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Cattolicesimo, liberalismo, tolleranza (parte III)
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Cattolicesimo e «tolleranza»: la lezione della storia

Crediamo che la nostra interlocutrice faccia un errore storico evidente laddove ci indica in Cavour l’esempio dello statalismo anticattolico.

Cavour era certamente giurisdizionalista ma in economia si professava manchesteriano e guardava al protestantesimo come alla forma di cristianesimo che meglio giustificava le sue visioni liberali in politica e liberiste in economia. Il Cattolicesimo gli stava stretto perché non assentiva alla secolarizzazione del Politico e non giustificava l’individualismo in economia. Uno degli argomenti principali usati da Cavour, e dagli altri liberali dell’epoca, contro la Chiesa era quello che Essa impedendo il dilagare anche in Italia della Riforma luterana aveva condannato la penisola all’arretratezza civile ed economica. L’Italia doveva dunque recuperare il terreno perso attraverso una riforma religiosa e civile. Non a caso Cavour si impegnò nel favorire il proliferare in Italia delle sette protestanti, non solo quelle valdesi da secoli presenti in Piemonte ma anche importandole dall’Inghilterra. Egli mirava alla protestantizzazione della Penisola allo scopo di aprirla al liberismo all'inglese e, per questo, cercava di favorire un cambiamento culturale degli italiani che doveva di necessità passare attraverso un cambiamento religioso. Motivo per il quale l’intero processo risorgimentale, al di là di ogni altra considerazione, assunse quasi subito il carattere di una guerra di religione contro il Cattolicesimo. Dietro i bersaglieri, nel 1870, entrò in Roma, attraverso la breccia di Porta Pia, anche un pastore valdese, tal Luigi Ciari, che portava con sé un carretto di bibbie protestanti da distribuire alla popolazione nonché, al guinzaglio, il suo cane che aveva, con significativo disprezzo, chiamato pionono.

L’errore storico della nostra amica è probabilmente dovuto ad un grossolano abbaglio, molto diffuso oggi tra i cattolici. Quello per il quale essi guardano, con ignoranza del dato teologico e storico, al modello liberale di John Locke come alternativo al giacobinismo europeo. Entrambi, tuttavia, sono il parto di una filosofia anti-cattolica.

Una prospettiva, questa liberale di tipo anglosassone, alla quale anche Benedetto XVI sembra, illusoriamente, disposto a dare credito, come ha fatto nel discorso da lui tenuto alla Curia romana il 22 dicembre 2005. Un discorso, per quanto autorevole ed importante, non magisteriale e quindi serenamente valutabile dai fedeli.

(D)Javid Bey
   John Locke

Molto umilmente, da parte nostra, osserviamo che senza il soggettivismo esegetico-teologico luterano non avremmo mai avuto il liberalismo lockiano. Quest’ultimo, infatti, è deista in teologia, inclinando verso un evidentissimo razionalismo, e giusnaturalista (termine rubato dalla cultura liberale alla teologia cattolica ed impropriamente usato dai liberali) sul piano morale. Ma si tratta di un giusnaturalismo che non è più affatto quello cattolico, metafisicamente fondato, bensì contrattualista, tale dunque da porre nel contratto sociale, e non, come per la tradizione cattolico-tomista cui si richiamavano i salmantini, nella natura, il fondamento del vivere associato. Per Locke l’uomo limita il suo assoluto, libero e solipsistico volere, entrando contrattualmente in società con gli altri, al solo utilitarista scopo di tutelare, dal ferino stato selvaggio di natura, i beni primari della libertà, della vita e della proprietà.

Questo accenno a Locke, ci induce ad argomentare anche in merito alla questione della tolleranza religiosa.

I cristiani amano la Verità. Ed è per questo che essi per primi devono porsi con onestà intellettuale di fronte alle verità storiche, anche a quelle eventualmente amare.

Da parte nostra siamo i primi ad affermare che, storicamente parlando, i cristiani hanno diritto, come tutti gli altri, di essere giudicati secondo criteri non anacronistici e, quindi, tenendo sempre presente il quadro storico e concettuale nel quale essi, in passato, hanno operato.

Storicamente è però innegabile che anche i cristiani, lungo i secoli, hanno praticato violenze contro gli altri. Del resto ben ricambiati da questi ultimi: infatti, l’ammonimento di Nostro Signore – «Chi è senza peccato scagli la prima pietra» – vale per tutti, cristiani e non cristiani, ed in ogni tempo, per quello dei nostri antenati come per il nostro.

Siamo i primi anche ad affermare che, spesso, benché non sempre, i cristiani, quando hanno commesso violenze, hanno in realtà reagito alle violenze altrui.

Ma non è possibile, dal punto di vista storico, affermare, come sembra sottendere la nostra interlocutrice, sulla scorta di una certa apologetica interessata a fare del Cristianesimo il puntello teologico di un presunto Occidente immacolato, che i cristiani abbiano sempre messo in pratica un principio certamente cattolico come quello per il quale la fede non si impone con la violenza mentre gli altri, i non cristiani, un tale principio non avrebbero mai praticato, anzi che un tale principio sarebbero loro del tutto ignoto.

Questo modo di presentare le cose è tipico, appunto, di una certa apologetica da leggenda aurea sostanzialmente falsa come la sua antagonista ossia la contro-apologetica da leggenda nera.

Se le leggende nere sono elaborazioni mistificanti della propaganda anticattolica protestante ed illuminista, non è ricorrendo alle leggende auree che può spiegarsi perché mai Carlo Magno impose ai sassoni pagani l’alternativa tra il battesimo e la morte.

Questo evento, che come tanti altri della storia cristiana va compreso nel suo contesto e non giudicato moralisticamente con criterio anacronistico, se nulla toglie alla grandezza storica di quell’imperatore, tuttavia non può certo supportare l’affermazione per la quale quella storia sia stata immune dall’uso della violenza o, perlomeno, minimizzare su questo aspetto per far passare l’idea che l’Occidente di oggi – che però, ma questo i catto-liberali lo tacciono, è altra cosa rispetto alla Cristianità di ieri – sia immacolato, e pertanto superiore, perché di radici giudeo-cristiane.

Il fatto è che il Cristianesimo non è innanzitutto una dottrina ma l’incontro con la Persona Divino-Umana di Cristo. Un incontro che avviene nei cuori, dove germoglia e fermenta la fede. Un incontro che è sia dei singoli che dei popoli ma che, come ricorda Remì Brague, inizia dalla trasformazione interiore per opera della Grazia gratuitamente donata e che solo di conseguenza ha anche conseguenze sociali.

Il luogo di tale incontro, come afferma Agostino, resta, senza alcun dubbio e nonostante ogni errore, peccato o violenza commessa - per carenza di vera conversione - dai cristiani, la Chiesa, la quale infatti nei secoli non ha fatto altro che sfornare santi.

Ma se, dunque, tale è il Cristianesimo, ossia l’incontro trasformatore con Cristo, è evidente che questa trasformazione non cancella immediatamente le conseguenze del peccato originale e che l’Amore di Cristo, lungo i secoli, penetra gradualmente soltanto negli uomini, che ad Esso effettivamente si aprono, perché Dio – per nostra fortuna – è misericordioso e paziente e, senza forzarla, lascia alla nostra debole natura il tempo necessario alla conversio, rimediando, con la Sua Provvidenza, ai nostri umani errori.

Ecco perché il battesimo di gente barbara eppur umana - come Agostino ebbe a definire le popolazioni germaniche che invadevano l’impero romano - non poteva di certo trasformare immediatamente quelle popolazioni in cristiani santi. Pertanto non meraviglia se Carlo Magno usasse la spada per imporre la Croce, supportato da una teologia che sacralizzava il suo potere secondo gli schemi veterotestamentari della regalità davidica.

Crociate e missioni

E’ una lunga storia quella del procedere congiunto ma – sia detto con estrema chiarezza – anche conflittuale della crociata e della missione.

Una storia gloriosa, con esempi eccezionali di eroismo, di santità e di misericordia verso i non cristiani, ma anche, purtroppo, al tempo stesso una storia che presenta lati oscuri, con esempi antievangelici di ferocia e di viltà. Oscuri quanto oscure sono le conseguenze del peccato che continuano a serpeggiare anche tra i battezzati.

Come in un’unica storia possano coesistere l’eroismo, la santità e la misericordia con la ferocia e la viltà si spiega, appunto, con l’adesione o meno, da parte dei cristiani – Papi e prelati compresi! –, e con il grado di tale adesione, alla Grazia veicolata dalla Chiesa.

Questo apparente paradosso è comprensibile, in una prospettiva di fede, solo alla luce della Provvidenza divina che guida la storia cristiana anche rimediando, nel modo non urlato e dolcemente soave che è tipico di Dio, agli errori dei cristiani.

«Guerra contro i pagani e missione: scrivono due storici un tragico legame rivelatosi molto presto, a partire cioè dallultimo quarto dellVIII secolo. In un mondo cristianizzato forzosamente ma non intimamente, nelle istituzioni, ma non ancora nella strutture, nei riti ma non nei costumi, affiora - nelle guerre contro i Sassoni o gli Slavi pagani - il tema della scelta fra il battesimo o la morte che il vincitore cristiano propone al vinto infedele (…). Il cristianesimo che presiedeva a tali atteggiamenti era quello dimpronta veterotestamentaria e apocalittica: un cristianesimo sacrale e regale, con le sue reliquie portate in battaglia, le sue armi benedette, i suoi vescovi-feudatari più esperti nellarte di schierare le truppe o in quella di stanar lorso e inseguire il cinghiale che non nelle scienze e nei riti del Signore. Un cristianesimo ereditato da quello legionario di Teodosio e di Giustiniano e percorso dal possente soffio barbarico dei figli della foresta e della steppa che avevano sì accettato il battesimo, e sinceramente magari, ma senza mai del tutto dimenticare i loro antichi dei, signori delle battaglie e delle tempeste. Un cristianesimo quasi senza Vangelo» (1).

La Provvidenza, però, agisce anche, e soprattutto, laddove meno ci si aspetterebbe di vederla all’opera.

Il Signore ha detto di essere venuto per i malati e non per i sani, per i peccatori bisognosi di redenzione e non per chi è già santo.

Ecco dunque che la storia, se letta non solo con categorie immanenti, rivela in atto, tra le maglie degli accadimenti, anche quelli più tragici, l’opera misericordiosa di Dio.

L’Europa dei secoli alto e medio medioevali era un continente devastato da guerre endemiche e da orde di armati che infierivano tra essi e contro gli inermi. Fu per opera della Chiesa se tale ceto guerriero trovò scopi migliori del saccheggio. Ma, come accade spesso nelle cose umane, anche all’insegna di tali più alti ideali si commisero crimini, non solo contro gli altri, i non cristiani, ma a volte addirittura anche contro altri cristiani.

Eppure, siccome la Grazia sovrabbonda laddove ha abbondato il peccato, pur dal macello che sovente contrassegnò quelle strane migrazioni verso la Terra Santa, a metà tra pellegrinaggio e spedizione militare, iniziate nel 1095-96, da noi impropriamente chiamate crociate (il termine crociata è tardivo, le cronache dell’epoca parlano di iter, passagium, peregrinatio a sottolineare il loro carattere penitenziale ed apocalittico), proprio da queste esperienze nacquero gli ordini cavallereschi, monaci e cavalieri dediti alla cura caritatevole dei pellegrini e più tardi dei malati, anche infedeli, ricoverati nei loro ospitali. Esperienza, questa, che contribuì a far sì che i franchi occidentali elaborassero, un poco alla volta, un diverso modo di approcciarsi con i nativi, ebrei e mussulmani, della terra Santa.

Lasciamo ancora la parola agli storici:

«Non erano soltanto i contadini bisognosi di nuove terre… a muoversi. Sulla strada sincontravano anche i rampolli di unaristocrazia feudale impoverita… i milites’, i cavalieri che non possedevano sovente altro che le proprie armi e uno o al massimo due cavalli e che battevano le strade dEuropa in compagnia duno o di un paio di inservienti (…). (Si trattava) di poveracci che, brigantaggio a parte, non avevano altra risorsa che lingaggio mercenario presso qualche potente (…). La Chiesa del tempo - e in special modo la grande congregazione cluniacense nonché lambiente di prelati e intellettuali che avrebbe avuto la sua massima e politicamente più lucida espressione in Ildebrando di Soana, poi Papa Gregorio VII - ebbe la geniale trovata di… inculcare in questi guerrieri degli ideali di servizio alla causa cristiana e alla cattedra di Pietro (…). Nasceva così poco a poco… un nuovo modo di essere miles Christi’, guerriero di Cristo’: fino ad allora, tale espressione era stata usata per i martiri e poi per gli asceti; ora la si impiegava a indicare quei cavalieri che accettavano di porre le loro forze al servizio della Chiesa. La nuova etica cavalleresca di lotta per la giustizia e di difesa dei deboli nacque come etica penitenziale proposta a un ceto di combattenti professionisti per i quali la lotta e il rischio della vita divenivano, ora, mezzo di salvezza spirituale: e in questo è già in nuce lessenza dello spirito di crociata» (2).

La cosiddetta crociata storicamente fa il paio con il jihad islamico. Fatte, però, le debite differenze teologiche e giuridiche.

Infatti la crociata è connessa con l’idea romana, ripresa da Agostino, del bellum iustum, ma – attenzione! – non sanctum. Nella teologia morale e nella canonistica cristiana la guerra, a certe condizioni ben precise, soprattutto in quanto legittima difesa, può essere giusta ma non è mai santa o santificatrice.

Il jihad è, invece, legato all’idea coranica – anche qui si faccia attenzione! – di sforzo spirituale, interiore, ossia di guerra contro i propri vizi (analogo concetto si può del resto ritrovare anche nell’ascetica cristiana) , non dunque principalmente di guerra in senso esteriore, benché anche tale accezione viene in certi limiti ammessa dai giurisperiti islamici.

La crociata fu, in qualche modo, la risposta della Cristianità occidentale, in forte ripresa economica, all’avanzata dell’islam dei secoli precedenti, che aveva portato i corsari barbareschi di fede mussulmana, in cerca di bottino, fino a saccheggiare Roma. Avanzata che ormai, nell’XI secolo, aveva perso la sua iniziale spinta propulsiva.

Nel 1095 Papa Urbano II aveva ricevuto, a Piacenza, un’ambasceria da Costantinopoli che chiedeva il reclutamento di un po’ di cavalieri occidentali per far fronte alla pressione anatolica dei turchi selgiuchidi, i quali avevano, tra l’altro, strappato Gerusalemme al califfato sunnita di Bagdad.

I selgiuchidi erano popolazioni di origine centro-asiatica da poco convertiti alla religione di Maometto. Neòfiti dell’islam, come tutti i neofiti, erano più integralisti dei vecchi seguaci di Maometto che avevano assoggettato al loro dominio. L’arrivo dei Selgiuchidi aveva provocato qualche problema, amplificato nella sua reale consistenza dai racconti infervorati di zelanti viaggiatori, al pellegrinaggio cristiano in Terra Santa che, fino a quel momento, si era svolto senza difficoltà benché gli islamici occupassero da qualche secolo Gerusalemme.

Infatti, considerando i cristiani gente del Libro, i mussulmani non avevano mai impedito il pellegrinaggio nei Luoghi Santi.

L’anno successivo, nel 1096, in un concilio locale a Clermont, in Alvernia, Urbano II, anche forse con l’intenzione di allontanare dall’Europa quei turbolenti uomini d’arme, fece un appello affinché i cavalieri, anziché ammazzarsi tra loro e opprimere gli inermi, si recassero in pellegrinaggio armato in Terra Santa per prestare aiuto ai fratelli cristiani d’Oriente.

Dunque l’appello papale escludeva qualsiasi obiettivo di conversione forzata degli infedeli ma si limitava solo a quello di rendere ancora possibile il transito verso i Luoghi Santi.

Tuttavia l’appello del Papa cadde in un’Europa in pieno risveglio economico, che attendeva solo l’occasione per esportare le sue ormai straripanti energie, spirituali e materiali, verso altre terre.

Un’Europa, inoltre, percorsa da fermenti, spesso ereticali, di tipo millenaristico, propagandati da predicatori di dubbia regolarità ecclesiale come Pietro l’Eremita – che poi guiderà la cosiddetta crociata dei fanciulli conclusasi con il massacro dell’orda di pellegrini infuocati dalle folli visioni di quel predicatore e che a loro volta, al loro passaggio, avevano massacrato le comunità ebraiche danubiane (difese dai vescovi locali, dall’Imperatore e dal re d’Ungheria).

L’appello di Urbano II provocò una ventata di santa follia, al grido di Deus vult (Dio lo vuole), che rischiò, come con suo disappunto constatò lo stesso Pontefice, di sconvolgere l’intero ordine sociale dell’Europa del tempo: novizi di interi monasteri chiedevano di partire, mariti abbandonavano mogli e figli per la Terra Santa, masse imponenti di contadini e popolani, assetati di terre e di giustizia sociale, si incamminavano verso la Terra promessa di latte e di miele per andare incontro al Signore del quale molti segni annunciavano l’imminente ritorno glorioso, interi casati aristocratici abbandonavano i propri castelli per cercare in Palestina quella fortuna che, a causa delle trasformazioni socio-economiche in atto, non trovavano più o che avevano perso in Europa.




Papa Urbano proclama la Crociata

La crociata fu sia baronale che popolare e queste due componenti spesso entrarono in conflitto.

Si trattò di un’orda di pellegrini visionari e di baroni che raggiunsero Gerusalemme, dopo aver attraversato i deserti anatolici, subìto e perpetrato vari massacri, praticato per fame persino il cannibalismo nutrendosi dei cadaveri di chi non ce la faceva.

E’ storicamente incredibile il fatto che quell’orda, che il Basileus di Costantinopoli si affrettò a trasbordare sulla sponda anatolica quando essa si accampò turbolenta ed affamata alle porte della sua città, riuscì a raggiungere Gerusalemme. Che conquistò, nel 1099, dopo un lungo assedio, massacrando quasi l’intera popolazione.

Se il governatore islamico della città non avesse cacciato i cristiani ivi nativi, da secoli conviventi con gli ebrei e gli islamici autoctoni, ritenendoli potenziali quinte colonne dei franchi (è indicativo il fatto che i crociati fossero chiamati, dagli islamici, franchi e non, invece, cristiani) anch’essi avrebbero subìto la stessa sorte, dal momento che quei rozzi pellegrini armati, piombati chissà da dove sulla Città Santa, non erano in grado di distinguere un cristiano orientale da un ebreo o da un mussulmano.

Eppure, passato questo primo tragico momento, i nuovi arrivati, conquistata la Terra Santa, iniziarono a meglio comprendere la realtà di quelle terre e la stessa cultura di quelle popolazioni fino ad instaurare con esse un rapporto di sostanziale tolleranza. Ne nacque una società coloniale nella quale la convivenza e l’integrazione riuscirono, provvidenzialmente, a rimarginare le ferite provocate dalla guerra ed a far rifiorire la fiorente economia della regione.

Qui, in un’ottica trascendente della storia, la fede scorge la mano provvidenziale di Dio!

Ancora una volta è necessario far parlare gli storici: «Ecco che noi, che fummo occidentali, siamo diventati orientali. LItalico e il Franco di ieri, una volta trapiantato, è divenuto un Galileo o un Palestinese (…) perché chi laggiù era povero, qui per Grazia di Dio ha ottenuto lopulenza; chi non aveva che qualche soldo, qui possiede dei tesori; chi non godeva neppure di un modesto possesso, qui si vede fatto padrone duna città intera. Perché dunque tornare, dal momento che abbiamo trovato un tale Oriente?’. Allindomani della conquista della Terrasanta uno dei più intelligenti cronisti della crociata, Fulcherio di Chartres, scriveva queste parole colme di letizia (…). Ma quel mondo che agli uomini del nord poteva sembrar favoloso, era in realtà - e per causa loro - agonizzante (…). In questa prima fase della conquista, i crociati si erano comportati con stolta quanto barbarica imprevidenza: del tutto privi desperienza relativa ai territori che stavano conquistando e di comprensione culturale per le popolazioni di questi… avevano trattato larea di conquista come un grande campo da saccheggiare. Il massacro, la ruberia indiscriminata, lo stupro furono la sola metodologia dapproccio al mondo siro-palestinese che essi seppero produrre

(…)

(Tuttavia) loscura e confusa ansia millenaristica che aveva indotto tanta gente a partire dopo essersi scossa dai calzari la polvere dEuropa, andava a poco a poco lasciando il posto alla presa di coscienza del fatto che quella sita fra Mar di Levante e Giordano era ormai la loro nuova patria (…). Era ormai chiaro che alla lunga la politica di saccheggio e di sterminio si sarebbe tradotta in un suicidio degli stessi conquistatori. I pochi mussulmani ed ebrei superstiti dalle città conquistate fuggivano verso la Siria e verso lEgitto portandosi dietro i loro cari superstiti, il po di masserizie che erano riusciti a racimolare e a salvare e, soprattutto, il loro odio, la loro rabbia, la loro disperazione. Se la croce era stata fino ad allora fra loro un segno disprezzato, ora essa era diventata oggetto di rancore e di cieca paura. Quello che rimaneva d’un tessuto urbano, portuale e viario fra i più antichi e floridi dellintero bacino mediterraneo stava ormai cedendo il passo alla desolazione (…). Così, i crociati si resero finalmente conto che non bastava trasformare le moschee in chiese e drizzar croci dorate sulle torri della città. La crociata non era finita con la presa di Gerusalemme: cominciava allora. I principi e i prelati… posero da parte le loro aspre rivalità e si diedero ad organizzare le terre conquistate secondo criteri feudali dellOccidente, non senza tuttavia prendere atto e tener conto, in qualche modo, duna realtà profondamente diversa e che pian piano cominciavano a comprendere (…). Pian piano, … lordine simpose e lintera area urbana e rurale soggetta agli occidentali… tornò a fiorire; si riuscì a mantenervi o a richiamarvi gruppi di artigiani, di mercanti e di agricoltori mussulmani o ebraici, e lantica tradizione di più o meno cordiale vicinato fra genti di stirpe e religione diverse - un carattere originale del Vicino Oriente - ebbe il sopravvento. I rudi occidentali impararono dalle comunità che avevano assoggettato non solo luso dellarabo (e anche del greco, dellebraico, del siriaco) e di tutta una quantità di tradizioni, consuetudini, accorgimenti che servirono loro a viver meglio in quelle contrade nelle quali larte del viver bene… era tanto raffinata: essi vi appresero anche larte e la misura orientali del ben governare, larte per loro difficile della tolleranza religiosa. Nasceva così ben presto una società almeno in parte disposta allintegrazione, dove fra laltro i matrimoni misti (anche negli alti strati della società, fra nobiltà crociata e aristocrazia sirocristiana e armena) erano frequenti. Una società coloniale’, che un intelligente osservatore arabo del XII secolo, Usama ibn Munqidh, emiro di Shaizar, descrive ad esempio così: ‘Ci sono presso i Franchi alcuni che, stabilitisi nel paese, han preso a vivere familiarmente con i mussulmani, e costoro son migliori di quelli che sono ancor freschi dei loro luoghi dorigine (…). Venimmo alla casa di un cavaliere di quelli antichi, venuti con la prima spedizione dei Franchi. Costui, ritiratosi dallufficio e dal servizio, aveva in Antiochia una proprietà del cui reddito viveva. Fece venire una bella tavola, con cibi quanto mai puliti e appetitosi. Visto che mi astenevo dal mangiare, disse: ‘Mangia pure di buon animo, che io non mangio del cibo dei Franchi, ma ho delle cuoche egiziane, e mangio solo di quel che cucinano: carne di maiale in casa mia non ne entra!’ (…). Restava comunque il problema della difesa. I conquistatori della Terrasanta erano poche migliaia fra cavalieri e non, e molti, sciolto il voto, se ne erano tornati in Europa. Ma il paese aveva bisogno di venir presidiato continuamente: infatti, passato il primo istante di disorientamento, lislam sirogiordano ed egiziano cominciava a passar al contrattacco (…). Verano,, pellegrini che giunti dallOccidente si sobbarcavano con entusiasmo lonere di una campagna militare: ma poi ripartivano. Per il presidio delle frontiere e la difesa dei pellegrini inermi si erano semmai organizzati liberi gruppi di cavalieri che, a titolo penitenziale, sceglievano di rimanere in Terrasanta per difendervi le conquiste cristiane e per vivere in comunità e in povertà nei luoghi che avevano veduto il Salvatore. Nasceva una singolare, quasi paradossale - in quanto guerriera - applicazione alle necessità contingenti del principio della conversione alla vita monastica, uno dei principi che in Occidente aveva costituito il lievito della vita della Cristianità. Col tempo, quelle fraternità si trasformarono in veri e propri ordini religiosi, acquartierati in caserme-abbazie disposte lungo i confini e nei punti strategici del deserto a guardia delle piste carovaniere. Le loro regole si ispirarono variamente alla matrice benedettina (o alle norme canonicali dorigine agostiniana) e trovarono un estimatore deccezione nel più grande mistico dellOccidente di allora, Bernardo di Clairvaux, che in un breve ma famoso scritto - il De laude novae militiae’ (‘In lode della nuova cavalleria’) - propose la loro vocazione militare come simbolo esteriore del combattimento spirituale da combattersi contro il peccato (esattamente come viene considerato, al di là dei suoi abusivi usi politici, il jihad dagli islamici, nda). Nacquero così gli ordini religioso-militari dei Poveri Cavalieri di Cristo’ (più tardi detti ‘Templari’), dei Cavalieri di San Giovanni’ (detti - per la pratica dell’assistenza a pellegrini e malati, nda - ‘Ospitalieri’), dei Cavalieri di Santa Maria’ (…). Di questo mondo ammirevole e sconcertante, i Templari rimangono lincognita ancor più indecifrabile. Guerrieri coraggiosi e spietati e abilissimi banchieri, odiati come nessun altro ‘franco dai mussulmani eppure in frequenti contatti… con lislam, fedeli al loro voto personale di povertà eppure membri di un ordine che ai primi del trecento fu sciolto sotto accuse infamanti, in un clima equivoco e persecutorio (3) (…)».

Per contro, i loro acerrimi avversari arabi ce ne hanno lasciato un quadro improntato spesso a simpatia, ad ammirazione, ad amicizia. Ascoltiamo ancora una volta il sensibile e raffinato emiro Usama: «Quando visitai Gerusalemme io solevo entrare nella moschea al-Aqsa, al cui fianco cera un piccolo oratorio, di cui i Franchi avevan fatto una chiesa. Quando dunque entravo nella moschea al-Aqsa, doverano insediati i miei amici Templari, essi mi mettevano a disposizione quel piccolo oratorio per compiervi le mie preghiere» (4).

Il resoconto dell’emiro Usama continua rammentando l’episodio dell’aggressione subìta, mentre pregava sdraiato al modo islamico nel piccolo oratorio, da parte di un cavaliere che costringendolo ad alzarsi gli intimava di pregare in piedi, fino a che gli altri templari intervennero allontanando quel cavaliere e ponendo all’emiro le loro scuse, anche a nome dell’aggressore, giustificandolo con il fatto che era arrivato da poco dall’Europa e non conosceva la tolleranza praticata lì, in Terra Santa.

(D)Javid Bey
   San Francesco

Un cavaliere d’eccezione fu Francesco di Bernardone, che nel 1219 partecipò alla crociata in nome della santa obbedienza al Papa, che l’aveva bandita, e che, sul campo di battaglia, lui vecchio cavaliere che le armi le aveva brandite nella guerra tra Assisi e Perugia, intervenne per convincere i crociati a non attaccare a Damietta per motivi di inopportunità militare. Non certo, come fa intendere una ambigua agiografia ecumenica, per motivi di ecumenismo ante litteram.

Francesco, uomo di pace, infatti, si recò dal sultano non certamente spinto da ideali pacifisti ma per fare, a modo suo, la crociata, ossia per predicare Cristo ad al-Malik al-Kamil, magari facendo leva sui passi del Corano nei quali si parla di Nostro Signore e della Santa Vergine Sua Madre.

L’immagine di Francesco tutto ecologia, ecumenismo e pacifismo è infatti storicamente falsa perché, caricata come è di valori attuali, è viziata di anacronismo.

Ciò non toglie, appunto, che Francesco fosse uomo di pace e di misericordia e che intendesse approcciare il sultano secondo carità. E’ certo, comunque, che quell’incontro tra il Santo assisiate ed il sultano contribuì, se non alla conversione del mussulmano, perlomeno all’apertura di un rapporto che nell’immediato, qualche anno dopo, portò all’accordo tra lo stesso sultano e Federico II per la restituzione di Gerusalemme ai cristiani, che dal canto loro si impegnavano a rispettare i diritti di pellegrinaggio dei mussulmani, e, nel lungo periodo, portò alla costante presenza francescana in Terra Santa, vivissima tuttora.

Ancora dunque la crociata e la missione!

«Nel corso del Duecento, specie grazie agli ordini francescano e domenicano, lidea di crociata si accompagnò e si alternò non sempre necessariamente opponendosi a quella di missione. Non mancò, anzi, chi, come Raimondo Lullo, intese crociate e missione come due strumenti e due valoricomplementari, il primo rivolto a rivendicare alla Cristianità il legittimo possesso dei Luoghi Santi, il secondo teso allespansione pacifica della Cristianità attraverso la salvezza delle anime degli stessi infedeli. Ora, è un fatto che la crociata non aveva mai avuto come scopo la conversione degli infedeli: comunque, nella concreta realtà storica, è indubbio che attraverso di essa i cristiani ed i mussulmani impararono a conoscersi meglio e in parecchi casi anche a stimarsi. E tuttavia ovvio che, se crociata e missione potevano concettualmente parlando convivere, in concreto tale convivenza era assai ardua: lidea di missione costituisce, se non una negazione, quanto meno un superamento dellidea di crociata, e non a caso alla cerniera fra quelle due dimensioni noi troviamo proprio lazione di un crociato sui generis’, Francesco dAssisi, presente al campo di Damietta nel 1219-20 e pronto secondo la tradizione a sfidare a sua volta i mussulmani, ma con la forza non già delle armi, bensì della fede, dellamore. E poiché il dialogo - e magari la polemica - abbisognava di reciproca conoscenza, la missione aprì nuovi orizzonti intellettuali: il Concilio di Vienne del 1311-12, organizzando su basi razionali la preparazione dei missionari, fondò i primi istituti di orientalistica della storia della Cristianità. Fu la Spagna - che già nel XII secolo aveva fornito allEuropa lequipe dei traduttori (del Corano, nda) di Toledo - la patria di questo primo tentativo» (5).

Quanto siamo andati fin qui dicendo ci permette di aprire, per quanto possibile alle nostre deboli e limitate prospettive umane, sovente troppo chiuse in una lettura soltanto immanente, uno scorcio sulla prospettiva trascendente della storia.

Una prospettiva, questa trascendente, che sembra farci intendere che intorno ai Luoghi Santi, alle tre fedi abramitiche, si stia svolgendo un qualche, ancora imperscrutabile, disegno della Provvidenza, se è vero, come è vero, che tuttora al centro delle contese religiose, tra i «figli, spirituali e carnali, di Abramo», vi è la Città Santa. In particolare, ciò che resta della Spianata del Tempio. Quello che gli ultraortodossi ebrei vorrebbero ricostruire e che sorgeva sulla Pietra del sacrificio di Abramo. Luogo ora invece protetto dalla Cupola della Roccia, la Moschea di Omar, e dalla Moschea di al-Aqsa. Quelle nelle quali, trasformate in chiese, i Templari, forse antichi custodi della Sindone, ossia dell’immagine miracolosa, a noi cristiani lasciata in pegno, da Colui che si è proclamato l’Unico Vero Tempio (Giovanni 2, 18-22) e che ha fondato la Sua Chiesa Universale sulla Roccia di Simon Pietro, accoglievano, in spirito di tolleranza, l’emiro Usama.

Tolleranza o libertà religiosa? Un problema «di» o «della» coscienza

L’excursus storico sopra effettuato dimostra che anche prima di Locke esisteva una forma di tolleranza religiosa, la quale, però, non necessitava né presumeva, come quella liberale, il soggettivismo teologico ma che, perlomeno tra fedeli del ceppo abramitico, consentiva il reciproco riconoscimento di fatto. Un riconoscimento di fatto che, tuttavia, finiva per tradursi anche in un riconoscimento giuridico benché non egualitario, ossia non al modo contrattualista noto alla modernità sia liberale che giacobina.

Quella tolleranza premoderna non impediva affatto che gli uni, a seconda delle circostanze, fossero egemoni politicamente sugli altri ma assicurava comunque, tra alti e bassi, la convivenza tra ebrei, cristiani e mussulmani.

I cristiani e gli ebrei, in terra islamica, erano sottoposti alla legge del dhimmi, ossia assoggettati a pesanti tributi, ed i mussulmani, in terra cristiana, erano discriminati dalle cariche pubbliche e circoscritti nelle loro comunità come gli ebrei nei ghetti. Tuttavia nessuno si arrogava il diritto di negare l’esistenza dell’altro: semmai il problema si poneva nei termini di come convertirlo alla vera fede. Talvolta la risposta a tale problema fu lasciata all’imposizione o alla pressione sociale, ma altre volte, invece, fu praticata la tolleranza, che certo, però, non assumeva affatto, da un punto di vista teologico, il significato di relativismo confessionale.

Qui incontriamo la grande questione di quel che oggi si chiama, in connessione al mito della libertà di coscienza, la libertà religiosa.

Il concetto di libertà di coscienza nasce in un alveo protestante. Esso è connesso direttamente con l’individualismo esegetico introdotto da Lutero e fu ripreso, per ovvie affinità culturali, dalla massoneria, prima, e dal liberalismo, poi. Su tale modo di intendere la libertà di coscienza si fonda il relativismo ossia l’idea per la quale tutte le confessioni sono eguali, raggi di una stessa ruota che convergono verso il centro ossia verso una fantomatica Tradizione Primordiale che attraverserebbe, in quanto retroterra esoterico, tutte le tradizioni essoteriche ossia tutte le confessioni.

Locke, quando parla di tolleranza religiosa, dalla quale non a caso esclude proprio i cattolici per definizione, secondo lui, intolleranti e dogmatici, intende perorare proprio questo relativismo religioso. Infatti, Locke, che era deista, afferma il primato di una presunta religione naturale o razionale, composta di pochi concetti fondamentali e comuni a tutti i cristiani (Dio, Cristo figlio di Dio, immortalità dell’anima), e considera le differenti confessioni cristiane soltanto accidenti storico-culturali che non possono pretendere di ergersi a detentori della Verità assoluta. Le diverse confessioni, pertanto, devono essere tutte ammesse nello Stato e lasciate libere di esprimersi, anche pubblicamente, ma non possono pretendere alcun primato sulle altre.

Questo, essenzialmente relativistico, è esattamente l’attuale panorama religioso degli Stati Uniti d’America, che affascina oggi molti cattolici in quanto, a differenza del giurisdizionalismo di Stato conosciuto in Europa negli ultimi due secoli, lascia libertà, anche pubblica e sociale, alle fedi, tutte ammettendole perché le considera tutte eguali, non afferma giudizi di valore sull’una o sull’altra e considera una questione individualistica, ossia della libera coscienza soggettiva, la scelta di questa o quella fede. Come -a dimostrazione dell’inferenza delle concezioni teologico-filosofiche su quelle politiche ed economiche -sesi trattasse di scegliere questo o quel prodotto in un supermarket.

In realtà, questo tipo di libertà religiosa presuppone, inevitabilmente, il soggettivismo che conduce dritto al relativismo.

Non è un caso se una favola medioevale come quella delle Tre Anella, che intendeva esprimere l’idea tradizionale di tolleranza religiosa, quella sopra esaminata a proposito della crociata e della missione, è stata ripresa e stravolta, nel suo significato profondo, dal Lessing, noto massone, che l’ha trasformata in una perorazione del relativismo confessionale massonico-deista.

Certamente, il concetto di tolleranza religiosa, in senso relativista, introdotto da Locke ha contribuito, in un modo diverso dal cuius regio eius religio di Westfalia, al superamento delle cruente guerre di religione innescate in Europa da Lutero. Tuttavia non se ne può affatto sottacere il carattere deista e massonico che mira alla neutralizzazione della diversità delle fedi ed al loro superamento in nome di una pretesa Tradizione Primordiale o Religione Naturale, che si ritiene superiore alle fedi storiche ed adatta ai veri filosofi.

Ora, invece, contrariamente a tale relativismo, il Magistero cattolico, almeno fino al Vaticano II, ponendosi in linea con la tolleranza religiosa come concepita nel medioevo ed elaborata nel lungo confronto tra le tre fedi abramitiche,  ha sempre insegnato non la libertà di coscienza ma la libertà della coscienza.

Non è, qui, questione di semplice distinzione lessicale.

Infatti, cattolicamente, la coscienza, in quanto ferita dal peccato originale, non è affatto ritenuta, da sola, elemento di certo e sicuro approccio alla Verità. Sicuramente è mediante la coscienza che l’uomo giunge alla Fede ma la coscienza individuale può anche essere sviata verso l’errore. Sicché la coscienza abbisogna sempre dell’aiuto della Grazia che è veicolata unicamente dalla Chiesa per mezzo della preghiera e dei sacramenti.

Quando, un tempo, la Chiesa invocava il rispetto della liberta della coscienza non prefigurava affatto uno scenario relativista, come quello inteso da Locke, ma, di fronte alla sfida portata dallo Stato giurisdizionalista fuoriuscito dalla Rivoluzione Francese e dalle rivoluzioni liberali ottocentesche ispirate dal liberalismo di tipo idealistico-tedesco, Essa rivendicava, per il fedele cattolico, la libertà della coscienza ossia la libertà di non essere coartato, nella fede, dallo Stato moderno.

In tal senso, la Chiesa si poneva in linea con la Rivelazione per la quale la fede non può mai essere imposta con la forza né con la forza essere negata.

Tuttavia, la Chiesa non difendeva affatto la libertà di coscienza, proprio perché la coscienza non è mai elemento sicuro, certo e fermo di conoscenza della Verità, né, di conseguenza, la libertà religiosa.

Essa ammetteva certamente la tolleranza, nel senso tradizionale che abbiamo visto, come provvisorio riconoscimento statutario delle altre fedi in attesa che la grazia e l’opera degli evangelizzatori portino i non cristiani a Cristo, ma non ammetteva la libertà di religione e insegnava che lo Stato, laddove metteva sullo stesso piano la fede cattolica e le altre, veniva meno ai suoi doveri.

L’idea relativista di libertà di coscienza, e quella connessa di libertà religiosa, sono penetrate in ambito cattolico un po’ alla volta anche mediante lo scivolamento semantico che, sostituendo il della con il di, ha in realtà indotto un, inavvertito, cambiamento di significato.

In conclusione

Il problema, letto nella sua effettiva luce storica, è oggi, per noi cattolici, quello di come trovare un modus vivendi con lo Stato liberale, tenendo però conto che tale Stato è in realtà, a modo suo, uno Stato confessionale nel senso che, mentre relativizza la fedi ponendole tutte sullo stesso piano, porta avanti, anche quando si presenta come del tutto secolarizzato, una sua teologia politica che è quella della religione umanitaria.

L’affermazione cattolica dell’unicità della Verità, razionalmente attingibile dalla coscienza con l’aiuto della Grazia, infatti non può, alla lunga, che cozzare con il relativismo dello Stato liberale. I nodi, prima o poi, vengono sempre al pettine.

Certo, è impensabile, e forse neanche auspicabile, la restaurazione di uno Stato confessionale. Almeno non oggi, non cioè in queste circostanze storiche.

Trovare un modus vivendi con il relativismo liberale che, però, salvaguardi, perlomeno a livello di dottrina teologica e teologico-politica, l’unicità della Verità è, tuttavia, purtroppo inevitabile, nelle date circostanze dei nostri tempi.

Si illudono, però, quei cattolici che credono di poter sposare in linea di principio il relativismo liberale. Lo Stato liberale è, infatti, un potere che quando viene messo in aperta discussione si trasforma nel più intollerante esercizio della forza che possa immaginarsi: fino alla pretesa di esportare se stesso a suon di bombe, non escluse quelle atomiche come insegnano i casi di Hiroshima e Nagasaki.

Se non viene messo in aperta discussione, tuttavia, lo Stato liberale sparge, nelle coscienze, il suo veleno relativistico anche se formalmente si pone in atteggiamento di rispetto verso la fede e la Chiesa.

Qui, forse, la strada da seguire è quella tradizionale a suo tempo indicata da Agostino. L’attuale Pontefice cerca, infatti, di perseguire proprio tale strada. Che, del resto, è anche una strada squisitamente cattolica.

Agostino, infatti, non sacralizzava lo Stato, anzi relativizzava il Politico, non certamente per negargli il suo giusto valore naturale e di ordinatore della convivenza, che invece riconosceva ampiamente.

Agostino, tuttavia, affermava recisamente che la Verità è solo Cristo e che Essa è annunciata esclusivamente dalla Chiesa che, ai suoi tempi, professava il credo niceno, ossia - oggi diremmo - dalla Chiesa cattolica e, comunque, dalle Chiese di radici apostoliche.

Se questo approccio portava Agostino, per l’appunto, a non sacralizzare lo Stato né a statualizzare la Chiesa, la chiara conseguenza che egli ne faceva derivare era quella di non identificare la realtà trascendente, universale, della fede e della Chiesa con nessuna civiltà particolare, neanche con l’impero romano, ai suoi tempi morente.

Certo Agostino, come già Paolo, apprezzava esplicitamente - basta leggere la Città di Dio - i grandi valori naturali che la romanità aveva saputo esprimere, e tuttavia, a differenza di Eusebio di Cesarea, sapeva che la Chiesa, per il suo fondamento divino, non può farsi catturare nel ristretto alveo di questa o quella civiltà, di questa o quella cultura, pur interagendo con tutte.

Applicando questo approccio alle attuali circostanze storiche, ne consegue che la Chiesa non può legarsi o farsi identificare, a titolo di sua presunta matrice, neanche con l’odierna civiltà liberale ed occidentale, oggi egemone, nonostante le pretese universalistiche di questa medesima civiltà. Pretese universalistiche però, e qui sta il problema, di tipo umanitario, avulse cioè dalla fede in Cristo.

La via per risolvere il problema della tolleranza religiosa non passa, oggi, ad Occidente.

Luigi Copertino

• Cattolicesimo, liberalismo, tolleranza (parte I)
• Cattolicesimo, liberalismo, tolleranza (parte II)


1) Confronta C. Baldasseroni - F. Cardini, «I colori dell’avventura Le crociate e il regno ‘franco’ di Gerusalemme», Itaca, Edit Faenza, 1994, pagine 3-4.
2) Confronta Baldasseroni - Cardini, opera citata, pagine 6-7.
3) L’Ordine Templare fu soppresso a causa delle mire sui beni dell’ordine nutrite da Filippo il Bello. Il sovrano di ferro, primo esempio di sovrano di una monarchia già in qualche modo nazionale, deteneva il Papa, favorevole all’innocenza dei Templari, prigioniero in Francia e lo costrinse a sciogliere l’ordine, aprendo così la strada al processo inquisitoriale condotto dai legisti e dai magistrati regali. Il processo si concluse con il rogo di Jacques de Molay, ultimo gran maestro, e dei suoi più stretti collaboratori. Episodio, questo, che poi ha fatto nascere una lunga tradizione, del tutto leggendaria, sui presunti segreti esoterici custoditi dai Templari. Leggende alle quali si è rifatta, per spirito anticattolico, anche la massoneria moderna, dichiarandosi l’erede del segreto iniziatico custodito dai cavalieri del Tempio.
4) Confronta Baldasseroni - Cardini, opera citata, pagine 15-19.
5) Confronta Baldasseroni - Cardini, opera citata, pagina 30. Nel corso dei secoli delle crociate, molti si interrogarono sulla effettiva legittimità morale delle spedizioni armate contro gli infedeli. Soprattutto quando, per opera dei canonisti di curia, si iniziò a teorizzare la crociata contro i nemici politici del Papato, come i vari signori ghibellini, più o meno coinvolti in pratiche religiose ereticali. Il cardinal Ostiense, Enrico da Susa, fornì una giustificazione alla cosiddetta crux cismarina, quella rivolta contro i nemici interni alla Cristianità, sostenendo che mentre la crux trasmarina, rivolta contro gli infedeli, si limitava a difendere la Cristianità dalle minacce esterne, la crociata contro gli eretici era ancor più meritoria perché mirava a eliminare il pericolo interno. Si trattò di una degenerazione dell’iniziale spirito penitenziale del pellegrinaggio armato in Terra Santa che destò quasi immediatamente molte contestazioni: «La voce di Dante, che si scaglia violentemente contro la pratica della crociata bandita contro i cristiani, dà solo una lontana idea dellorrore che essa dovette sollevare (…). Contro una tanto profonda degenerazione dello spirito crociato, è comprensibile che si levassero ben presto voci di protesta. Già i rovesci di tutte le crociate successive alla prima avevano provocato - in un mondo tutto sommato convinto della giustizia immanente di Dio - dubbi, perplessità, dissensi. ‘Deus vult’ (‘Dio lo vuole’) era stato il grido di guerra dei vincitori del 1009: ma ora che le armi della croce venivano sistematicamente sconfitte dagli infedeli cera da chiedersi che cosa Iddio volesse veramente. Lo stesso Bernardo di Clairvaux, nel trattato De considerazione’, si era interrogato sui peccati dei cristiani che avevano potuto indurre il Signore a provarli così duramente (…). Perfino molti mistici levarono la loro voce contro la crociata, sia contro quella rivolta a battere gli infedeli, che Iddio sembrava non favorire più, sia quella contro i cristiani, che pareva ben più scandalosa (opera citata, pagine 28-29)». Lo stile tipico di Nostro Signore si può cogliere anche in questo contesto storico. Nostro Signore sostiene la Chiesa soltanto in ciò che è per Essa essenziale ossia soltanto in ciò che concerne la fede e la salvezza degli uomini. Quanto è storicamente intrecciato con questo essenziale è sostenuto dalla Provvidenza - ad esempio, la sovranità del Papa su un territorio, sia pur minimo, necessaria alla Libertas Ecclesiae - ma non ciò che storicamente non lo è, perché frutto di umane elaborazioni culturali o politiche - ad esempio, la ubris teocratica di certi Papi medioevali che proclamavano se stessi Signori del mondo anche, perlomeno indirettamente, nel temporale - e non ciò che storicamente, cambiate le circostanze epocali, non lo è più. A Nostro Signore non interessano affatto le nostre, sempre transeunte, beghe politico-teologiche, quanto piuttosto la Carità, la Misericordia e la Giustizia che Egli vuole siano i segni di riconoscimento dei cristiani e della Sua Chiesa.

 

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