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Il Vaticano fra le jene
Maurizio Blondet
09 Marzo 2013
Una breve mail:
«Quello che più balza agli occhi è che il gesto del Papa ha scatenato gli appetiti più immondi : i cani hanno sentito l’odore del sangue e vogliono la loro parte ognuno vuole la sua parte : è iniziato il banchetto : la Sposa di Cristo è sottoposta a comunismo “dottrinale”, avete visto anche i gay vogliono la loro parte, avvengono cose che non sono spiegabili razionalmente : avete seguito la vicenda del cardinale O’Brien? 1) Dopo tanti anni dalle molestie i tre sacerdoti ed il prete sfatto avevano bisogno di attendere l’indomani di un conclave per sputtanare l’unico elettore di Gran Bretagna? 2) Lui stesso ha tenuto nascosto il suo vizio per 60 anni e fa pubblica ammenda all’indomani dello stesso conclave? Dove va il senso della funzione? Don Gallo è un po’ patetico e ipermoralista com’è la sinistra a cui lui appartiene. Penso che dentro la chiesa ci siano ben altri crostini modernisti ed antimodernisti... Può anche darsi che la struttura tenga.... vedremo. Vorrei invitare tutti i miei amici anche i musulmani e coloro che non pregano abitualmente a pregare per la Sposa di Cristo: non ne ha mai avuto così bisogno. Massimo»
Sì, ho anch’io la medesima impressione: iene e sciacalli sono scatenati attorno alla Chiesa. Fiutano il sangue, uggiolano, hanno fretta di finirla. Dietro di loro ci sono i manovratori organizzati, che sentono vicino il momento di «toglier di mezzo» l’ultimo monito nel vero e il falso, il bene e il male – ancorché spettrale, non lo sopportano, se ne sentono limitati nella loro «liberazione». Ma costoro, i maestri, non hanno nemmeno bisogno di dare ordini: le iene si lanciano da sole, sanno che la vittima è ferita e il loro istinto è di farla cadere nel fango, e finirla. Giorni fa sui media italioti è apparsa questa notizia: «Nuovo Papa, per rete sopravvissuti agli abusi dei preti sono 12 i non papabili – Da Maradiaga (Honduras) a Timothy Dolan (New York), da Angelo Scola (Italia) a Marc Ouellet (Quebec Canada). Per la Snap non sono degni del soglio pontificio per le omissioni che hanno fatto nel denunciare i responsabili e per le giustificazioni che hanno dato nonostante le prove». A tutta prima, una notizia tremenda. Ma chi sono gli accusatori? Sono Barbara Doris e David Clohessy, fondatori del gruppo SNAP (Survivors Network of Those Abused by Priests), che stanno facendo addirittura una tournée di otto giorni in dieci città europee, in coincidenza con l’apertura del Conclave, perché ciò dà la massima risonanza mediatica alla loro campagna. L’ultima a Roma, dove hanno fatto la conferenza-stampa che ah attratto i nostri giornalisti sciacalli. I quali hanno scritto fra l’altro che i due americani «hanno fatto intendere che quanto si sa attualmente (sui preti pedofili) è solo la punta dell’iceberg».
David Clohessy
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Solo pochi hanno ricordato che lo SNAP è lo stesso organo che nel 2011 ha accusato il Papa ed altri tre prelati vaticani di «crimini contro l’umanità» alla Corte dell’Aja, apparentemente senza seguito. E senza precisare che si tratta di una Corte che non va confusa con la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite, anch’essa con sede all’Aja; e che giudica per crimini di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione. Ancor meno si sono curati, i nostri giornalisti, di controllare che cosa è questa SNAP, già nota ad esempio al Foglio, che ne ha scritto: «La tattica della Snap, come di molte delle associazioni di vittime dei preti pedofili è sempre la medesima. Denunciare il Vaticano, cercare di sollevare l’indignazione pubblica e poi chiedere (spesso ottenendoli) risarcimenti onerosi». Hanno anche omesso di ricordare che la SNAP ha avuto un 2012 pieno di disavventure legali a cause delle sue «scottanti» accuse: il 2 gennaio, davanti a una corte del Missouri, il suo fondatore David Clohessy ha dovuto ammettere di aver pubblicato informazioni false contro la Chiesa cattolica. (Leader dello Snap ammette: «contro la Chiesa abbiamo pubblicato notizie false») Poi, qualche giorno dopo, di aver «processato» preti pedofili sulla stampa prima che sui tribunali (in USA, incredibile, è un reato); per finire con l’arresto di uno dei principali collaboratori dello SNAP, il dottor Steve Taylor, psichiatra, a cui l’organizzazione affidava vittime di pedofili e che doveva curarne i traumi, per il possesso di oltre 100 video-immagini pedo-pornografiche. Tutte notizie facilmente reperibili in rete: Il Papa denunciato all’Aja: clamoroso autogol della cultura anticlericale. Se i nostri giornalistoidi avessero voluto documentarsi. Ma no. Anzi: con grande strillo annunciano che «il 18 marzo verrà a Roma Alex Gibney a presentare il suo docufilm sui preti pedofili». Così in pieno Conclave, i giornali parleranno di questo «agghiacciante reportage su centinaia di casi di abusi sessuali nella Chiesa». Ma chi è questo regista? E il suo è un documentario o una fiction?
Alex Gibney
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«Una narrazione ferma e risoluta dei fatti, che mescola giornalismo investigativo e ritmo cinematografico» ha scritto The New York Times. «Un documentario di grande lucidità al quale il Vaticano dovrebbe rispondere» insiste The Observer. Ma di quali fatti, precisamente? «Orrore a Milwaukee negli anni ’60, quando più di 200 ragazzini furono violentati da padre Murphy»: insomma è sempre quel solo, gravissimo caso di 50 anni fa. A forza di riproporlo, sembra che di padre Murphy ce ne siano centinaia, e tuttora in piena attività. Il vero mistero su cui dovrebbero chinarsi i nostri cronisti è come mai così tanti, tenaci e concertati attacchi al Vaticano vengono tutti con firma statunitense. Ma che cosa importa alle nostre iene? A loro importa sbranare, godono di tirar fuori «il marciume» dei preti. Come mi fa notare l’amico Stefano, mettono sotto la rubrica «preti pedofili» anche i casi di omosessualità fra adulti. Com’è appunto il caso del cardinal O’Brien. Nel pieno di una gigantesca promozione globale di tale deviazione, per imporla come «scelta sessuale» da accettare, non è il caso di fare scandalo su sacerdoti invertiti (si potrebbe anche finire incriminati per «omofobia»); insistere sulla «pedofilia dei preti» consente di stigmatizzare, infangare e coprire di sospetto l’intero clero cattolico soprattutto in una delle sue funzioni più delicate, l’insegnamento della religione ai bambini; con in più il perenne tentativo di coinvolgere il Papa: «sapeva», che «ha coperto», e che deve pagare i danni. Molti preti sono stati accusati e poi provati innocenti; qualcuno è morto di crepacuore per queste calunnie. Se i casi esistono e sono abietti, una indagine statistica condotta da Nicola Piepoli ha dimostrato che i casi di pedofilia dei sacerdoti sono 2 di 10 mila, ossia tre volte meno che tra la popolazione cattolica generale laica (sarebbe stato interessante vedere quanto è diffuso il vizio fra rabbini e pastori luterani): come ovvio dopo tutto, i preti hanno una moralità più alta e una coscienza mediamente più retta della popolazione. Ma no; bisogna assolutamente dipingere il Vaticano come il luogo di segreti nefandi. Basta la parola IOR perché nella coscienza collettiva sorgano immediatamente associazioni di idee come «riciclaggio», conti cifrati, e sinistre complicità. Un alone creato dai media: «La banca vaticana –ha scritto per esempio Curzio Maltese (da non confondere con il più serio Corto Maltese; Curzio è di Repubblica) – offre ai correntisti, fra i quali come ha ammesso una volta il presidente Angelo Caloia “qualcuno ha avuto problemi con la giustizia”, rendimenti superiori ai migliori hedge fund e un vantaggio inestimabile: la totale segretezza. Più impermeabile ai controlli delle isole Cayman, più riservato delle banche svizzere, l’istituto vaticano è un vero paradiso (fiscale) in terra. Un libretto d’assegni con la sigla IOR non esiste. Tutti i depositi e i passaggi di danaro avvengono con bonifici, in contanti o in lingotti d’oro. Nessuna traccia. (Vi) passano immense e spesso oscure fortune. Le stime più prudenti calcolano 5 miliardi di euro di depositi. Lo Ior è un buco nero in cui nessuno osa guardare». Curzio Maltese non teme il ridicolo, e confida nella ignoranza dei suoi lettori (ignoranza in cui li tiene lui): 5 miliardi di depositi fanno dello IOR una banchetta locale, in confronto ai titani della finanza speculativa in cui né lui né altri «giornalisti» osano guardare. Per fare un nome, Goldman Sachs e le altre 8 banche internazionali che gestiscono derivati per 230 mila miliardi di dollari, per tacere delle altre che gestiscono 450 mila miliardi: e i derivati sono in sé un mostruoso «paradiso fiscale» dove avvengono operazioni al difuori di ogni regola e controllo tributario. Invece che dei «misteri dello IOR», la Repubblica dovrebbe forse cominciare a occuparsi dei «misteri di Goldman Sachs», tipo: come ha fatto a truccare i conti della Grecia, o come fa a piazzare suoi dipendenti nelle banche centrali e nei governi d’Europa; o chiedersi se per caso non avvengano in quel mondo immensi riciclaggi, come quello scoperto della HSBC che da sola è stata scoperta a riciclare 7 miliardi di dollari (una IOR e mezzo) dei narcos messicani, e non è stata incriminata perché se no «poteva destabilizzare il sistema bancario mondiale». La campagna si è intensificata negli ultimi tempi. E riesce a far passare per «tenebrosi segreti» anche casi in cui la Chiesa è chiaramente la vittima. Il caso De Pedis (il capo della banca della Magliana) misteriosamente seppellito a Sant’Apollinare, a esempio. Alla fin fine, il grande scandalo si è ridotto a ben poco. Il seppellimento era stato un’iniziativa del prete omosessuale amico del bandito, che dirigeva la basilica e gli annessi a quel tempo, che il Vaticano effettivamente era all’oscuro di tutto (uno dei problemi, è che a certi preti viene lasciata troppa autonomia); secondo i media in quella tomba ci potevano, anzi dovevano, essere state nascoste le ossa di Emanuela Orlandi: la Scientifica ha aperto il sarcofago con gran circo mediatico e telecamere, e vi ha trovato le ossa – ci credereste? – del De Pedis. Si è detto che Sant’Apollinare godeva di estraterritorialità, quindi sottratta alla magistratura italiana: pura e semplice menzogna. E ce ne sono molte altre. Specialista di questo genere di campagne è Gianluigi Nuzzi, definito «il massimo esperto di trame vaticane». Grande successo: il suo libro Vaticano Spa «è in testa alle classifiche». C’è evidentemente un odio previo, pregiudiziale per la Chiesa che non vuol altro che conferme.
Gianluigi Nuzzi
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Nuzzi ha fatto molto per far credere che ci fosse Emanuela Orlandi, uccisa da un cardinale, nella tomba di De Pedis. È anche il destinatario delle carte del maggiordomo infedele di Benedetto XVI, che hanno consentito di creare il turbine di «inquietanti misteri» chiamato «Vatileak». Confesso che in una recente serata su La 7 ho cercato di appassionarmi alle «rivelazioni» di Nuzzi. Alla fin fine, il più «scottante documento» che è stato in grado di esibirci – dopo due ore di promesse di «sconvolgenti rivelazioni» – erano un foglietto di appunti dove un ufficio vaticano rendeva noto che in un prossimo Angelus sarebbero stati presenti in piazza i familiari della povera Emanuela Orlandi, e che essi avrebbero voluto che il Pontefice, dalla finestra, ricordasse l’accaduto; l’ufficio vaticano consigliava di non farlo: erano passati 30 anni dal tragico evento. Il foglietto era siglato «Bdt XVI», e mostrava che il Papa ne aveva preso visione. Ciò ha permesso a Nuzzi di intervistare la sorella di Emanuela, che si dichiarava ferita, addolorata e insinuava una volontà omertosa del Santo Padre e della sua segreteria... 30 anni dopo, si cerca ancora di incolpare «il Vaticano» per la scomparsa della Orlandi. In qualche modo, in qualunque modo. Il vero e solo scandalo era che erano comunque documenti riservati, che la riservatezza del Santo Padre era stata violata ed offesa, alla mercé di trafugatori anche di foglietti minimi a scopi scandalistici, e che il giornalista li mostrava senza vergogna nella loro insignificanza, perché erano «stati sulla scrivania del Papa» e dunque lui, il Nuzzi, li riteneva in qualche modo pruriginosi. Un’ultima conferma l’ho avuta di persona. Un giorno della settimana scorsa mi chiama al telefono un tizio: dice di essere un collaboratore di «La Zanzara» (programma grasso e viscido di Radio 24) e mi annuncia che Cruciani – il conduttore – mi vuol fare qualche domanda su una frase da me scritta su questo sito: «essendo stato 15 anni ad Avvenire, non scopro oggi che c’è la lobby gay in Vaticano..» eccetera. Naturalmente mi sono rifiutato. Cruciani, se qualcuno di voi lo ascolta, è uno che deride e insulta le persone che intervista, le molesta al telefono, strappa ai più innocenti qualche frase compromettente che lo copre di ridicolo o di infamia; lo fa solo coi deboli, perché con i potenti è pieno di ossequio e condivide tutto il politicamente corretto dettato dalle centrali. Il suo giornalismo è tutto qui, consiste solo in questo. È teppismo. Con Cruciani non parlerei non dico della Chiesa, ma nemmeno di motori, di cucina e di vacanze. Non è il genere di persone che voglio frequentare. Ho capito subito che aveva «fiutato» nella mia frase il sangue e il pus: specialità di un certo tipo di giornalisti ben descritti in un immortale raccontino di Ennio Flaiano. Non lo conoscete? Si intitola «Le Jene», ed esordisce: «Da un mese nel nostro giornale hanno assunto in prova due iene». Due iene in redazione. Due iene vere, con quella loro pelliccia da scendiletto sporco, quel naso diabolico, «un pessimo odore», e la risata da iena, in cui «senti il sarcasmo e la ferocia professionale dell’assassino». Ebbene: i due animali si sdraiano sulle loro scrivanie; consumano i loro orribili pasti di ossa e frattaglie in redazione sotto i tavoli, depositano i loro escrementi nei vani delle finestre. I tre redattori umani nella stanza devono accettare e convivere. Ed ecco il seguito: «Dopo una decina di giorni abbiamo cominciato, Dio ci perdoni, a stimarle. Sanno fare il loro lavoro, si direbbe che l’hanno nel sangue, questa maledetta cronaca. (...) Le due iene hanno il cosiddetto fiuto, che non s’impara. Ora, per il nostro lavoro, il fiuto è tutto. Esse sentono il fatto di cronaca a venti chilometri, e non solo il cadavere. Sentono il morituro, la tragedia, la strage, la notizia che monta, si allarga, investe tutta la città». Laddove i giornalisti umani si stancano dei fatti orribili, e per pietà tendono a lasciarli esaurire dopo qualche articolo, «le jene no, esse non mollano mai. Vanno fino in fondo, hanno il loro metodo: lavorano soltanto sul cadavere. Gli tirano fuori tutto, le trippe, il cuore, il passato, l’infanzia, gli amori, le possibili depravazioni, i nomi delle amanti, i rapporti incestuosi o di natura «particolare» (oh, come amano questa parola!), e le fotografie, e i diari, e le più innocenti confessioni, tutto. Alla rinfusa, ma tutto. Scovano gli amici delle vittime, i camerieri, i lenoni: li fanno parlare, gli fanno raccontare dietro compenso le cose più segrete e più luride, quelle stesse cose che le vittime avrebbero voluto seppellire nell’oblio per sempre, e hanno creduto di farlo uccidendo o uccidendosi. No, le iene vanno lontano, risalgono, scovano: e quando il cadavere non ha ormai più segreti, quando il lezzo è insopportabile, tornano da noi, ridono a crepapelle, osano invitarci a pranzo, ai loro pranzi»… Ecco, questo è il genere di giornalisti che sono attratti dal Vaticano ferito. La prima Chiesa crebbe nel circo fra i leoni; l’ultima Chiesa finisce, temo, nella fossa di queste jene.
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