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La progressiva fuga dalla tecnica
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Il recente moltiplicarsi di tragedie sul lavoro ci costringe ad analisi impietose almeno per pietà verso i morti e per i loro parenti. E’ notizia recente che la Confindustria non gradisce l’applicazione di pene troppo severe versola direzione e la proprietà nelle fabbriche. Così come stanno le cose in Italia questo atteggiamento non è ingiustificato.

C’è solo una cosa da ricordare, gli industriali italiani hanno una colpa storica: quella di non aver mai saputo valorizzare la genialità dei loro collaboratori che sono stati più sfruttati che utilizzati, senza alcun rispetto per il valore delle loro idee. Sono innumerevoli i casi in cui i nostri industriali si sono fatti sfuggire lo sfruttamento di innovazioni nate in Italia e cedute per poco senza aver capito il loro potenziale valore.

Solo volendo citare i casi più noti, si può iniziare dai grandi calcolatori della serie Elea della Olivetti. Dopo la morte di Adriano Olivetti, grazie alla cecità di Valletta, che ebbe temporaneamente la gestione della società, il reparto venne svenduto agli americani della General Elctric. Si passa poi ai personal sempre della stessa Olivetti, che furono fatti fallire per una pessima politica aziendale, per arrivare al common rail della Fiat sino alla cessione da parte di Tronchetti Provera di tutto il comparto delle fibre ottiche per telecomunicazioni.

Se i nostri industriali non hanno dato credito alle loro innovazioni che avrebbero potuto fruttare grandi guadagni e la conquista dei mercati mondiali, non si può sperare che nutrano fiducia nella tecnica necessaria per prevenire gli infortuni. E’ questione di costume mentale che ci porta a distruggere ciò che abbiamo creato perché, nonostante l’infinito bla-bla, non riusciamo a comprendere il ruolo dell’innovazione.

Ma a questa nostra incapacità si aggiunge l’atteggiamento negativo ed ostruzionistico di molta parte dei dipendenti pubblici, arrivati ad un atteggiamento di totale sfiducia dopo essere passati ciascuno attraverso la frustrante obbedienza ad una gerarchia di dirigenti incapaci, impiantata dai vari politici, la casta dominante, sempre replicantesi eguale a se stessa ed anzi peggiorando ad ogni cambio generazionale.

Dice Blondet (1): «non c’è spazio per raccontare l’altro scandalo emerso lo stesso giorno: quelli che su posto di lavoro non ci muoiono. I dipendenti pubblici, specie degli enti locali, hanno aumentato il loro tasso di assenteismo… probabilmente non si è lontani dal costo delle assenze pubbliche indicato da Confindustria, 14 e passa miliardi di euro l’anno, 30 mila miliardi di lire, ossia un punto del prodotto interno lordo, o una finanziaria pesantissima». Questo spiega tutto. Anche, direttamente e indirettamente, i troppi incidenti sul lavoro nel settore privato.

Da una analisi anche superficiale delle cause degli incidenti emerge sempre la trascuratezza e l’incompetenza nel risolvere problemi tecnici che si incontrano sul lavoro. Ciò che accomuna la cultura italiana che ruota attorno alla politica, per tutti gli schieramenti è l’ostentata ignoranza delle più elementari conoscenze della Scienza e della Tecnica.

Alcuni anni fa, all’indomani della morte di un nostro comune amico, ci riunimmo per pubblicare qualche cosa delle sue numerose idee. L’amico scomparso era uomo pieno di fantasia creativa, sempre curioso di scoprire il nuovo. Rammentandolo dissi che da molti anni mi «tormentava» per approfondire alcuni aspetti riguardanti i fondamenti della Fisica. Dissi anche che durante gli ultimi anni aveva raggiunto un buon livello di conoscenza della Fisica Quantistica. Tra i presenti c’era un appartenente di spicco alla congregazione degli uomini colti impegnati in politica. Costui non dissimulò il suo imbarazzato stupore e la notizia non lo rallegrò, anzi ne rimase angustiato, come se avessi rivelato una colpa imperdonabile, un oltraggio alla pura cultura politico-umanistica commesso dal defunto.

Questo è il grado di accettazione della Scienza e della Tecnica da parte del nostro pensiero politico. E nulla sembra poter in qualche modo mutare questo insieme di certezze sociologiche che ispirano il comune modo di pensare dei nostri politici ed aspiranti tali. Si ha un bel dire che il mondo cammina sulle gambe della Tecnica, noi preferiamo pensare che invece cammini su quelle della Scienza dell’Economia, ben inteso se rinuncia a servirsi troppo della matematica ed invece si affida ai principi di una qualche nuova Filosofia.

Oppure più terra terra preferiamo credere nella forza inarrestabile delle tangenti, il cui prestigio non venne neppure intaccato dall’ondata di «mani pulite». Quindi, sotto l’incalzare di una serie impressionante di stragi, ovviamente si vara una nuova legge, una delle solite «grida» di manzoniana memoria. Un’altra legge che potrà essere applicata secondo l’estro del magistrato di turno, senza sufficienti basi tecnico-scientifiche essendo la tecnica poco nota ai magistrati i quali poi hanno sempre il libero convincimento per decidere speso sbagliando clamorosamente.

A questo proposito Blondet osserva: «Come se una legge sulla sicurezza potesse ovviare all’ignoranza tecnica dilagante anche fra gli operai, cui nessuno ha insegnato che le esalazioni in una cisterna non sono solo un cattivo odore, ma un veleno…; al costume d’incuria che vediamo in ogni addetto all’edilizia - solo in Italia i muratori non portano l’elmetto perchè fa caldo, anche questo un sottoprodotto della cattiva istruzione, dell’arretratezza generale, dell’inadempienza della scuola pubblica».
 
Si è detto che i giovani migliori con laurea tecnica preferiscono andare all’estero, se non altro per gli stipendi di ingresso, anche del doppio superiori a quelli offerti dalle industrie italiane. Si dovrebbe poi parlare delle nostre Università dove, salvo rarissime eccezioni, vige la regola dell’ingresso attraverso una potente corrente accademica alla quale si accede o per nascita oppure per prolungato umiliante servilismo, molto raramente per reale valore.

I dati forniti dalla UE (figura 1) non indicherebbero per l’Italia un calo sensibile del numero di nuovi tecnici negli ultimi quattro anni (2002-2005).

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Figura 1: Il grafico non è di immediata lettura poiché è riferito al numero di giovani (su 1.000 abitanti) con età compresa tra i 20 ed i 29 anni che nell’Unione Europea hanno conseguito un titolo di studio di carattere tecnico. Ci sono piccoli Stati come l’Irlanda e la Finlandia che hanno una crescita formidabile senza esportare i loro cervelli. L’Inghilterra ha un numero molto elevato di «tecnici» ma è in calo.
(Fonte UE)

 
Che cosa rende difficile reclutare giovani con una buona preparazione tecnica per svolgere compiti di controllo e di indirizzo presso le aziende sui luoghi di lavoro? Semplice: di solito i giovani tecnicamente preparati non si fanno annoverare tra i portaborse dei personaggi che hanno il potere di nominare i tecnici negli enti pubblici deputati al controllo ed alla prevenzione. Il guaio è che i nostri laureati nelle varie specialità di ingegneria aspirano a svolgere compiti «manageriali» che sono gli unici decentemente retribuiti.

La progettazione e la ricerca nelle nostre industrie sono diventati compiti marginali, di solito come addetti a seguire tecniche acquisite dall’estero. Mettere degli ingegneri nel ruolo di controllori non se ne parla neppure. Anche se i compiti sono spesso tecnicamente difficili si vede che le idee correnti, quelle raccontate da Boeri ed Ichino (1), prevedono per la mansione di controllori impiegati amministrativi trasformati in tecnici da un corso apposito. L’orrore della «politica» italiana verso la tecnica è proprio nel fatto che il tecnico ha un potere del tutto indipendente dai mercanteggiamenti politici. Questo quanto meno infastidisce il mediocrissimo responsabile della ASL, per altri aspetti onnipotente.

Una analisi approfondita sui meccanismi per migliorare il servizio di ispezioni è stato fatto da Boeri ed Ichino (2). Tuttavia nel loro lavoro l’idea di trasformare impiegati amministrativi senza alcuna formazione tecnica in ispettori con sufficienti competenze, è ancora sintomo della nostra radicata incapacità di capire la tecnica. Una panoramica sintetica dei dati è fornita dal riferimento (3). Ma l’azione combinata e concorde di questa «politica» italiana ha uno sbocco sicuro e garantito,
il regresso del sistema Italia.

Infatti in tutti i settori si trova un eguale atteggiamento di sfiducia e di incapacità di progettare il nuovo, il futuro. Nelle celebrazioni della falsa rivoluzione del ‘68 si omette di ricordare proprio la demolizione di ogni traccia di meritocrazia, demolizione venuta insieme all’irrisione, a volte giusta, di un autoritarismo ingessato ed ingiustificato. Quando agli inizi degli anni ‘80 ho svolto compiti di dirigenza sindacale (CISL Ricerca) ho potuto constatare come il sindacato in quegli anni avesse un ruolo anche positivo nella formazione di una politica industriale. Si cercava di trovare le ragioni delle alleanze tra i diversi settori produttivi. Infatti si cominciò a parlare di sistema industriale ed economico complessivo della nazione, superando le rivendicazioni dei singoli comparti.

In particolare per la Ricerca tecnologica scoprii l’esistenza di un nesso molto stretto tra il livello tecnologico medio di un sistema industriale e gli stipendi ed i salari percepiti da tecnici ed operai. Il sindacato avrebbe dovuto seguire la linea «operaista» senza disinteressarsi dei problemi dei «colletti bianchi» se si voleva alzare il salario degli operai. Citavo il caso della Turchia che in quegli anni alimentava una forte emigrazione verso la Germania Occidentale. La domanda era: perché un operaio turco che compie lo stesso lavoro di un operaio italiano era pagato dieci volte meno?

Volendo semplificare la risposta è: la retribuzione media del lavoro dipende dal valore aggiunto creato mediamente dal lavoro stesso. Il valore aggiunto (al costo dell’energia e delle materie prime lavorate) dipende dalla tecnologia incorporata nel prodotto e nei processi produttivi. Allora il livello tecnologico medio della produzione dell’industria turca era molto inferiore a quello dell’industria italiana. Oggi la paga mensile minima per un operaio in Turchia è di circa 300 euro. Se si considera che in Turchia il reale costo della vita costituito dai generi di prima necessità è più basso che in Italia, la condizione dell’operaio turco è di poco inferiore a quella dell’operaio in Italia. Il che corrisponde alla forte crescita della tecnologia impiegata nell’industria in Turchia.

Noi al contrario abbiamo progressivamente ridotto l’inserimento di nuova tecnologia e quindi i nostri stipendi sono tra i più bassi d’Europa. Un paese che vuole accrescere la sua capacità industriale investe nell’istruzione tecnica dei giovani, ai quali poi deve assicurare una vita decorosa.  E’ impressionante l’escalation del numero dei giovani che in Turchia negli ultimi anni hanno conseguito un titolo di studio di carattere tecnico (figura 2).

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Figura 2: Numero di giovani in Turchia con età compresa tra i 20 ed i 29 anni che hanno conseguito un titolo di studio in scienza e tecnologia.(riferito 1.000 abitanti). Mancano i dati prima del 2003.
(Fonte UE)

La conclusione è sconfortante.
La fuga dalla tecnica ha come conseguenze non solo stipendi più bassi e meno posti di lavoro qualificati, ma anche un maggior numero di morti. Eppure sembra difficile impegnare i nostri politici su questi temi.


Professor Raffaele Giovanelli




1) Maurizio Blondet «Quelli che sul lavoro non muoiono», EFFEDIEFFE, 4 marzo 2008.
2) www.lavoce.info di Tito Boeri e Pietro Ichino
… è da anni che in Italia c’è un più alto numero di incidenti mortali sul lavoro che negli altri Paesi europei con un livello di reddito pro capite comparabile al nostro.
Le statistiche non sono strettamente comparabili perché in certi Paesi … molte morti bianche vengono fatte passare come incidenti automobilistici.
Ad esempio, è noto che in molti cantieri irregolari, le vittime di incidenti mortali vengono portate
ai bordi di una strada, fingendo che siano state investite da una macchina.
In ogni caso, le statistiche disponibili (fonte Bls, Eurostat e Ilo) dicono che in Italia ci sono ogni anno sei incidenti mortali ogni 100mila lavoratori, sei volte l’incidenza di questi incidenti
nel Regno Unito, quattro volte la Svezia, due volte la Germania.
Il divario negativo esiste da decenni, non è certo un fatto recente.
Semmai, l’incidenza degli infortuni mortali, soprattutto se escludiamo quelli avvenuti a bordo
di un mezzo di trasporto nel corso del lavoro, è fortemente diminuita negli ultimi dieci anni. 
Non tanto perché si sia trovato un modo più efficace per affrontare il problema quanto, perché è diminuita in Italia la quota di lavoratori in agricoltura, edilizia e trasporti: i tre settori in cui si concentra il più alto numero di infortuni.
E l’automatizzazione ha progressivamente assorbito molte operazioni manuali.
Non è un problema di leggi, ma di controlli.
Da più parti è stata invocata negli ultimi giorni la rapida approvazione di una nuova legge contro
gli infortuni sul lavoro.
Ma la legislazione italiana attuale è stata allineata nel corso degli anni ‘90 agli standard comunitari, considerati i migliori su scala mondiale.
Nessuna legge, comunque, potrà mai affrontare in modo efficace il problema delle morti bianche finché le normative di sicurezza continueranno a essere largamente disapplicate, come lo sono oggi in Italia.
Il problema vero è quello dei controlli sull’applicazione delle norme di sicurezza nella vasta area dell’economia sommersa e anche in molte imprese che agiscono alla luce del sole, ma in cui c’è
un insufficiente radicamento della cultura della sicurezza.
I controlli richiedono una presenza più capillare degli ispettori su tutto il territorio.
Per quel che riguarda gli ispettori del lavoro, il loro organico ammonta a circa duemila ispettori, che sono stati negli ultimi anni quasi tutti promossi (quasi il 50% ha oggi l’inquadramento più alto contro il 10% che lo aveva nel 2000).
Il che riduce il numero di quelli che operano quotidianamente…
E sono sotto organico anche i servizi di ispezione anti-infortunistica delle ASL.
Le responsabilità del sindacato
È difficile dare torto al segretario generale della CGIL Guglielmo Epifani quando dice che ogni morte bianca è una sconfitta del sindacato, ma al tempo stesso denuncia che «resta irrisolto
il problema degli ispettori del lavoro» e in particolare della grave insufficienza dei loro organici. Va, però, anche detto che all’insufficienza degli organici degli ispettorati del lavoro e delle ASL hanno contribuito e contribuiscono in modo determinante le rigidità caratteristiche dell’impiego statale.
Quando, dieci anni or sono, in ossequio a una sentenza della Corte di giustizia europea, la legge Treu ha abolito il monopolio statale dei servizi di collocamento, è stata subito rilevata
la sovrabbondanza degli organici addetti ai vecchi uffici di collocamento…
Logica avrebbe voluto che almeno due terzi, se non tre quarti, dei «collocatori» - di fatto inutili
per l’incontro fra domanda e offerta di lavoro - venissero prontamente trasferiti agli ispettorati
delle rispettive città.
Se questo non è avvenuto, lo si deve alla paralisi di quel potere di trasferimento, che la legge attribuisce al management pubblico con una norma identica a quella vigente nel settore privato, ma che nel settore pubblico i sindacati di fatto consentono di esercitare soltanto mediante accordo
con i rappresentanti locali dei lavoratori, cioè soltanto quando i singoli lavoratori accettano
di trasferirsi.
L’operazione di trasferimento dei collocatori agli ispettorati avrebbe potuto essere compiuta senza alcun grave sacrificio per loro, salvo quello di dover frequentare un corso di riqualificazione…
Il sovradimensionamento degli uffici del lavoro meridionali avrebbe consentito un corrispondente maggiore rafforzamento degli ispettorati proprio nelle regioni dove il lavoro nero è più diffuso e dove il tasso di disapplicazione della legge è più alto.
Senonché questa operazione è stata impedita dall’inamovibilità di fatto degli impiegati pubblici, efficacemente presidiata, come sempre, dai sindacati del settore.
Settemila statali addetti agli uffici di collocamento sono stati, sì, trasferiti con il decreto legislativo n. 469/1997: ma solo nominalmente, nel senso che quel decreto ha imposto la sostituzione
sulla porta dei loro uffici della denominazione di «ufficio statale del lavoro» con quella di «ufficio regionale», poiché la funzione del collocamento veniva, appunto, decentrata alle Regioni.
E, a scanso di equivoci, su pressante richiesta dei sindacati del settore, quello stesso decreto
si premurava di precisare che struttura e funzione degli uffici avrebbero dovuto rimanere inalterate.
Quali sono le vere priorità del sindacato?
Ora Epifani e gli altri dirigenti sindacali confederali giustamente chiedono un rafforzamento
degli organici degli ispettorati.
Operazione sacrosanta; e attuabile con costi davvero ridottissimi per l’erario.
A condizione che le confederazioni stesse consentano di fare oggi ciò che i loro sindacati di settore non consentirono di fare dieci anni fa.
Per quel che riguarda gli ispettorati del lavoro, si tratta di trasferirvi d’ufficio, nell’ambito
di ciascuna provincia, dunque senza alcun mutamento di residenza, un congruo numero di impiegati pubblici dagli uffici in cui oggi sono male o per nulla utilizzati, affidando agli ispettori più esperti e qualificati il compito di introdurre questo nuovo personale alle funzioni che esso potrà svolgere
in affiancamento a loro…
In modo analogo… si può operare per rafforzare i servizi di ispezione anti-infortunistica delle ASL.
3) www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/761?theme=print
Andrea Moro «Gli incidenti sul lavoro: un confronto sui dati europei», 10 Dicembre 2007.
Il triste episodio dell’ncendio alle acciaierie Thyssenkrupp di Torino ha riportato alla ribalta polemiche di vecchia data sull’ncidenza delle morti bianche in Italia.
Ovviamente ogni evento di questo tipo è una tragedia umana e sociale, e doverosa è la ricerca
delle responsabilità specifiche. Siccome però il dibattito facilmente si sposta dalle responsabilità individuali a quelle di un intero sistema economico, politico e/o sociale, vale la pena andarsi
a vedere i dati: quanto grave è il fenomeno, rapportandolo alla situazione di altri Paesi?
Ancora una volta, i database di Eurostat ci vengono in aiuto.
Il grafico confronta il numero di incidenti fatali sul lavoro per centomila occupati.
La linea continua mostra la media europea.
La tendenza generale sembra essere quella di una sostanziale diminuzione rispetto ai livelli
dello scorso decennio, anche per l’Italia, che però si attesta su livelli abbastanza superiori a quelli degli altri Paesi europei.
Il dato del 2004, ultimo anno disponibile, corrisponde a 994 morti, un numero di gran lunga inferiore ai 1.325 del 1994, considerando anche il fatto che l’occupazione è aumentata di circa
il 10%.

grafico_3.jpg

La posizione della media europea, inferiore al dato dei maggiori europei, è dovuta al fatto che gli altri Paesi, pur pesando meno, hanno un tasso di infortuni sul lavoro di gran lunga inferiore.
Per esempio, considerando il dato del solo 2004, la Grecia, Svezia, ed Irlanda hanno avuto rispettivamente 1,42, 1,13, e 0,82 incidenti per ogni cento occupati, dati che riflettono probabilmente anche la diversa incidenza dei diversi settori di produzione nel totale dell’occupazione: è difficile per esempio farsi male fabbricando cellulari.


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