione finale è dunque questa, e la porto dopo aver fatto tutte le premesse che ho fatto sul valore assolutamente scientifico e dunque del tutto ipotetico delle mie osservazioni e argomentazioni, e il rispetto sommo da dare alla persona e ancor più alla figura del Sommo Pontefice. Papa Joseph Ratzinger-Benedetto XVI non dovrebbe dimettersi, ma dovrebbe recedere da tale sua suprema decisione riconoscendone il carattere metafisicamente e misticamente inattuabile, e così anche legalmente inconsistente. « Cristo fu tentato per tre volte dal diavolo nel deserto – dice sant’Agostino commentando il Salmo 60 –, ma in Cristo eri tentato anche tu. Perché Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione [la fragilità, la minimanza, l’inettitudine], da sé la tua gloria [sulla sua croce], dunque prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria ».
11. IL VERO ATTO DI CORAGGIO, SCANDALO DEL MONDO, È NON SCENDERE DALLA CROCE A NESSUN COSTO
Con nell'animo queste considerazioni, non le dimissioni, ma il loro ritiro diventa sì un atto di soprannaturale coraggio, e Dio solo sa quanto la Chiesa abbia bisogno di un Papa soprannaturalmente, e non umanamente, coraggioso. Un Papa cui non inneggino i liberali di tutta la terra, ma gli Angeli di tutti i Cieli. Un Papa martire in più, giovane leoncello del Signore, porta più anime al Cielo che cento Papi dimissionati (quanti saranno da oggi in futuro i Papi). Atto dunque dettato da argomenti soprannaturali, riconoscendo che dalla Croce gloriosa non si scende perché comunque non si può scendere, meglio: perché, pur tentati, non c’è la strada per scendere, e la strada che si intravvede esservi non è vera, ma è una strada di nuvole, di niente, e tanto più non può scendere e percorrere quella strada inconsistente la persona del Papa: la propria libertà, in specie se libertà di Papa, è affissata, è inchiodata alla volontà divina, unica, potente e vera Realtà che sulla Croce mistica ha voluto con sé il suo Vicario.
Enrico Maria Radaelli - Milano, 18 febbraio 2013 San Simone, vescovo
Fonte > enricomariaradaelli.it
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