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La promozione dell’omo-ideologia (5)
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QUINTA PUNTATA
13) Sessualità, piacere, matrimonio: il Sessantotto come sovversione gnostica

L’attuale pressione a favore dell’omosessualità, per essere compresa, va contestualizzata in un più ampio arco di temi che occorre analizzare nel loro intimo legame. Noi ci troviamo, infatti, di fronte a un unico, possente sforzo di sovversione e distruzione della civiltà cristiana, guidato da poche, abili mani, secondo un disegno unitario che è importante ricostruire e tenere sempre presente.

Il momento più prossimo e più carico di significato a partire dal quale iniziare le nostre riflessioni è il 1968. Il Sessantotto è definibile come la più grave rivoluzione della storia in quanto alla rivoluzione religiosa di Lutero (che altera il rapporto fra uomo e Dio); alle rivoluzioni politiche del Seicento e del Settecento (che alterano e rescindono il rapporto fra lo stato e Dio, fra politica e religione); alla rivoluzione sociale e economica del 1917 (che altera e sovverte alla radice il rapporto fra soggetto, famiglia, lavoro, stato); a queste rivoluzioni -che rappresentano in realtà un unico processo- il Sessantotto si unisce come rivoluzione che sovverte l’ordine interiore del soggetto rovesciando l’alto e il basso, ponendo la sfera pulsionale, il desiderio, l’istinto come momenti normativi in grado di orientare il tutto della vita. Affetti, passioni, sentimenti, il mondo acefalo e irrazionale della pura istintualità, diventano sovrani e producono la prima non-civiltà istituzionalizzata, il primo luogo cioè in cui è impossibile educare, il primo luogo che pensa il disciplinamento della sfera pulsionale come male, come negazione dell’ordine stesso del valore.

L’esaltazione, sulla scia della tradizione psicoanalitica, della sessualità come ordine notturno della verità, cifrato e nascosto dietro la menzogna dell’ordine diurno della ragione, della volontà e della legge morale, ha prodotto nell’ultimo mezzo secolo la dissoluzione di tutte le forme tradizionali in cui si articolava, da millenni (ma, in fondo, si potrebbe dire da sempre) il rapporto dell’uomo con l’affettività e il desiderio.

Da sempre, in ogni civiltà, anche arcaica e pre-cristiana, si è saputo – di un sapere simbolico e implicito, non necessariamente consapevole, critico, «illuministico» – che la sessualità ha a che fare con la morte e con il sacro (ma potremmo anche dire con la morte, e quindi con il sacro); da sempre tutti i popoli hanno riconosciuto che l’unione sessuale dei corpi ha un’intima, essenziale, ineliminabile rilevanza religiosa, nel senso etimologico di re-ligamen, rapporto e legame, con l’ordine celeste del tutto, dell’assoluto; proprio in virtù di questa consapevolezza profondissima la sessualità non è mai stata pensata come un valore in sé: legata alla vita, al mistero del suo sorgere e del suo trasmettersi, legata al miracolo della fecondità -che esprime così profondamente e immediatamente in tutte le culture la prerogativa più evidente e immediata di Dio stesso: dare la vita- nessun atto sessuale è mai stato pensato come lecito al di fuori del matrimonio, ovvero prima di riti religiosi che istituissero e sacralizzassero l’unione fra l’uomo e la donna.

Naturalmente questo non vuol dire che non si avessero mai rapporti al di fuori del matrimonio o contro-natura, tradimenti e adulteri, ma la realtà del peccato e del disordine morale, ora più, ora meno grave a seconda delle epoche, non toglie nulla al fatto che si riconoscesse l’ordine originario del matrimonio come unico ambito in cui la sessualità ha una legittimità piena e assume un significato autentico.

Il matrimonio, e i riti religiosi che lo hanno sempre accompagnato, rappresentano una sacralizzazione dell’amore, e introducono gli sposi nell’ordine dell’eticità, dando un significato pienamente umano alla loro relazione: l’eticità del contratto matrimoniale infatti consiste nel fatto che un rapporto che sorge e si radica sul terreno del sentimento, del coinvolgimento affettivo più intimo e personale, che rinchiude, in un certo senso, nella propria individualità, viene elevato all’universalità dal riconoscimento pubblico e sociale di esso, mutando la sua natura per ciò stesso dall’ordine del semplice desiderio, all’ordine del dovere e del compito sociale. Detto altrimenti questo significa che sposandosi i due coniugi accettano che il loro rapporto si apra e si sottometta a precisi compiti sociali, sia dominato da doveri inaggirabili, primo fra tutti quello di generare ed educare i figli. Infatti «il matrimonio è per la prole» (sant’Agostino): il suo primo fine è assicurare a una società di continuare a sussistere, di durare nel tempo, di trasmettere la vita generazione dopo generazione.

La rivoluzione del Sessantotto distrugge sacrilegamente questa millenaria sapienza presentando una relazione sentimentale e affettiva come vera, come autentica proprio a condizione di prodursi al di fuori dell’istituzione matrimoniale, di sottrarsi alla legge, al riconoscimento sociale, all’investitura verso un destino che trascende i limiti dell’individualità del soggetto o della coppia e del loro desiderarsi.

A questa prima frattura fra amore e matrimonio, a questa separazione fatale fra desiderio ed eticità, si accompagna la rivoluzione della contraccezione, che proprio a partire dall’inizio degli anni Sessanta nel mondo sviluppato assume proporzioni che si possono definire di massa, con la scoperta e la diffusione, in particolare, della cosiddetta «pillola». La contraccezione introduce una dimensione contronaturale nelle relazioni fra i sessi che, anche non mettendo in gioco la dimensione morale, pur così importante, da sola rappresenta una sovversione antropologica completa: infatti non siamo più di fronte solo a una separazione sentimentalistica e artificiale fra amore e matrimonio, ma siamo di fronte a qualcosa di ancora più grave, in quanto la sessualità viene scissa artificialmente dalla procreazione, che ne è il fine naturale. La effettiva possibilità tecnica e medico-farmacologica di impedire che un atto sessuale sfoci nella generazione di un figlio, è il motore della cosiddetta «emancipazione femminile»: la verecondia e la pudicizia da virtù diventano vizi e in pochi anni i media impongono un’immagine di femminilità del tutto antitradizionale, dove alla custodia di sé viene sostituita un’immagine di donna seduttrice, sicura di sé, emancipata, che esibisce il suo corpo ed è aperta a una sessualità libera e del tutto separata dalla generazione di figli.

La distruzione dell’immagine femminile e la costruzione artificiale di una femmina emancipata e sessualmente attiva, indipendente e «in caccia», che lavora, non sta in casa, non pensa al matrimonio e si concede in modo del tutto anomico e sentimentalistico ai suoi partner, è la causa del crollo dell’immagine e dell’idea stessa di uomo tradizionale (o di quel che ne restava). La donna dipinta poco sopra è infatti l’immagine stessa della «strega», secondo la fine analisi sociologica sviluppata da Giorgio Galli nel suo «Cronwell e Afrodite». L’ordine del piacere inteso, come nella gnosi libertina, come sganciato totalmente dallo ius, dal riconoscimento sociale, dal suo incardinamento nell’ordine dei sacrifici e dei doveri legati alla famiglia, produce una vera e propria psicosi etnica, uno stato morale patologico che non può non portare alla fine di una società e, su un piano più ampio, della civiltà occidentale stessa.

Ma se ogni componente sociale ha sofferto della devastante rivoluzione sessuocentrica inaugurata dal ’68 (donne, giovani, anziani, sacerdoti,…) è indubbio che i danni maggiori li abbia subiti in generale l’identità maschile. Infatti il primato dell’ordine del piacere rappresenta uno sprofondamento in una dimensione e in un codice affettivo femmineo, inteso come simbolico di ciò che è semplicemente natura. La cosiddetta «liberazione sessuale» ha rappresentato quindi, sul piano sociale, uno spaventoso momento di regressione e di decadenza che è ben lungi dall’aver esaurito i suoi effetti.

La virilità, viceversa, l’essere uomini, rappresentano una militanza, un sorgere, un fronteggiare ciò che, in noi e fuori di noi, è semplicemente natura e la sessualità «liberata», ovvero contronatura, separata dal matrimonio e dalla responsabilità dell’apertura alla vita nascente, resa sterile dalla contraccezione, diviene tanto più insignificante e metafisicamente vacua e insensata quanto più si pretende di accentuarne il ruolo e la centralità esistenziale ed emotiva. Se non devo più fronteggiare ciò che in me è eminentemente mera natura – il desiderio, la pulsionalità – viene meno con ciò la possibilità di essere un uomo, di incarnare armoniosamente un’identità maschile, di aprirmi verso l’ordine della vita spirituale.

In questo senso, per motivi di ordine prima antropologico, che morale, il piacere assume senso solo nella luce della castità, della moderazione, perché in sé porta altrimenti i germi della despirirtualizzazione dell’esistenza, del suo compiaciuto imbestialimento, del suo abbrutimento più convinto, non importa se ammantato di pseudo-diritti e pseudo-valori, o circonfuso di un alone di sentimentalistico abbandono all’altro.

Va ricordato sempre, infatti, che impurità e vita spirituale sono incompatibili. Una persona è casta nella misura in cui vive una vita autenticamente spirituale, e, può vivere una vita spirituale solo a partire da un orientamento radicale di sé verso la castità. Virilità, castità e vita spirituale sono le facce di una stessa medaglia e infatti una vita è spirituale quando non è dominata compulsivamente dal desiderio, ma dallo slancio verso la morte, intesa come sacrificio e rinuncia a ciò che in noi è semplice natura, regresso, impossibilità di marciare verso se stessi e il proprio destino, sottomettendosi a valori che superano l’importanza della permanenza nell’essere della nostra individualità, e, in ultima istanza, sottomettendosi a Dio stesso come sovrano e signore assoluto della nostra vita (1).

Va anche notato che vi è un nesso molto profondo fra la fecondità naturalmente legata all’atto coniugale e suo fine primario e la castità. Il fatto che dall’estasi del piacere legato all’atto coniugale sorga, o possa sorgere, una nuova vita, e che i coniugi siano totalmente aperti e disponibili ad accogliere questa possibile vita, sacralizza l’atto stesso, redime il piacere dal suo rapporto con l’opacità della morte, intesa come petite morte, ovvero come negazione, per quanto temporanea, della vita razionale e spirituale, e quindi della possibilità di adorare e glorificare Dio.

Il piacere, separato dalla possibilità del sorgere di una nuova vita, perde viceversa ogni serietà e ogni profondità metafisica, divenendo gioco, fissazione nell’infanzia, irredimibile opacità, impossibilità di invecchiare e di abitare veramente il tempo, impossibilità di sorgere virilmente a fronteggiare e combattere l’onda paurosa e crescente dell’insensatezza e del vuoto che insidiano i nostri tempi di povertà estrema.

La relazione fra omosessuali essendo di per sé sterile è quindi irrimediabilmente falsa e alienante anche sul piano antropologico, e non solo sul piano morale: essa equivale, soprattutto se vissuta sulla base degli sforzi di autogiustificazione ideologica e culturale anche molto sofisticati che ormai vengono compiuti dalla lobby gay, alla rinuncia a ogni possibilità di una vita autenticamente spirituale, a uno sprofondamento nell’ordine bestiale, infra-umano della coazione a ripetere, della ricerca compulsiva di un piacere che –non potendo legarsi e aprirsi alla vita- è destinato a essere vissuto all’interno di rapporti instabili, isterici, assurdi, disabitati da ogni fedeltà, da ogni castità e da ogni pace autentica, da ogni riposo e da ogni sincerità fondandosi sulla menzogna (non creduta, in realtà, nemmeno dagli stessi omosessuali che vi aderiscono solo per mauvais foi) che il loro rapporto sia normale, sia legittimo, sia moralmente non reprensibile.

Va riconosciuto comunque che, se il rapporto omosessuale manifesta in modo particolarmente plateale la sua falsità e debolezza antropologica ed esistenziale, la crisi dell’idea di amore, di matrimonio e di sessualità che ha avuto corso dopo il Sessantotto (soprattutto a causa dell’irrompere della contraccezione e di una vera e propria mentalità contraccettivistica, che pensa la nascita di un figlio come un progetto totalmente soggettivo dei genitori che lo pianificano in base ai loro gusti e a un loro calcolo della sua opportunità) ha contribuito a sfibrare la nostra capacità di pensare rettamente il problema. Infatti, se socialmente è ormai passata completamente una mentalità nella quale il piacere, il soddisfacimento dei propri desideri e delle proprie passioni è il fine primario dell’esistenza, e secondo la quale, quindi, nulla ripugna più del sacrificio di sé, le persone, i politici, gli intellettuali non possono più trovare in sé argomenti sufficienti a fronteggiare la rivendicazione di una minoranza del proprio privato e particolare tipo di piacere (oggi gli omosessuali, domani i pedofili). Se ciò che comanda è il piacere, è la passione, è l’obbedienza ai propri desideri, se queste sono le dimensioni socialmente riconosciute come fondative del senso dell’esistenza non stupiamoci che nessuno si scandalizzi delle abominevoli, spudorate e ridicole richieste della lobby gay.

La maggioranza degli italiani e degli europei già pensa, magari senza saperlo, che una vita non attraversata dalla passione, dal piacere, dal sentimento più acceso, dalla salute fisica più smagliante non è degna di essere vissuta: in un contesto culturale così degradato non stupiamoci della debolezza della lotta contro la lobby gay e delle richieste che stanno avanzando a favore dell’eutanasia. L’uomo occidentale giunto al suo triste tramonto non è più in grado di pensare e comprendere il dolore e la morte, non ha più la sete ardente e straziante di verità e di bellezza che hanno fatto grande l’Europa cristiana medioevale, ed è divenuto così davvero un animale malato e triste, incapace di distinguere il vero dal falso, il bene dal male, destinandosi a soccombere di fronte ai nuovi barbari, le cui cupe avanguardie sono oggi rappresentate dalla lobby gay internazionale.

Contro l’immonda ondata di falsificazioni omosessualiste che la nota lobby sta spargendo con ogni mezzo, vittima e complice al tempo stesso dei poteri forti che stanno utilizzando l’omoideologia per ben altri fini, occorre comunque ribadire con forza alcuni semplici, solidi principi della legge naturale, che è eterna, è immutabile, è iscritta nel cuore di ogni uomo dallo stesso Creatore e da nessuno può essere impunemente violata:

nessun atto sessuale è lecito o è qualificabile come moralmente buono al di fuori del matrimonio;

possono essere uniti in matrimonio solo un uomo e una donna;

• il fine primario del matrimonio è la procreazione e l’educazione della prole;


Da questi principi la semplice ragione rettamente usata può facilmente dedurre che

• nessuna unione fra omosessuali può essere chiamata matrimonio;

• nessun rapporto sessuale fra omosessuali è legittimo e moralmente accettabile;

• nessun tipo di tutela o garanzia pubblica deve essere concesso a coppie di omosessuali.

Matteo D’Amico

(continua)

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Parte 3
Parte 4




1) Parlando di vita spirituale qui non intendiamo elaborare un discorso teologico, né ci riferiamo essenzialmente alla vita di grazia vissuta dal cristiano: usiamo tali termini in senso antropologico. Dunque il riferimento non è tanto alla mistica e all’ascetica cristiane, alla vita di preghiera, di contemplazione e di crescente unione a Dio proprie della persona che lotta per santificarsi, quanto, in generale, alla possibilità per un uomo di vivere la propria vita come subordinata a valori e a verità che la trascendono e la illuminano orientando la sua esistenza in senso verticale, verso il sacrificio di sé a favore di ciò che è pensato come avente un valore eterno e sovrastorico.

 

Copyright Associazione culturale editoriale EFFEDIEFFE 


 
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