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Un sassolino nella scarpa
04 Maggio 2013
L’Italia si trova, suo malgrado, in un momento di grandi trasformazioni, imposte dall’ esterno mentre è priva degli strumenti ideologici per affrontare qualsiasi cambiamento. L’Italia non ha un progetto per il suo futuro, ha solo residui fossili di ideologie buoniste che vanno da un cattolicesimo stantio ad idee sinistroidi, tutte arroccate a difendere piccoli privilegi, mentre in realtà si ignorano le forze che ci stanno rapinando e distruggendo. Siamo a questo punto perché il futuro ci ha raggiunti e superati mentre ci cullavamo nella convinzione che il domani sarebbe stato comunque migliore di ieri, che il benessere sarebbe certamente cresciuto, che non avremmo mai più avuto problemi gravi da risolvere.
Così per un anno abbiamo sopportato il peggior governo possibile, quello di Mario Monti, personaggio impreparato e stupido, che ha dato il colpo di grazia al nostro lavoro, al nostro sistema di valori, alle nostre tradizioni, togliendo le ultime risorse finanziarie ai più poveri. Invece di metterlo sotto processo e chiedergli conto del saccheggio fatto in nome e per conto dell’ Europa germanizzata, abbiamo permesso che Monti si presentasse alle elezioni e raccogliesse voti.
«La politica di Mario Monti è oggi fallita», scrive l’ economista Jacques Sapir sul settimanale francese Marianne: «Non solo ha spezzato la crescita e gettato il Paese nella recessione, ma con un rigore fiscale più pesante, mentre lo Stato è notoriamente un cattivo pagatore, ha aggravato notevolmente la situazione delle piccole e medie imprese. Le entrate fiscali hanno cominciato a calare in maggio…. Com’era prevedibile, la politica di estremo rigore di bilancio provoca l’asfissia dell’economia, che a sua volta genera un calo delle entrate fiscali. Anche l’Italia, come la Spagna, non raggiungerà i suoi obbiettivi di deficit per il 2012».
Napolitano, mentore di Monti, con qualche generoso e commovente incitamento, riusciva a far dimenticare il suo ruolo fondamentale nella creazione del governo tecnico. Abbiamo continuato ad ispirarci a vecchi luoghi comuni, mentre la crisi, ben orchestrata e ben congeniata, cresceva grazie anche al volenteroso contributo di connazionali astuti, che, al momento giusto, si erano gettati al saccheggio dei patrimoni pubblici. Come Prodi con l’IRI, D’Alema con la Telecom, Draghi con le banche di Stato e le privatizzazioni, De Benedetti nelle vesti di grande regista occulto. Un fenomeno del tutto simile a ciò che avvenne in Russia dopo la scomparsa del comunismo. Con una piccola differenza: i russi hanno chiamato Putin a salvarli dalla rapina. Noi, al seguito degli interessi occidentali, ci lasciamo derubare e critichiamo Putin.
I problemi poi diventano ancor più gravi, anche perché la crisi da economica diventa crisi di valori, riaffiorando antichi modi di pensare, criteri di giudizio che pensavamo essere stati sommersi per sempre dalla modernità, alla quale avevamo sacrificato tutto: arte, cultura, usanze, tutto per avere il benessere erogato dai supermercati, dalle vacanze in luoghi esotici, dalle automobili su autostrade sempre più larghe, dalle seconde case sempre più tristi. Questo veniva pagato con un lavoro possibilmente facile anche se noioso, ripetitivo, alienante. Ma eravamo felici. La televisione ci diceva che vivevamo nel mondo migliore possibile. E poi i pensieri andavano al sesso, al calcio e se proprio ci ostinavamo ad essere un po’ depressi c’era la droga, l’altro pilastro della nostra felicità. Infine per alcuni c’era l’emozione della politica, le discussioni su temi infuocati, per lo più tendenti sempre più vagamente a sinistra.
Ora tutto questo crolla. Bersani ci ha detto che arrivava la crisi, che la colpa era di Berlusconi, che Monti ci avrebbe salvati dal baratro in cui stavamo precipitando. Ed è tutto finito. La crisi è arrivata davvero. Bersani pensava di ricavarne vantaggi in termini di voti. Secondo la vecchia formula delle sinistre: la crisi induce a votare a sinistra. Ma non sempre. Così Bersani, grande vincitore delle sue primarie, si è trovato incastrato ed ha dovuto passare la mano. Adesso con la crisi, senza lavoro, con la sopravvivenza legata alla durata della cassa integrazione, siamo costretti a pensare. Pensando riaffiorano i fantasmi del passato.
Qualche mese prima che arrivassimo al capolinea avevo scritto un articolo: La Germania ha perso la sua terza guerra per conquistare l’Europa, che ebbe molti commenti estremamente interessanti.
Chi sperava di aver trovato nella Germania il nuovo padrone si era affrettato a scrivere:
“vorrei far presente che è inutile chiedersi se il nuovo padrone ha i connotati desiderati, il padrone che sia nuovo o vecchio è il padrone. Il padrone è padrone e basta. Non esiste il padrone buono od il padrone cattivo, esiste il padrone. Purtroppo (per) noi italiani non siamo stati mai nelle condizioni di fare il padrone, ma le dirò di più, non siamo quasi mai nemmeno stati padroni di noi stessi.”
Per questo, con quel che segue, debbo togliermi un sassolino dalla scarpa. Non farò nomi. Nel titolo avrei fatto meglio a dire: tentare di riconquistare, perché Carlo Magno era già riuscito nell’impresa di estendere il dominio dei Franchi su molte terre che avevano fatto parte dell’ Impero romano d’occidente. Per tre anni circa la Germania di Hitler aveva ripetuto l’impresa. Certamente ci sarà chi dirà che si tratte di chiacchiere che si fanno al bar con gli amici. Per molti oggi citare avvenimenti che sono accaduti oltre dieci anni fa è del tutto inutile, storie vecchie e sepolte, figuriamoci poi andare indietro di 1200 anni, ma anche citare avvenimenti di 70 anni fa sembra troppo. La memoria breve è tipica della società occidentale e di quella americana in particolare, società che non vogliono e non possono avere radici, che vivono nel presente e che in realtà sono soggette a chi altera il significato degli avvenimenti e cerca di impedire alla gente di avere opinioni proprie, fondate su fatti reali. Cercare di allargare i limiti temporali dei ricordi storici genera il sospetto di eresia sovversiva, di voler andare contro le opinioni correnti, che poi sono le uniche legalmente ammesse senza incorrere nell’accusa di complotto.
Ma se si guarda dietro le apparenze, tutto ciò che accade ha radici più o meno lontane. Poiché degli avvenimenti del passato conosciamo l’esito, il loro legame con quelli di oggi ci permette di dare uno sguardo al futuro, nel tentativo di evitare adesso errori già compiuti in passato. L’interesse per i commenti al mio articolo dipende dall’essere questi non tanto l’opinione di singoli, ma quelli di una considerevole parte degli italiani. La necessità di andare indietro nella storia deriva del fatto che molti di coloro che non vorrebbero sentir parlare di fatti lontani nel tempo, oltre quei dieci anni stabiliti come limite della memoria della gente, dicevamo proprio questi se ne escono con affermazioni che sembrano essere prese dal linguaggio di qualche secolo addietro. Poiché costoro spergiurano di non aver studiato la storia, si deve dedurre che il pensiero dominante viene tramandato attraverso i secoli con un passaparola tra le generazioni. Ed è questa la ragione che induce a cercare legami tra l’oggi e i tempi passati.
L’italica genuflessione davanti al potere
Veniamo all’opinione degli italiani circa i rapporti con altri popoli, in specie se si tratta di popoli che si sono organizzati in strutture di potere. Avevo scritto: “Orfani da lungo tempo dell’Unione Sovietica, poco rassicurati dagli USA, occupati a risolvere i loro problemi su scala planetaria, restava la vicina Germania, unico padrone a cui affidarsi.” E’ bastata questa sfumatura sarcastica, che peraltro riguarda fatti reali, per sollevare proteste. Il commento più significativo, quello riportato all’inizio, che disquisisce sul padrone e sulla necessità di accettarlo così com’è. La risposta a quel commento è stata:
“Quando ho cominciato a scrivere la risposta avevo avuto sentore che ci fosse per l’aria qualche desiderio di sottomissione ma non potevo immaginare che si sarebbe arrivati a redigere una specie di sintesi perfetta come questa … Insomma non si poteva dire meglio, o forse no, esiste un detto più antico ed anche più sintetico: Francia o Spagna purché se magna. Il mio augusto concittadino Gioacchino Rossini fu sempre contrario all’unificazione dell’Italia, si godé la vita e andò a vivere a Parigi tra gli agi e la cucina raffinata, tenendosi alla larga dai facinorosi patrioti che si facevano ammazzare per combattere il padrone di allora: l’impero austroungarico. Già un grande impero ricco di cultura, di arte e di tecnica, forse migliore di quanto non sia la Germania di oggi, culturalmente una assoluta nullità. Potevamo evitare di sognare l’Italia, starcene tranquilli sotto l’ impero austroungarico, che, con il nostro appoggio, forse sarebbe ancora in vita. La Germania di oggi non è quella della fine del XIX secolo, o quella del 1939, quando trascinata da Hitler fece faville in tutti i campi. Alla fine intendevo dire che quando si sceglie di avere un padrone almeno si sappia se è una potenza di serie A oppure di serie B come appunto è la Germania”.
Indicare la Germania come potenza di serie B ha innescato un coro di proteste. Guai fare critiche al padrone dal quale si spera di ricevere benevolenza e vantaggi concreti.
Il lettore si chiederà perché mi accanisco tanto su queste frasi, che qualcuno potrebbe pensare che siano solo delle battute. In realtà mi sono reso conto che non sono affatto frasi dette e scritte tanto per fare polemica. Riflettendo mi sono accorto che al contrario questa più o meno inconscia necessità di avere un padrone e di temere l’indipendenza è un carattere peculiare del nostro essere italiani. Questo debbo dire con grande dolore ed amarezza.
Gli italiani sono stati e sono l’unico popolo che cerca e desidera un padrone
Dalla celebre rivolta degli schiavi guidati da Spartaco sappiamo che la struttura sociale dell’Italia, già ai tempi della Roma repubblicana, era composta in parte da schiavi che provenivano da tutte le regioni conquistate. L’esercito che Spartaco mise assieme era costituito da tanti gruppi appartenenti a popoli diversi. Questi gruppi erano tra loro ostili e questa fu una causa del fallimento della rivolta, che tuttavia venne vinta dai romani con grande difficoltà e dopo aver subito molte sconfitte. Quando la struttura statuale in Italia si dissolse ci fu la disgregazione del tessuto sociale dei latini, mentre continuavano a sopraggiungere nuove popolazioni. In Italia si verificò un tale miscuglio etnico che fu poi impossibile ricreare una popolazione con una minima base comune. Unica piattaforma condivisa fu quella creata dalla Chiesa, che poi, quando si arrivò al momento dell’ unificazione politica, per conservare il potere temporale sul centro Italia, fece il colossale errore di ritirare il suo appoggio. In Italia abbiamo avuto gruppi etnici che sopravvissero indisturbati senza fondersi. Si pensi al caso degli albanesi nel sud Italia. Questi hanno conservato i loro usi e costumi, con rapporti pacifici con i vicini con i quali non si fusero mai.
Quando ancora regnava Craxi mi capitò di conoscere una signora inviata dal PSI a svolgere un’indagine nel regioni del sud Italia attorno a Napoli. Costei mi raccontò che nelle campagne, già in quegli anni, la maggior parte dei braccianti agricoli erano di origine africana o balcanica. Nessuno era registrato, tutti erano senza permesso di soggiorno. Questo rivela che siamo sempre di più una società frammentata, che quindi ha sempre avuto bisogno di una guida. I piemontesi unificarono l’Italia trattandola come una colonia. Al massimo le popolazioni italiane si ribellavano al malgoverno di qualche padrone troppo esigente. Tentarono di ribellarsi anche ai piemontesi ma questi dimostrarono una ferocia spietata. Nacque così l’emigrazione che fu un esodo in massa. In altri momenti le rivolte ebbero risultati migliori, come quella contro il viceré di Napoli con la rivolta di Masaniello. Una rivolta che si fece contro il malgoverno, ma in nome del re di Spagna! Questa situazione di forte diversità etnica spiega l’enorme vitalità degli abitanti della penisola italiana, ma ci fornisce anche il motivo per cui è così difficile stabilire un governo. In Italia per secoli le diverse classi sociali in alcune zone hanno mascherato differenze etniche, che sono convissute senza fondersi.
Brendan Simms e il Sacro Romano Impero
Copertina del libro di Simms con la parte anteriore del carro di trionfo
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La Germania è tornata ad essere un problema e in alcuni Paesi europei se ne comincia a parlare apertamente. In Italia, in attesa del nuovo padrone, se ne parla poco e con prudenza. Brendan Peter Simms (1), professore di Storia delle relazioni internazionali nel Centro di Studi Internazionali dell’Università di Cambridge, ha appena pubblicato uno studio storico sulla Germania e sui tentativi di egemonizzare tutta l’Europa: Europa: la lotta per la supremazia dal 1453 ad oggi. Quindi Simms parte addirittura dal 1453. Per enfatizzare l’inizio dello studio di Simms, la copertina del libro è presa da una grande stampa di Dürer, una specie di grande manifesto, una gigantografia ottenuta da otto matrici di legno incisi. Sulla copertina sono rappresentati i due cavalli anteriori del carro trionfale trainato da tre coppie di possenti cavalli. È una esaltazione iperbolica delle virtù dell’imperatore del Sacro Romano Impero: Massimiliano I (1459 –1519). Una cosa ampollosa, molto tedesca medioevale. Senso dell’autoironia zero.
Qualche notizia su queste stampe: Massimiliano era morto da tre anni quando Dürer completò l’opera. Massimiliano voleva apparire moderato, molto diplomatico, sarà molto celebrato in vita e più ancora dopo la morte. Si disse che gli altri regnanti in quegli anni si imponevano con le guerre, lui si era imposto con i matrimoni dei suoi figli e nipoti. Da cui il detto: “Bella gerant alii, tu felix Austria nube”, che tradotto: “Gli altri facciano la guerra, tu, Austria fortunata, sposati”.
A essere sinceri Massimiliano le guerre le fece ma alcune le perse, soprattutto contro gli svizzeri, che da contadini montanari erano diventati guerrieri invincibili perché sostenuti da due elementi: il desiderio di indipendenza e la solidarietà. L’Europa di oggi avrebbe dovuto prenderli come modello ma così non è stato. Al contrario sono proseguite le sopraffazioni reciproche. Lo storico Hyatt Mayor, con ironia, definì questi enormi manifesti il programma di Massimiliano fatto con una grandeur di carta. Si voleva dare a Massimiliano il compito di rappresentare una Germania pacifica, quella Germania divisa in tanti piccoli Stati, tutti facenti parte del Sacro Romano Impero.
La copertina scelta per il libro rappresenta la parte anteriore del carro trionfale e vuole alludere alle virtù di una Germania prima dell’unità, quando esistevano infinite piccole realtà politiche ricche di arte e di cultura, realtà politiche sotto forma di piccoli stati indipendenti, alla fine inglobati nella psuedo-confederazione creata dalla Prussia. Ma questa immagine è falsa perché quei piccoli Stati davano all’imperatore il compito di svolgere una politica di potenza sanguinaria, condotta per conto e con il sostegno di tutti i tedeschi.
Arco di trionfo per Massimiliano I. L’opera grafica più grande mai realizzata con stampi in legno (CLICCARE PER INGRANDIRE)
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Nella primavera del 1512 l’imperatore Massimiliano si era fermato a Norimberga, dove aveva conosciuto Dürer. Per celebrare l’imperatore e il suo casato l’artista concepì allora un’impresa mai vista, quella di una gigantesca xilografia, vera antesignana dei poster, composta da 192 blocchi, stampati separatamente e riuniti insieme a formare un grande Arco trionfale (295x357 cm.), su cui erano illustrate storie della vita di Massimiliano e dei suoi antenati, oltre a figure allegoriche. Essa richiese, oltre al contributo di Dürer, che progettò l’opera e ne disegnò alcune parti, il lavoro di vari aiuti che disegnarono le restanti parti con l’apporto di eruditi, architetti e intagliatori. Il messaggio visivo veniva chiamato in aiuto del messaggio ideologico, lanciato con le parole. Questo connubio sparirà con il protestantesimo. Dürer aggiunse all’arco trionfale anche un carro trionfale realizzato con 8 stampi, appunto quello da cui è stata presa la copertina del libro. Massimiliano in realtà curò il potenziamento del suo esercito. Si dotò della migliore artiglieria e nel 1487 creò il corpo dei lanzichenecchi, da contrapporre alla fanteria svizzera. I lanzichenecchi quanto a ferocia non era da meno delle SS di hitleriana memoria, ma con molta meno igiene personale, da cui le malattie che diffusero al loro passaggio.
La Germania è sempre troppo...
Ma torniamo a ciò che dice Brendan Simms. Egli insiste sul fatto che l’Europa è di nuovo alle prese con la “questione tedesca”: la Germania è sempre troppo debole o troppo forte. Oppure la Germania era “troppo grande per l’Europa, ma troppo piccola per il mondo” come disse Henry Kissinger, commentando il processo di unificazione tedesco dopo il 1871. Oggi, spiega Simms:
«[la Germania] siede al cuore dell’Unione Europea, per buona parte concepita per limitare il potere tedesco, ma che è servita invece ad aumentarlo. Un’Unione Europea la cui vulnerabilità di fondo ha involontariamente privato molti altri Europei della loro sovranità».
La questione è se la Germania possa usare il suo potere per comandare senza altre scuse e se sia capace di esercitare questo potere. Dato il passato della Germania, la sua cultura politica milita contro. Come ironizza Jo¬scha Fisher, ex ministro degli esteri: “È bello partecipare ad una conferenza di ‘giovani leader’, ma speri sempre che non sia una conferenza di ‘Junge Führer’”. L’alternativa?
Gli Stati Uniti d’Europa. La maggior parte dei tedeschi teme che gli altri possano tornare ad odiarli o a temerli, ma, per ora, i loro vicini sembrano decisamente meno preoccupati. Come ha sottolineato nel 2011 a Berlino il ministro degli esteri polacco, Radek Sikoski, “temo il potere tedesco meno di quanto cominci a temere l’inattività della Germania”. Alcuni accademici tedeschi sono d’accordo con l’onorevole Sikorski. Christoph Schönberger, dell’Università di Costanza, ritiene che la leadership tedesca non dovrebbe essere attaccata come se stesse dominando. Egli ritiene che “le élite tedesche e i cittadini debbano sopportare l’introversione nazionale” perché alla leadership tedesca non c’è alternativa. Soltanto una completa unione politica in Europa (com’è per gli stati federali quali la Svizzera o gli Stati Uniti) permetterebbe di superare il caso di un membro egemone. Ma non si può credere che i tedeschi accettino la creazione di una confederazione in cui resterebbero intrappolati.
Germania fuori dall’Euro?
Sarebbe l’inizio della fine oppure la salvezza dell’ Europa. Questo è il dibattito di fondo che percorre la Germania, quando nel Paese ha inizio la lunga cam¬pagna elettorale, che porterà alle elezioni federali nel mese di settembre. Un nuovo sondaggio indica che il 69% dei tedeschi vuole mantenere l’Euro, una percen¬tuale in aumento rispetto ai sondaggi precedenti. Ma coloro che vogliono tornare al Marco, ora hanno anche un partito, Alternativa per la Germania, che ha tenuto il suo primo raduno a Berlino.
Ancora Brendan Simms nelpezzo di copertina del New Statesman, dedicato al “problema tedesco”, afferma: «Uno spettro si aggira di nuovo per l’Europa – lo spettro della potenza tedesca». Il settimanale sottolinea che gli ultimi cinque anni hanno visto la « “notevole ascesa” dell’influenza tedesca, con Berlino che ha superato indenne la crisi economica e impedito alla Banca centrale europea di lanciarsi nella corsa all’acquisto di bond che i paesi in bancarotta della periferia dell’Europa desiderano tanto, prescrivendo invece loro una dieta di indigeste “regole” fiscali. […] Non sorprende, quindi, che in questo periodo si sia registrato anche l’aumento della germanofobia politica e popolare in tutto il continente».
Secondo Simms negli ultimi 500 anni la Germania ha oscillato tra l’essere troppo forte o troppo debole. La domanda adesso è questa: come si può persuadere la Repubblica federale tedesca, prospera e sicura come non mai, a prendere l’iniziativa politica e fare i sacrifici economici necessari a completare l’opera dell’unità europea? In un modo o nell’altro, la questione tedesca rimane e ci accompagnerà sempre. Perché ogni volta che l’Europa e il mondo pensano di averla risolta, gli eventi e i tedeschi cambiano la questione.
Un altro storico, Dominic Sandbrook,scrive sul Daily Mail che secondo un numero crescente di europei “per la terza volta in meno di cento anni la Germania sta cercando di prendere il controllo dell’Europa”. Si riferisce all’intervista dell’ex presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker a Der Spiegel, che innocentemente ha fatto il parallelo tra il 2013 e l’anno che ha preceduto lo scoppio della Prima guerra mondiale ed ha avvisato che la minaccia della guerra in Europa esiste ancora. Secondo Sandbrook, se i tedeschi continuano a imporre brutali ristrettezze economiche ai popoli d’Europa, le conseguenze in termini di alienazione sociale, dispute internazionali e ascesa dell’estremismo politico potrebbero essere drammatiche. «Abbiamo già assistito a proteste sanguinose contro il giogo economico della Germania ad Atene, Roma e Madrid. […] Grazie a questa crisi politica apparentemente interminabile, la Germania è vista sempre più come l’oppressore dell’Europa che come il suo salvatore. […] Ma la verità è che legare insieme le economie di nazioni diverse come Portogallo, Grecia, Francia, Italia e Germania è servito solo a infiammare vecchie inimicizie». (da Presseurop) Michael Burda, professore di economia all’università Humboldt di Berlino, dice “In questo momento, il rischio più grande per l’Euro non è che la Grecia lasci, ma che lo faccia la Germania”. Burda fa riferimento ai recenti rimpatri di oro tedesco dalla Francia e dall’America come un segnale lanciato al Sud, che indica come la situazione non sia tollerabile. Se il Professor Simms ha ragione: “La Germania sarà condannata se deciderà, e sarà condannata lo stesso se non deciderà [di guidare l’Europa]”. L’Euro, al contrario, sarà condannato soltanto se la Germania deciderà di non farlo. (Da The Economist).
Le opinioni di Jean-Claude Juncker, ex capo dell’Eurogruppo
In una importante intervista, concessa al periodico tedesco Der Spiegel, il primo ministro lussemburghese ed ex capo dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, incita gli Stati membri della Ue a mettere in campo non meglio precisate riforme strutturali. Innocentemente spiega i motivi che lo inducono a stabilire un parallelismo tra il 2013 e l’anno che precedette la Prima Guerra Mondiale.
L’intervista inizia così:
Spiegel: Per otto anni Lei è stato una sorta di presidente informale dell’Unione Monetaria. Quando fa il bilancio dei suoi risultati, non Le tocca ammettere che in questo lasso di tempo l’Europa si è indebolita?
Juncker: Per la mia generazione, l’Unione Monetaria ha rappresentato uno strumento di pace. Oggi, noto con dispiacere che per molti l’Europa sta tornando un luogo di dispute regionali e nazionali. ... Il modo in cui alcuni politici tedeschi hanno trattato la Grecia ha lasciato profonde ferite. Mi ha colpito profondamente vedere i manifestanti ad Atene brandire cartelli raffiguranti Angela Merkel in uniforme nazista. Sentimenti che pensavo fossero ormai sepolti nel passato. Anche le elezioni italiane mi sono sembrate eccessivamente anti-tedesche e, quindi, anti-europee. (quindi per Juncker l’Europa è la Germania. ndr)
Spiegel: Sta esagerando. Nessuno può oggi mettere in dubbio seriamente la pace e l’ amicizia in Europa.
Juncker: È vero, ma chiunque creda che le questioni della pace e della guerra siano eternamente risolte in Europa potrebbe commettere un errore monumentale. I demoni non sono ancora stati cacciati; essi stanno semplicemente dormendo, come le guerre in Bosnia e Kosovo ci hanno mostrato. Sono sorpreso nel constatare di come le circostanze dell’Europa del 2013 somiglino a quelle di cent’anni fa.
Spiegel: Il 1913 fu l’anno prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. Pensa davvero che possa verificarsi un conflitto armato in Europa?
Juncker: No, ma noto ovvi parallelismi nella compiacenza della gente. Nel 1913 molte persone ritenevano che mai vi sarebbe stata un’altra guerra in Europa. Le grandi potenze del Continente erano così interconnesse economicamente da far ritenere impossibile un confronto militare, quanto meno per ragioni di mera convenienza reciproca. Soprattutto nell’Europa occidentale e settentrionale, v’era un completo senso di compiacenza, basato sull’assunto che la pace fosse assicurata per sempre….
Chiedere un padrone pare che sia una richiesta solo italiana
In questo contesto la situazione italiana costituisce un fattore di instabilità molto grave. Invece di svolgere il ruolo che ci spetta in Europa e nel mondo, abbiamo impiegato gli ultimi trenta anni a distruggere ciò che avevamo costruito dal dopoguerra in poi. Non solo con le privatizzazioni abbiamo demolito i pilastri della nostra economia, che erano le industrie a partecipazione statale (vedi IRI, Telecom, le banche di Stato, ecc.), ma non siamo stati in grado di far decollare l’industria privata. Basta pensare alla scomparsa della Montedison e della Olivetti, oltre al ridimensionamento della FIAT auto. Tutto in nome della concorrenza e delle privatizzazioni, che sono diventate un’occasione di furto colossale compiuto con il compiacente sostegno della sinistra, trasformata in una massa di fanatici, incapaci di elaborare idee e programmi che avessero un minimo legame con la realtà. [A questo proposito è utile consultare un libro di Antonio Venier: “Il disastro di una nazione. Saccheggio dell’italia e globalizzazione” (2)].
A questo si aggiunge il riemergere di un nostro antico atteggiamento: la necessità e il desiderio di avere un padrone. Le nostre colpe risalgono al 1866, quando, alleati della Prussia, avevamo avuto l’ occasione di battere definitivamente l’Austria e costituire uno stabile equilibrio europeo. Invece ci dedicammo alla nascente speculazione edilizia e a reprimere il brigantaggio, creato dalle sopraffazioni e dalle rapine dei piemontesi. Non ci accorgemmo che a Custoza non avevamo perso e che Persano a Lissa avrebbe potuto inseguire e distruggere la flotta austriaca poiché avevamo la nave da guerra più potente dell’epoca: l’affondatore. L’Austria bella, civile e putrefatta sopravvisse e portò tutta l’Europa alla prima guerra mondiale. Ma noi inconsciamente già cominciavamo ad avvertire la mancanza di un padrone.
Infatti anche solo manifestare il desiderio di avere un padrone ha conseguenze gravi, come infatti ci sta succedendo. La nostra spontanea e rabbiosa rinuncia all’indipendenza da parte dell’ ala più intransigente della sinistra, ha già conseguenze gravissime anche se è l’opinione espressa da un solo partito politico. Il rifiuto all’indipendenza potrebbe essere una vendetta postuma contro la borghesia, che dell’indipendenza aveva fatto la sua bandiera. Il rifiuto dell’indipendenza si riflette in molti campi, anche se si tratta di attività che hanno solo la colpa di conquistare l’indipendenza in un settore tecnico o industriale. Questo avviene nei settori della ricerca scientifica e dei brevetti, il cui significato in Italia non è compreso. Per coerenza con le premesse della volontaria perdita dell’indipendenza, anche questo è emerso nei commenti dei lettori. In particolare ci è precluso il campo della ricerca scientifica e tecnica, da cui nascono i brevetti. In questo campo è indispensabile avere una visione obbiettiva dei problemi, visione che non abbiamo e non vogliamo avere.
Un brevetto è una scommessa sul futuro, è la volontà di esseri liberi, liberi dal bisogno, di avere maggior potere sulle forze della natura, sulla natura delle cose.
Bisogna anche avere la volontà di superare i concorrenti, renderci momentaneamente indipendenti. Questo no, non ci sta bene. Poi c’è la nostra litigiosità, la nostra mancanza di solidarietà, le nostre invidie. Quando si pubblica un articolo scientifico su una rivista estera (riviste scientifiche italiane serie non ce ne sono più, le poche sopravvissute si sono europeizzate) la rovina è finire sotto il giudizio di un referee italiano che non sia amico da lunga data. La bocciatura del lavoro è assicurata, in particolare se il lavoro è originale. Il risultato è che i ricercatori che restano in Italia pubblicano poco e roba poco originale. Gli spagnoli sono partiti da pochi anni ma stanno correndo e sono ora avanti a noi.
Come ho appena detto, nei commenti si è parlato anche di brevetti, altro punto dolente dell’Italia. Cito un pezzo in cui rispondevo a chi faceva osservare la superiorità della Germania quanto a numero di brevetti:
«… L’EPO raccoglie solo i brevetti registrati nell’Ufficio Brevetti europeo. Riporto quanto pubblicato da “punto-informatico”: “Un nuovo rapporto WIPO evidenzia la fase di passaggio che il mondo sta vivendo e fotografa l’aumentata importanza dell’innovazione nel paese asiatico (la Cina). Tecnologia informatica e design industriale i campi più in fermento. Nonostante la perdurante crisi economica che colpisce un po’ tutto il mondo, l’industria dei brevetti (o delle richieste di brevetto) non conosce sosta: fotografa lo stato delle cose in materia di nuova proprietà intellettuale il nuovo rapporto WIPO, che prende in esame le attività degli Uffici Brevetti locali o regionali e mette assieme le cifre per valutare classifiche e trend. Il rapporto analizza lo stato delle richieste di brevetto registrate durante il 2011; su tutti, un dato balza subito all’occhio: con le sue 526mila richieste, la Cina ha battuto tutti gli altri paesi totalizzando un quarto delle domande mondiali complessive. (Gli USA sono arrivati a 503mila, il Giappone a 342mila) Il traguardo dell’ufficio brevetti cinese rappresenta un punto di svolta dalla portata storica.” La Cina è ancora terzo mondo? Siete mai stati all’Università di Pechino?... Quando fra poco la Germania avrà finito di spremere i paesi dell’area euro dovrà confrontarsi con i Paesi asiatici ed allora i suoi alti salari salteranno insieme ai suoi equilibri sociali».
Ecco alcune risposte:
«Le domande di brevetto sono una, cosa i brevetti concessi sono una cosa molto diversa. Dipende innanzitutto dalla ricerca, se viene effettuata o meno, dalla qualità della ricerca, e dal giudizio sul grado di inventività della domanda (inventive step). Le procedure sono diverse per i singoli Uffici Brevetti nazionali e sono, più o meno, equivalenti per l’EPO e lo USPTO. Molti anni fa i giapponesi inviavano una valanga di domande che riguardavano lo stesso dispositivo con una quantità innumerevole di varianti che cercavano di coprire tutto il possibile. Quelle contavano come domande separate, in realtà riguardavano lo stesso dispositivo o processo. I cinesi stanno facendo la stessa cosa con l’aggravante che la maggior parte delle loro innovazioni sono state RUBATE agli scemi occidentali che impiegano i loro studenti/spie nei loro laboratori delle università o delle industrie private. Se vuole mettere su una fabbrica in Cina, allettato dal miliardo e mezzo di consumatori, la prima cosa che gli chiedono è di trasferirgli il know how e, a volte, l’intera tecnologia. Se non siete d’accordo, alla prima occasione ve la RUBANO, come è successo al treno a levitazione magnetica Transrapid tedesco. (non è esatto, il treno venne venduto con la sua tecnologia. ndr) Trasferire tecnologia a Paesi che possono produrre beni ad un decimo del costo europeo o americano significa suicidarsi economicamente. La Cina è stata catapultata a potenza mondiale dalla politica scellerata dell’occidente malato di sindrome da suicidio (ingordigia di guadagni, ndr). Ora, con la fine del benessere in occidente, e con l’impoverimento alle porte, in Europa e negli USA, i nodi vengono al pettine».
Ma non è merito o colpa dei cinesi se gli occidentali sono scemi. Si deve aggiungere che tra gli occidentali più scemi ci sono gli italiani. Rimane il fatto che i cinesi sono un popolo che ha un governo, con una volontà e che non sono scemi e che sono in gara per la supremazia mondiale. Poi i brevetti vengono concessi dagli uffici nazionali e i cinesi se li approvano quasi tutti.
Altro intervento dal quale si evince che l’interlocutore conosce la burocrazia relativa ai brevetti ma ne ignora l’importanza. Si dichiara esperto di brevetti, ma vede solo la realtà italiana:
«Ho paura che tutti questi brevetti siano una fiera delle stupidaggini, utili per vendere nuovi prodotti poco innovativi. Già nella domanda di brevetto devi dichiarare con sei precisazioni consecutive la categoria di appartenenza di ciò che stai brevettando rispetto all’esistente. … il livello di precisione richiesto nel progetto, arriva fino al punto di renderlo eseguibile da un tecnico del settore, questo fa esplodere i disegni a decine di tavole, e di conseguenza a molte decine di pagine di descrizione, di riassunto e di rivendicazioni. Quante delle persone capaci di inventare cose nuove possono sottoporsi ad un simile sforzo, pur continuando per vivere a svolgere un altro lavoro…».
Il bisogno di un padrone
Torniamo al cuore del problema: il nostro antico bisogno di avere un padrone, un protettore. Questa è una nostra piaga storica, una piaga abbastanza solitaria nel panorama dei popoli della Terra. Il nostro atteggiamento ha origini molto antiche e non è neppure facile da spiegare. A costo di scatenare l’ira di chi chiude il suo orizzonte storico entro quegli ultimi dieci anni, debbo risalire alle situazioni che si verificarono in Italia già verso la fine dell’Impero Romano. Già negli anni centrali dell’impero Romano era sorta l’usanza per i piccoli proprietari di cedere i loro terreni ad un personaggio potente per avere in cambio protezione. Essi perdevano la proprietà e la libertà ma in cambio avevano un padrone che li proteggeva dai soprusi dello stato e delle bande di fuorilegge in giro nelle campagne. E pensare che spesso quelli che si consegnavano ad un padrone erano figli o nipoti di valorosi soldati reduci dalle guerre che quei terreni avevano avuto in premio del loro valore sui campi di battaglia. Ma guardiamo gli anni della fine dell’impero. Sono gli anni in cui Attila si aggirava per l’Europa, seminando stragi e rovine. Ezio, un generale romano originario della Mesia inferiore (Bulgaria) riuscì a battere Attila ai campi catalaunici (vicino a Châlons-en-Champagne) grazie ad una coalizione tra popoli europei più o meno romanizzati. Quando tornò a Roma ciò che restava della classe dirigente decise di eliminarlo, riuscendo nell’intento qualche anno dopo. In quell’epoca fu tutto un susseguirsi di faide, di nostalgie per la passata grandezza nella totale incapacità di difendersi. Venne elaborato il concetto di sottomissione verso chi entrava in Italia, anche solo con una minima forza militare. Si creò la sindrome da fine dell’impero. Si creò il rifiuto di ogni forma di difesa. Il mestiere delle armi era disdicevole. Basta ricordare mille anni dopo cosa disse il padre di Benvenuto Cellini al figlio, quando questi tornò da Roma su una bel cavallo, con una scorta e con la possibilità di intraprendere la carriera militare. Infatti Cellini era reduce dalle prodezze compiute dagli spalti Castel Sant’Angelo, durante il sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi. Il padre di Cellini disse che il mestiere delle armi era lo stesso che fare il servo. Possiamo dire che questo pensiero, a parte qualche eccezione, sopravvisse sino alla scossa portata dalle idee della Rivoluzione francese e dalle armate di Napoleone. Solo dopo nacque l’idea di una nazione italiana indipendente a cui molti italiani dedicarono le opere e la vita. Con la fine del fascismo e la sconfitta militare l’idea di patria si eclissò. I partiti politici si impegnarono nella nobile gara per trovare il padrone che fosse più congeniale. Peggio che all’epoca dei guelfi e dei ghibellini.
Oggi per gli italiani l’Unione Europea è il nuovo padrone a cui si applica quanto scritto dall’ interlocutore che ho citato all’inizio. Questo andrebbe sempre posto come premessa quando in Italia iniziamo a parlare di politica. Infatti abbiamo un grande partito che, per bocca del suo segretario, annuncia di essere disponibile, senza pentimento alcuno e senza neppure mostrare imbarazzo, a rinunciare ad altre quote di sovranità dell’Italia. Il ridicolo è che l’Italia la sovranità non ce l’ha più. Basta guardare la carta delle basi militari USA e NATO dislocate in Italia (3). Poi queste basi non sono una novità, hanno precedenti storici: come le basi spagnole in Italia (4) a partire dalla metà del XVI secolo, o come le fortificazioni austriache nel veneto dopo le guerre napoleoniche.
Quindi niente di nuovo. Non ci accorgiamo che non abbiamo più nessuna sovranità da cedere. Siccome è impossibile andare oltre il cento per cento, non è difficile vedere che con altre cessioni si entra nel regno del ridicolo. Strano che come ex comunista quel segretario abbia dimenticato la lunga campagna combattuta dalla sinistra italica contro le basi Nato ed USA in Italia. Quella battaglia politica venne condotta non certo per desiderio di indipendenza, ma per non indebolire le nazioni del Blocco di Varsavia, quindi sempre per servilismo verso un futuro agognato padrone. La battaglia si concluse con una sconfitta completa, tradotta in un numero incredibile di basi americane in Italia.
Le dichiarazioni di quel segretario, Bersani, potrebbero rientrare nelle tante parole al vento che i politici pronunciano durante le campagne elettorali, campagne che nel nostro felice paese si prolungano all’infinito, diventando le principale attività dei nostri politici. Gli italiani poi si appassionano a queste sceneggiate, tant’è che esse confluiscono in quell’ amore per il teatro, proprio dei popoli mediterranei. Purtroppo quel politico è erede di un pensiero che nel dopoguerra esordì dichiarando il suo irrefrenabile desiderio di avere l’armata rossa in Italia, un pensiero che applaudì l’occupazione dell’Istria da parte del maresciallo Tito, augurandosi che questi avrebbe ben educato gli italiani rimasti ad essere buoni comunisti. L’indefettibile attuale inquilino del Quirinale plaudì alla repressione della rivolta ungherese, salvo poi pentirsene quando il suo partito subì un’emorragia di consensi. In tempi più recenti gli eredi di quel partito, diluiti in una vasta costellazione di sinistra, hanno prima trasferito la loro offerta di sudditanza all’unica grande potenza rimasta: gli Stati Uniti. Poi, visto che questi non dimostravano un sufficiente interesse a ricevere le nostre manifestazioni di spontanea servile amicizia, hanno cercato altri padroni più a portata di mano come la Comunità Europea ed infine la Germania, che della Comunità è diventata il dominus.
Torniamo alle patetiche dichiarazione di Bersani sull’ulteriore rinuncia ad altre quote di sovranità. Quello che riesce difficile da capire è come si concilia questa generosa intenzione con il fatto che il nuove padrone (la Germania) ha già reso noto che vorrà metter il becco in tutti i nostri bilanci, compresi immagino i rimborsi ai partiti per le spese elettorali, generosi rimborsi che per i politicanti oggi sono una vera manna in questi tempi di crisi. Tanto più che si è verificato un inatteso scontro interno alla sinistra con l’ala moderata, quella capeggiata dal sin troppo simpatico Matteo Renzi, che ha chiesto di rinunciare a quel finanziamento pubblico. Bersani ha replicato che quei soldi sarebbero il pane della democrazia perché consentirebbero anche ai poveri di percorrere una carriera politica. Queste dichiarazioni di rinuncia di sovranità sono musica per le orecchie di chi cerca lavoratori da sfruttare.
Qualche dubbio sul reale atteggiamento del vertice della BCE
I meccanismi messi in atto per ridurre l’Italia ad una colonia probabilmente mostrano qualche crepa e qualche incongruenza. Un esempio potrebbero essere i rapporti tra Draghi ed i governi europei, rapporti che non sono del tutto chiari e riconducibili ad un ruolo perverso sostenuto solo da Draghi e dai suoi accoliti: banchieri e speculatori finanziari. Si tratta molto semplicemente della spartizione del bottino: ovvero della colonizzazione di Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. Il 15 novembre 2012, durante l’inaugurazione dell’anno accademico 2012-2013 dell’Università Bocconi, alla presenza del presidente del Consiglio Mario Monti, Draghi ha pubblicamente sconfessato la politica fiscale messa in atto da molti governi europei a cominciare dall’Italia. In questa occasione non ha usato un linguaggio ermetico, comprensibile solo agli iniziati, ma si è espresso con estrema chiarezza. Egli è partito da una esigenza inderogabile e la cui necessità non è stata dimostrata: il consolidamento del bilancio, cioè spendere senza fare debiti come obbligo tassativo per tutti i governi dei paesi della Comunità Europea. Questo obbiettivo è voluto dalla Germania perché essa ha accreditato la necessità di avere una moneta forte per mascherare la sua paura della svalutazione. Ma questa è una favoletta messa in circolazione per far dire agli europei: ecco abbiamo speso troppo, adesso è ora di risparmiare. In realtà questa politica innesca una spirale perversa: aumento delle tasse, riduzione dei consumi, deindustrializzazione, riduzione delle entrate fiscali, paralisi finale con crisi totale del sistema. Poi la moneta forte cancella la produzione industriale dei Paesi più deboli. Alla fine la salvezza: ci saranno i campi di lavoro in tutta Europa gestiti direttamente dalle industrie tedesche in veste di graziose benefattrici. Draghi non dimostra la necessità di raggiungere il pareggio di bilancio, ma almeno ha l’accortezza di dire: non esageriamo, niente aumento di tasse ma solo riduzione delle spese inutili. Ecco il nucleo del suo discorso:
«Tutti i governi dei Paesi più deboli rispondono con politiche di consolidamento di bilancio, all’inizio esitanti, poi sempre più energiche. Ma l’attività economica continua a indebolirsi e gli spread continuano a crescere. Il che pone l’accento sulla forma che deve avere il consolidamento fiscale “ideale”, cioè quello che riduce il deficit e il debito con le minori conseguenze negative sul prodotto di un paese. L’evidenza prevalente indica che esso deve essere centrato su riduzioni di spesa corrente e non su aumenti di tasse. Anche chi non condivide questa impostazione è però d’accordo sul fatto che è essenziale che il processo sia percepito come credibile, irreversibile e strutturale perché abbia effetto sugli spread sovrani e che le condizioni di stabilità dei prezzi e dei mercati finanziari siano tali da non ostacolare il consolidamento fiscale. In risposta all’aggravarsi delle condizioni economiche, la BCE ha abbassato i tassi di interesse di riferimento. In circostanze normali, tali riduzioni sarebbero state trasmesse in maniera relativamente uniforme a famiglie e imprese di tutta l’area dell’euro. Ma non è quanto abbiamo riscontrato. In alcuni paesi, le riduzioni dei tassi sono state trasmesse integralmente. In altri, i tassi sui prestiti bancari all’economia reale sono diminuiti solo di poco o addirittura per nulla. E in altri ancora, sono di fatto aumentati, almeno in qualche caso. … il problema cruciale risiedeva nel “quartetto inconciliabile”, ossia tassi di cambio fissi, libero scambio, mobilità dei capitali e politiche monetarie nazionali. La soluzione è stata trovata nella moneta unica. Oggi vediamo che questa soluzione è incompleta. La crisi ha messo in luce la necessità di portare a compimento l’Unione economica e monetaria. Insieme ai presidenti del Consiglio europeo, della Commissione europea e dell’Eurogruppo, abbiamo individuato quattro pilastri su cui edificare un’Europa stabile e prospera: un’ unione bancaria con un’unica autorità di vigilanza; un’unione fiscale in grado di prevenire e correggere bilanci non sostenibili; un’unione economica in grado di garantire una competitività atta a favorire un’occupazione elevata e, infine, un’unione politica in grado di coinvolgere profondamente i cittadini dell’area dell’euro».
Già l’unione politica, che è buona ultima, infatti la Germania, insieme ai suoi satelliti, l’ unica cosa che certamente non vuole è l’unione politica, dove i paesi cicala avrebbero più peso dei nordici virtuosi. Quindi tutte la fasi precedenti, se non si attua l’ultima, sono una mostruosità. La Germania ci dica perché non permette il controllo delle sue banche regionali, ci dica come ha sistemato le industrie della DDR, come ha ripianato i disavanzi vendendo armi a paesi belligeranti all’insaputa delle autorità di Bruxelles. (convogli ferroviari notturni che sono transitati per il Brennero, via Trieste, poi in Slovenia e Dalmazia sino alla Croazia). Infine appare inspiegabile che le parole di critica di Draghi verso la politica economica di Monti non siano state riprese durante la campagna elettorale per trovare un appoggio alle critiche contro questo ultimo anno di governo fantoccio, voluto da Napolitano su pressione della Germania, ansiosa di ripianare i debiti delle sue banche, già compromesse con il prevedibile crollo della Grecia e della Spagna. Quello di Monti è stato un governo che ha attuato una politica economica distruttiva, mentre veniva accreditato come autore di provvedimenti salvifici.
Da Arlecchino servitore di due padroni a Fantozzi dei giorni nostri
Il desiderio di avere almeno un padrone è in Italia molto antico e si è rinnovato nel dopoguerra, quando si è manifestato anche nel teatro. Arlecchino venne riesumato da Giorgio Strehler (Trieste, 1921 – Lugano, 1997) sin dal 1947, quando in Italia stava terminando l’occupazione militare degli alleati. Arlecchino servitore di due padroni fu uno spettacolo di successo del Piccolo Teatro di Milano, ma pochi si accorsero che era anche la dichiarazione di un programma politico. Lo spettacolo rappresentò la rinuncia definitiva degli italiani a ricostruire una grande nazione come eravamo prima della guerra. L’Arlecchino del 1700, nato in una Venezia ancora indipendente, derivato da Truffaldino, un simpatico imbroglione, tornò attuale perché rappresentò l’Italia tra i due blocchi durante la guerra fredda. Arrivammo poi agli anni del suicidio sociale del ’68, con la contestazione, la rivolta giovanile che, nel proseguire, con la negazione della meritocrazia, distrusse il futuro di tutti gli italiani. Dopo qualche decennio Arlecchino uscì di scena, tornò nella cultura e nella storia. Il suo ruolo passò a Fantozzi, un imbroglioncello incapace e sfortunatissimo. Fantozzi, un nuovo Arlecchino più grossolano, diventa così il rappresentante triste di un’Italia che sa solo sghignazzare e non si è ancora accorta che non può più neppure ridere. Per semplificare si può dire che il primo Arlecchino fa ridere e solleva lo spirito, il secondo non fa ridere, ed anzi comunica un senso di angoscia, che la gente scambia per umorismo, anche se un po’ greve, sino a diventare macabro. Tuttavia alla gente piace, anzi piace moltissimo perché così può comunque apparire, riconoscersi appena un po’ migliore di quel personaggio che diventa una specie di capro espiatorio, che si sobbarca tutte le amarezze e le frustrazioni di ogni giorno. Quindi Fantozzi come antieroe, oppure eroe negativo, diventa il simbolo acclamato di questo ultimo mezzo secolo di storia italiana.
Il primo personaggio: Arlecchino, risale agli anni (il 1745) in cui gli italiani stavano vivendo una lunga stagione di sudditanza, indifferenti all’alternanza dei padroni che certamente li angariavano, ma li salvavano anche dalla loro atavica distruttiva rissosità intestina.
Il secondo, ovvero Fantozzi, è stato il simbolo dell’uomo che vive l’angoscia della privazione di un padrone stabile a cui votarsi e servire trovando in lui una ragione per vivere. Non per nulla Fantozzi si colloca nel solco di un pensiero di sinistra, una sinistra senza speranze, molto amara, una specie di anticamera per una quasi rassegnata eutanasia sociale. Il passaggio della popolarità da Arlecchino a Fantozzi avviene per sovrapposizione. Mentre Arlecchino, riesumato da Streleher, che ne fece il suo cavallo di battaglia, domina ancora le scene, Fantozzi nasce spontaneamente dalla mente del giovane Paolo Villaggio e si impone anche contro la volontà dell’autore. Arlecchino è all’inizio di una nuova era, Fantozzi declama e descrive la fine di un ciclo storico, la scomparsa della nazione, con la scomparsa di tutti i valori che erano sorti con lei.
La Regione Friuli Venezia Giulia aveva valutato l’ipotesi di querelare Paolo Villaggio per alcuni passaggi del suo ultimo libro, “Mi dichi – Prontuario comico della lingua italiana”. La decisione sulla querela – come riportato da alcuni giornali locali – doveva essere presa dalla giunta regionale. Nel libro Villaggio scrive che “gli altoatesini parlano e scrivono per dispetto solo in tedesco, e i friulani, che per motivi alcolici non sono mai riusciti a esprimersi in italiano, parlano ancora una lingua fossile impressionante, hanno un alito come se al mattino avessero bevuto una tazza di merda e l’abitudine di ruttare violentemente”. L’ex presidente della Regione, Renzo Tondo (Pdl), aveva dichiarato che quanto scritto da Villaggio è “volgare, offensivo e segno del decadimento dei tempi”. Non sappiamo che cosa dirà il neoeletto presidente: Debora Serracchiani, eletto da una costellazione di sinistra.
Mussolini e Hitler
Mussolini ebbe un senso di spontanea, anche se sofferta, sudditanza verso Hitler. Questa è una inconsueta chiave di lettura dei fatti storici che ne sono derivati. Dopo gli entusiasmi risorgimentali, questa fu la prima manifestazione di servilismo, peraltro non richiesto. Fu il primo risorgere di un servilismo spontaneo, di matrice popolare, neppure percepito come tale. Fu un servilismo che scaturì dall’inconscio, un servilismo che trovò opposizione anche all’interno del partito fascista, nelle alte gerarchie e nella base. Tra questi oppositori per primo ci fu Cesare Balbo, che venne rimosso dal Ministero dell’Aeronautica per essere inviato come governatore in Libia.
Questa convinzione nasce non solo dai documenti ma dall’espressione della faccia di Mussolini, fotografato insieme a Hitler. Mussolini non fu in grado di gestire quella alleanza senza poi genuflettersi. Altri capi di Stato si inchinarono sotto la pressione delle armi tedesche, ma Mussolini si inchinò per sua scelta; fu il primo a tradire lo spirito di indipendenza degli italiani spinto da un inconscio istinto servile. Con il patto d’acciaio, che Ciano osteggiò, si realizzò di fatto la prima vera cessione di sovranità, che ora la Merkel torna a chiederci espressamente e spudoratamente. Mentre Hitler, che certamente non era solito dispensare sentimenti generosi, ebbe per Mussolini vera amicizia, questi lo ricambiò con la soggezione, il sospetto e la diffidenza, che un servo ha verso il padrone, sperando di trarre profitto dall’appoggio della Germania, quando si rese conto che questa in pochi anni era tornata ad avere una potente industria
A questo passo fu costretto quando con la sceneggiata della guerra d’Abissinia si era inimicate la Francia e l’Inghilterra, andando a ledere i loro interessi coloniali senza disporre di una potenza navale ed aerea tale da incutere timore e rispetto. In ossequio all’ odio contro gli ebrei scatenato dal nazismo, Mussolini promulgò le leggi razziali in un paese come l’Italia, che annoverava un numero imprecisabile di popolazioni di diversa origine. Si dimenticò che la politica di successo attuata dal fascismo verso l’industria e verso la società era stata dettata dall’ebrea Sarfatti, insieme alle banche in cui le lobby ebraiche avevano un certo peso. Cercò di porre rimedio creando la categoria degli ebrei ante marcia, gli ebrei che erano fascisti prima della marcia su Roma, quella marcia che Mussolini fece in vagone letto. L’atteggiamento di deferenza fino al servilismo verso il nazismo e verso la Germania non fu condiviso dalla maggior parte dei fascisti. Ma Mussolini fu ipnotizzato dalla figura demoniaca di Hitler. Alla fine l’Italia contribuì alla sconfitta della Germania invischiandola nei Balcani e nell’Africa del nord. La neutrale Svezia invece fu di grande aiuto per la macchina bellica tedesca, come in parte lo fu la neutralissima Svizzera. Per non parlare della Francia, che entrò nel sistema produttivo dell’industria tedesca ricavandone vantaggi concreti. Se la Francia ha oggi un’industria aeronautica lo deve al governo di Vichy che acconsentì alla collaborazione tra industria francese e industria aeronautica tedesca.
Nella storia le cose spesso si snodano con continuità, anche se si tratta di capitoli molto diversi. Scomparso Mussolini, persa la guerra e patito il passaggio del fronte e i bombardamenti terroristici, ci fu lo sfaldamento dell’esercito con il: “tutti a casa”. A questo punto ci fu l’inizio della fine dell’Italia risorgimentale. Tutti i valori costruiti dal Risorgimento cominciarono a scomparire e la deriva continua ancora, con il nostro regresso nella storia. Attualmente siamo forse tornati a metà del ’600. Ebbe inizio una gara al servilismo a cominciare da quello dei comunisti verso l’Unione Sovietica di Stalin. In conseguenza ci fu un servilismo, forse meno marcato, della Democrazia Cristiana verso gli Stati Uniti. La devozione di Togliatti verso il comunismo sovietico raggiunse livelli che nessun capo comunista occidentale ha saputo eguagliare. Non sono molto diverse dalle parole di Togliatti quelle che Bersani ha calorosamente rivolto alla Merkel. Si deve ricordare che in Francia i comunisti francesi non dimostrarono mai servilismo verso l’URSS e votarono a favore della creazione di un armamento nucleare francese.
Fare i servi ha un costo: la strage del Cermis
Al lettore, che con accenti lirici ha esaltato il nostro ruolo di servi, sarà bene ricordare che la condizione di servo alla fine ha un costo che può essere molto alto, un costo che non può essere mitigato dalla furberia di Arlecchino o dalla pietà ispirata da Fantozzi per le sue iperboliche disgrazie. Ci sono anche state tragedie come la strage della funivia del Cermis, quando un aereo americano della vicina base di Aviano tranciò il cavo principale della funivia. I morti furono venti, di diverse nazioni europee.
Negli anni le violazione delle regole che disciplinano i voli degli aerei di stanza nella base di Aviano erano state molte, ma le autorità italiane non erano mai intervenute sul comando americano della base. Il giorno 3 febbraio ’98 alle ore 14.13 un velivolo, Grumman EA-6B Prowler del Corpo dei Marines degli Usa, di stanza nella base di Aviano, per proteggere la Bosnia, colpiva i cavi della funivia che dall’abitato di Cavalese porta al monte Cermis e che in quel punto si trovavano ad un’altezza da fondo valle tra i 100 ed i 130 metri. Il velivolo tranciò i cavi della funivia a circa 50 metri di distanza dalla cabina, che precipitò al suolo e le venti persone trasportate persero la vita. Il tragico evento non fu una fatalità, ma come le indagini successive dimostrarono, fu la conseguenza di una serie di atti omissivi e trasgressivi da parte dei piloti e delle autorità militari americani della base di Aviano, oltre che delle autorità italiane, che non dettero seguito alle denunce della gente del luogo.
L’aereo non apparteneva alla NATO, quindi non era coperto da un trattato internazionale. Tuttavia i militari americani che causarono la strage non furono processati dalle autorità italiane ma da quelle americane. La corte americana riconobbe il maggiore imputato, il pilota capitano Ashby, colpevole non di omicidio colposo bensì solo di reati minori.
Gli accordi relativi agli aerei destinati alle operazioni in Bosnia prevedevano il divieto di voli a bassa quota, anche perché le operazioni in Bosnia si svolgevano sempre ad alte quote. Le indagini della Procura di Trento accertarono, in ritardo, che erano stati compiuti numerosi analoghi precedenti voli a bassissima quota, suscitando le proteste della popolazione. Gli inquirenti ritennero che la catena di comando fosse a conoscenza delle consuete violazioni operate dai piloti e che fosse abituata a tollerarle. La presenza a bordo di apparecchi fotografici suggeriva al PM una possibile chiave di lettura dell’atteggiamento dell’ equipaggio, che evidentemente poteva aver deliberatamente volato a bassa quota per filmare e fotografare gli esiti della “bravata”. Si trattava di una sorta di diritto al saccheggio nelle zone occupate. Nel gennaio 2012 questa verità verrà confermata da una confessione pubblica messa in onda da Sky.
Nel 1999 la giuria assolse Ashby, provocando l’indignazione dell’opinione pubblica italiana ed europea. D’Alema, durante una visita negli Usa, ai giornalisti che gli chiedevano un giudizio sulla decisione della Corte militare statunitense, rispose: “Non commento una sentenza in Italia, figuriamoci negli Stati Uniti" (salvo poi, resosi conto della gaffe, definire la sentenza “sconcertante"). Nelle carceri degli Stati Uniti avevamo una certa Baraldini che era stata un’ attivista di primo piano in favore dei movimenti politici radicali, prendendo parte anche ad azioni di rivolta armata. Stranamente dopo quella sentenza Silvia Baraldini, condannata nel 1983 a una pena cumulativa di 43 anni di carcere per concorso in evasione, associazione sovversiva, due tentate rapine e ingiuria al tribunale, venne estradata in Italia. La Baraldini dagli anni sessanta agli anni ottanta aveva fatto parte del Partito delle Pantere nere negli Stati Uniti. In Italia la sua causa ebbe il sostegno dei partiti di sinistra, che ottennero la sua estradizione in Italia nel 1999, con il sospetto che la sua liberazione fosse stato il risultato di uno scambio con la rinuncia dell’Italia a perseguire le responsabilità della Strage del Cermis. Dopo alcuni anni di arresti domiciliari la Baraldini è stata scarcerata nel 2006 per effetto dell’indulto. Quindi anche in questo caso sembra che abbia ragione chi scrisse: il padrone è un padrone e basta. Al massimo si può mercanteggiare cedendo sempre quote di sovranità.
Ma alla fine per vivere bisogna pur lavorare
E proprio a questo pare che pensi Martin Schulz, il noto presidente del parlamento europeo – quello a cui Berlusconi, nel 2003, diede del kapò, suscitando una tempesta diplomatica. Ora Schulz, la cui cultura pare sia nata vendendo libri, ha proposto la creazione di «Zone Economiche Speciali» in Grecia, ossia zone franche attrattive per investitori stranieri a cui si offrono agevolazioni fiscali o esenzioni totali, regimi doganali favorevoli, soprattutto lavoro a basso costo e massima «flessibilità». E poi si dice che i tedeschi non hanno fantasia! Forse sono un poco ripetitivi. Qualche cosa di simile non era già successo sotto il terzo reich?
D’altronde, avendo chiuse le ditte, avendo disperso le loro conoscenze tecniche, all’Italia, alla Spagna, ed agli altri paesi per riprendersi non è certo sufficiente che le condizioni al contorno come il fido delle banche, la pressione fiscale, il costo dell’energia siano migliorate. Per chiudere un’industria bastano condizioni avverse che durino pochi mesi, per riaprirle ci vogliono anni e programmi di incentivi e di sostegno che nell’Europa liberista sono proibiti. Proibiti certamente all’Italia, sempre prontissima ad ubbidire ai desideri della Commissione europea. L’unica risposta purtroppo sono le zone sottratte al governo locale, sottoposte alle regole della UE, col potere d’imporre riforme allo Stato (non basta infatti che il salario greco sia stato già tagliato da 751 a 586 euro mensili lordi); zone che Schulz chiama orwellianamente «agenzie di crescita». Zone in cui le conoscenze tecniche rimangono saldamente nelle mani delle ditte, prevalentemente tedesche, che hanno aperto le loro succursali. Il ministro dell’Economia tedesco Philipp Roesler s’è subito unito alla proposta, raccomandando al governo greco di rivolgersi alla Commissione per la rapida attuazione di queste zone economiche speciali.
Ma Schulz fa più effetto, perché è un esponente di spicco del Partito socialdemocratico tedesco (SPD), e membro importante dell’Internazionale Socialista: quella che unisce il francese Hollande, il greco Papandreu, e il nostro Bersani con tutto il PD. Se queste sono le «sinistre» europeiste, se questo è il loro programma, dopotutto, a malincuore, bisogna ammettere che Berlusconi aveva indovinato a chiamare Schulz un kapò.
Le zone franche hanno dato ottima prova in Cina, dove però esiste un progetto per il futuro del paese ed esiste un governo, che persegue quel progetto, un governo che impedisce il dominio economico estero perché la moneta cinese non è esportabile e non può essere cambiata direttamente in valute straniere e tanto meno il contrario. Esiste poi un programma di acquisizione delle tecnologie e di sostegno alle ditte che intendono applicarle. Quindi non è possibile stabilire in Cina un dominio economico, sia pure locale, come invece si verificherebbe nei paesi dell’euro, privi di fatto di un governo nazionale. I cinesi con 1.8 euro l’ora (mentre i tedeschi prendono 30.1 euro l’ora, in Italia è 26,8 ) riescono a nutrirsi perché il costo reale della vita in Cina non è neppure paragonabile a quello in Germania. In realtà la moneta cinese è largamente sottovalutata negli scambi con l’estero.
Ma intanto cosa facciamo?
L’articolo di Bondet: La Casta: Germania, pagaci tu! (15 Gugno 2012) è ricco di spunti con annesso qualche dato statistico:
In Italia, i 3,5 milioni di dipendenti pubblici costano 172 miliardi, l’11% del PIL; in Germania costano l’8% del PIL. La Lombardia ha 43 dipendenti pubblici per mille abitanti; le altre Regioni ne hanno 58. Basterebbe adeguarsi a questa percentuale per rendere superflui 700 mila addetti del settore pubblico. Un risparmio di 45 miliardi. …. Adottiamo il «costo standard» anche per la presidenza della repubblica: se il Quirinale riducesse i suoi 228 milioni di spese annue a 100, prenderebbe sempre di più della presidenza della Repubblica Federale Tedesca. Nessuna riforma reale sembra possibile, una riforma di quelle che potrebbero convincere Berlino a garantire il nostro debito pubblico (e i mercati a comprarlo con tassi decenti), è possibile da noi.
Osservo che Berlino non vuole essere convinto. Va bene così, aspetta che il frutto cada dall’albero. Poi lo raccoglierà e ci metterà a lavorare alle sue condizioni.
Dice Blondet:
Per questo non ci resta che uscire dall’euro. Non possiamo stare in un sistema monetario tedesco restando irriformati italiani, coi nostri milioni di percettori di sussidio pubblico, ed altri milioni che vi aspirano. Meglio tornare alla liretta, alle svalutazioni competitive, e magari contestualmente – cialtroni fino in fondo – ripudiare il debito sovrano. È il solo modo. Risparmiamoci i rimproveri alla Germania «egoista», la Germania che non si sente legata a un comune destino con noi e i greci. Non prima di domandarci: l’Italia, poi, è una comunità di destino?
Ma la domanda è inutile, anzi è antistorica. Non possiamo cancellare quasi 1600 anni di storia alle nostre spalle, dopo aver appena sotterrato il Risorgimento, che ci aveva dato un effimero momento di indipendenza. Non possiamo uscire dall’euro perché abbiamo paura di essere indipendenti, paura di non avere un potere che ci governa e che magari ci sfrutta. Non possiamo fare niente, perché i nostri giovani continuano a cercare la fuga nella droga, perché non sono più capaci di riflettere e di agire di conseguenza, perché sanno solo ridacchiare, pieni di complessi, pieni di paure. Perché i pochi giovani che hanno forza e coraggio preferiscono andarsene, dimenticando di essere nati italiani, tornando in Italia come stranieri, come turisti, essendosi liberati dal nostro inestinguibile bisogno di protezione.
Perché il padrone che sia nuovo o vecchio è il padrone. Il padrone è padrone e basta. Non esiste il padrone buono od il padrone cattivo, esiste il padrone. Ci aspettano i campi di lavoro che il kapò Schulz ci sta preparando. E alla fine saremo contenti di lavorare con paghe cinesi affinché le industrie tedesche possano esportare anche in Cina.
E pensare che abbiamo creduto che la colpa di tutto fosse di Berlusconi, il Masaniello di turno, il Mussolini che le folle prima osannavano e poi appesero a piazza Loreto. Il tragico è che la stirpe dei parassiti, che oggi ci succhia il sangue, domani si metterà al servizio dei tedeschi e sarà lo strumento del loro dominio su di noi. Si ricicleranno come aguzzini, come intermediari, perché saranno abilissimi nel compiacere il volere del nuovo padrone e nel continuare a succhiarci il sangue.
Conclusione
È vero, noi abbiamo bisogno di un padrone, meglio ancora se sono due, come è stato dal ’45 sino alla caduta del muro di Berlino. Il sassolino nella scarpa non me lo sono potuto togliere. Ma avere un padrone ha sempre avuto delle conseguenze, alcune molto spiacevoli e sarebbe delittuoso nasconderle. Noi che eravamo Arlecchino adesso siamo Fantozzi e ci mascheriamo da cittadini europei. Aveva ragione il mio augusto concittadino Gioacchino Rossini: l’unità d’Italia è stato un assurdo, un errore. Ma se torniamo al XVII secolo almeno recuperiamo l’arte, almeno decidiamoci a cacciare i Fuksas, gli informali, gli astratti e tutta la sequela di falsi artisti. Almeno questo la possiamo fare, spero che Bruxelles non potrà impedircelo. Oppure si?
Prof. Raffaele Giovanelli
Brendan Simms
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1) Brendan Simms, Professore di Storia delle Relazioni Internazionali, conferenziere, scrittore, insegnante. Particolarmente studioso della storia dell’Europa centrale durante il periodo napoleonico, dei rapporti anglo-germanici dopo l’unificazione, dei recenti conflitti in Bosnia e nel Kosovo. Simms iniziò con la tesi di dottorato: Le relazioni Anglo-Prussiane, 1804-1806: Il Trattato Napoleonico, con la guida del Prof. Tim Blanning nel 1993. Ha scritto: Distruzione della Bosnia (2001), Tre vittorie ed una sconfitta: l’ascesa e la caduta del primo impero Britannico, 1714-1783 (2007) 2) Il disastro di una nazione. saccheggio dell’italia e globalizzazione, di Antonio Venier, 2001, Edizioni Ar. Dalla recensione di Salvatore Verde, in Margini n. 33, gennaio 2001. È totale il silenzio dei grandi economisti di questo paese su un tema di fondamentale importanza qual è quello della sottrazione del settore pubblico (e di buona parte di quello privato) dalle mani degli italiani. Le teorie che i vari Adam Smith e David Ricardo crearono nel XVIII secolo avevano in realtà lo scopo di permettere all’industria inglese di dominare il mondo e impedire l’industrializzazione tanto dell’ Europa continentale quanto dei neonati Stati Uniti d’America. Queste teorie sono state riesumate ed applicate contro paesi come l’Italia. Con il crollo dell’Unione Sovietica, venne a crearsi il clima adatto per l’inevitabile resa a discrezione della classe politica, sulle basi gettate dalla ’scuola’ monetarista di Milton Friedman e da tutti i ragionieri-economisti allevati nelle varie banche centrali di emissione, BRI, Banca Mondiale, oltre che nel FMI e nel GATT (tutte istituzioni agli ordini delle varie Lazard Bros, Lehman Bros, Goldman & Sachs, First Boston, Warburg & Co., Hong Kong ¦ Shanghai B. Corp., Rothschild etc., con contorno di Deutsche Bank, Parisbas, UBS, Mediobanca etc.), se questo era (e lo era) il prezzo da pagare per avere appoggio e benevolenza dal potere politico occidentale. Un prezzo che essa ha puntualmente pagato, o meglio, che ha pagato il popolo che bovinamente le aveva affidato il proprio avvenire. Si è tanto parlato, a proposito dell’industria di Stato, di “carrozzoni” di cui l’IRI rappresentava l’esempio maggiore. Nessuno discute la necessità di risanare quel pozzo senza fondo, in cui si scorgeva una gestione catastrofica sopra tutto di Finsider e Finmare. Ma una cosa è il risanamento, ben altra cosa, invece, è la liquidazione; Era possibile risanare? Era certamente possibile perché poi a conti fatti è stato dimostrato che, nonostante il pedaggio pagato ai partiti politici, i bilanci complessivi dell’IRI hanno chiuso in pareggio, come ha dimostrato Massimo Pini nel suo testo: “I giorni dell’IRI, Storie e misfatti da Beneduce a Prodi” , 2000, Mondadori. Riguardo all’Italsider, se si tiene conto che i deficit erano causati sopra tutto da gravosissimi oneri bancari, da approvvigionamenti a prezzi eccessivi e dalla pletora di mano d’opera, la risposta deve essere affermativa: certo: era possibile risanare. Per azzerare gli oneri bancari, sarebbe stato sufficiente fornire alla gestione i mezzi necessari al normale funzionamento, a interesse zero. Eventualmente -come già si usava praticare nei confronti degli Enti Locali- tramite la Cassa Depositi e Prestiti, dato che la grande liquidità (proveniente dal risparmio postale) di quest’ultima lo avrebbe facilmente consentito. Per ridurre fino al 50% gli oneri del personale, sarebbe bastato attrezzare con le ultime applicazioni tecnologiche gli impianti, nonché eliminare le assunzioni clientelari e le assurde remore interne imposte da sindacati. Per approvvigionarsi a prezzi di mercato, sarebbe stato opportuno operare mediante aste trasparenti, anziché agire sulla base di tangenti. Inoltre si sarebbe dovuto, da una parte, puntare maggiormente sui nuovi processi di produzione; dall’altra, diversificare ulteriormente le fonti. (Giappone docet). Anche per quel che riguarda il gruppo Finmare la risposta non può che essere affermativa. Per riportare ordine nei suoi conti sarebbe bastato -in difetto di idee originali- copiare il “know how” e la tecnologia giapponesi -e/o quella della cantieristica norvegese. In entrambi i casi (Finsider e Finmare), una immediata messa in disponibilità dei fondi di dotazione avrebbe fatto risparmiare -con o senza il ricorso alla Cassa Depositi e Prestiti- migliaia di miliardi di Lire di interessi passivi. Il medesimo discorso vale, mutatis mutandis, per le altre imprese del Gruppo IRI. A quel punto, ovvero a risanamento ottenuto, si sarebbe anche potuto vendere -però, a imprese o a consorzi italiani (o a maggioranza nazionale), con notevoli ricavi per l’Erario e, quindi, per il contribuente, mantenendo così in Italia la “cabina di pilotaggio”. Ma tant’è… Attraverso Mario Sarcinelli (noto per non essersi mai opposto, nella sua qualità di vicepresidente della Banca europea di ricostruzione e sviluppo, alle follie del suo infausto presidente Jacques Attali.), Bankitalia aveva evidentemente già promesso (nei primi anni ’90, a bordo del panfilo reale “Britannia”?) agli uomini della Finanza internazionale la svendita del patrimonio degli Enti di Stato italiani. Nel saggio vengono riassunti alcuni aspetti del disastro dell’industria italiana. Certo, sarà vano attendersi un testo siffatto possa influire su uomini come Romano Prodi che, dopo aver rappresentato in Italia gli interessi della “Goldman & Sachs”, è stato nominato presidente dello stesso IRI: con quei risultati -a suo dire- “straordinari”, che tuttavia non impedirono la liquidazione del Gruppo a condizioni catastrofiche non solo per l’erario ma anche per l’indipendenza industriale nazionale, per le maestranze, e per una miriade di professionalità che andarono perdute.. Se poi si afferma che i partiti politici non avrebbero potuto avere la forza di staccarsi dalla tentazione di attingere risorse dalle industrie di Stato, non si vede come gli stessi partiti, ancor più affamati abbiano la forza di esercitare il necessario controllo su un’industria diventata interamente privata. 3) Basi americane in Italia
Siano lecite due domande: se gli USA occupassero militarmente l’Italia potrebbero predisporre una rete di basi ancor più fitta? Seconda domanda: quali interessi americani debbono difendere queste basi? I romani disponevano basi militari per occupare territori che rendevano in tasse qualche cosa di più di quanto non costassero le truppe dislocate per occuparli. Per questo mantennero truppe in Inghilterra mentre sgomberarono i terrori dei Germani, pieni di boschi ed acquitrini e di tribù infide ed ostili. Non credo che il criterio che giustifica oggi il mantenimento di una base sia molto diverso da quello vigente presso i romani.
Lo Stato dei Presidi
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4) Basi spagnole in Italia - Lo Stato dei Presidi - In Italia, dopo la perdita dell’indipendenza dei piccoli stati fioriti durante gli anni del Rinascimento, le grandi potenze europee crearono loro basi militari. Tra queste basi la più importante e longeva fu lo “Stato dei Presidi”, un piccolo territorio di grandissima importanza strategica e militare, creato per volontà del re di Spagna Filippo II e posto sotto il governo dei viceré spagnoli di Napoli. Venne costituito da territori precedentemente appartenuti alla Repubblica di Siena. Comprese dapprima il promontorio dell’Argentario in Toscana con Orbetello, Porto Ercole e Porto Santo Stefano, con Ansedonia e Talamone e, successivamente, Porto Longone (l’attuale Porto Azzurro) nell’isola d’Elba. Dal 1707 al 1737 fu occupato dagli austriaci così come il Regno di Napoli e quindi retto dai locali viceré asburgici. Occupato nel 1733 dagli spagnoli come prodromo della conquista borbonica delle Due Sicilie, dal 1736 fu annesso al Regno di Napoli. Lo Stato dei Presìdi fu una base militare strategica che consentì di controllare e influenzare gli stati ed i mari dell’Italia Centrale. Costituito con il trattato di Londra del 1557, lo Stato dei Presidi durò fino al 1801 con quattro periodi ben distinti. Nel primo periodo che va dal 1557 al 1707, lo Stato dei Presìdi fu un possedimento della corona spagnola e fu amministrato direttamente dai viceré spagnoli di Napoli. Nel secondo periodo, dal 1707 al 1737, fu sotto la dominazione austriaca, governato dai viceré austriaci di Napoli. Nel terzo periodo, che va dal 1737 al 1800, lo stato fu annesso alle due Sicilie con Carlo di Borbone e sino a Ferdinando IV. Nell’anno dal 1800 al 1801, ci fu la dominazione francese, a seguito alla seconda conquista napoleonica dell’Italia. Successivamente lo Stato dei Presìdi il 22 novembre del 1801 venne incorporato nel Regno d’Etruria che ne mantenne il controllo fino al 1807. Con la restaurazione il suo territorio divenne parte integrante del Granducato di Toscana. Lo Stato ebbe solo governatori inviati dai governi centrali, per lo più militari, di medio rango, preoccupati solo di mantenere in efficienza le fortificazioni.
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