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Perché Ahmadinejad non è il nuovo Hitler
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Il governo di Ahmadinejad ha preso tutte le precauzioni per vincere le elezioni del 14 marzo. Una «selezione» iniziale dei candidati, che ha scartato il 90% dei riformisti o indipendenti, e soprattutto fatto in modo che nessun nome famoso di quel campo si presentasse.

L’innalzamento dell’età del voto dai 15 anni (!) ai 18, ben consci che la gioventù - la metà degli iraniani ha meno di 18 anni - vota per il cambiamento. Una offensiva televisiva e mediatica a tutto spiano. E il giorno del voto, 310 mila militanti del regime di Ahmadinejad sono stati mobilitati come «scrutatori» e sorveglianti ai seggi.

Nonostante ciò - come spiega «Kamal Nazer Yasin» (pseudonimo di un giornalista che lavora a Teheran) sul sito elvetico ISN (1) - Ahmadinejad e la sua parte hanno perso la maggioranza assoluta. Erano in ballo 290 seggi. Le forze di Ahmadinejad, radunate sotto una sigla-ombrello, United Principlist Front (UPF), ne hanno presi 83. I conservatori «moderati», anch’essi sotto una sigla-ombrello che il giornalista chiama «Comprehensive Principlist Front», ne hanno avuti 79. Le minoranze religiose (fra cui gli ebrei) nel hanno avuti dieci.

Il primo gruppo sperava di prendere da solo la metà dei seggi; non ci è riuscito. A questo punto, la rielezione di Ahmadinejad nel 2009 è in dubbio. Pare evidente che l’insuccesso sia causato dal frazionamento delle forze pro-Ahmadinejad, tutt’altro che monolitiche, anzi parecchio fratturate all’interno.

Sull’altro versante, le personalità genericamente «riformiste» avevano avuto la possibilità di concorrere, sui 290, in 120 seggi: ne hanno guadagnati 32, mentre personalità qualificate come «indipendenti» ne hanno vinto 51. Ai ballottaggi, che si terranno a maggio, questi due gruppi insieme possono ottenere un’altra ventina di seggi.

A Teheran la personalità più vicina al riformista Kathami, Majid Ansari, ha avuto 346 mila preferenze, il doppio di quello che aveva avuto il suo predecessore quattro anni fa (173 mila).

Ma la novità più interessante appare il successo di una «nuova destra» che però non è affatto a favore di Ahmadinejad, anzi promette o minaccia di partorire il rivale che gli succederà. Questo gruppo o costellazione, variamente denominato «Conservatorismo pragmatico», «Principalismo progressista», o «Nuova Tecnocrazia» (sic) ha come leader riconosciuti tre personalità provenienti (come Ahmadinejad) dai Guardiani della Rivoluzione, e insieme sicuri legami con l’alto clero che comanda sul serio dalla città di Qom: ciò che rende la loro posizione inattaccabile da ogni lato, e di richiamo per i giovani militanti anti-occidentali come per l’elettorato fondamentalista.

I nomi dei tre: Mohsen Rezai, già capo dei Guardiani; Mohammad Bagher Ghalibaf, attuale sindaco di Teheran (la posizione da cui Ahmadinejad è salito al governo), e soprattutto Ali Larijani, il sagace negoziatore con la IAEA sulla questione nucleare fino a quando Ahmadinejad non l’ha sollevato da quell’incarico, evidentemente valutando che lo metteva troppo in luce.

Questi tre hanno preso formalmente le distanze dalla formazione pro-Ahmadinejad (l’United Princilist Front) nel gennaio scorso, quando fu posto loro come condizione per partecipare a quella specie di «rassemblement» nazional-religioso che non criticassero Ahmadinejad e il suo insoddisfacente governo. Hanno costituito insieme la lista CPF sopra citata, che è riuscita a mandare 79 suoi rappresentanti al parlamento.

La spaccatura col gruppo di Ahmadinejad è stata causata, a quanto pare, dal fatto che queste personalità non hanno alcuna  voglia di lanciare una «nuova rivoluzione islamica» in Iran, sia provocando una guerra con gli USA sia lanciando campagne di «rigenerazione nazionale» moralistiche. Si tratta di potenti capi ben accomodati in posizioni economiche e  di potere, che hanno  tutto da perdere in una specie di «rivoluzione culturale» di tipo mao-islamista o in un conflitto esterno.

Larijani è con ogni evidenza l’astro sorgente di questa tendenza. Cinquantenne, figlio di un importante ayatollah ed imparentato con altri potenti clerici di Qom, Larijani è anche uno dei due rappresentanti dell’ayatollah Khamenei, il Leader Supremo della repubblica islamica, al Consiglio supremo nazionale. Oltre a ciò è - caratteristico di questa nuova tecnocrazia - un superlaureato con master in filosofia occidentale (ha scritto libri su Kant!) all’Università di Teheran , e ha un’altra superlaurea  in matematica e scienza dei computer alla Sharif University of Technology, «summa cum laude».

Larijani, sollevato dall’incarico di negoziatore nucleare nell’ottobre 2007, ha condotto la sua campagna a Qom, dove ha ottenuto l’appoggio aperto di una ventina di ayatollah d’alto rango; ha sconfitto facilmente il candidato dei «duri» religiosi, appoggiato dall’ayatollah Mesbah Yazdi, che ha avuto solo il 2% dei voti. E già critica la politica economica del governo, che ha portato inflazione e spese pubbliche insostenibili, così presentandosi come paladino della povera gente – l’immagine che ha portato al potere Ahmadinejad, «sindaco dei poveri» di Teheran.

S’intende, né questo gruppo di pragmatico-tecnocrati né l’ala genericamente detta «riformista» hanno ottenuto la maggioranza. E i tecnocrati alla Larijani detestano i «riformisti», sicchè non faranno un governo insieme.

Però oggi il nuovo parlamento è molto meno centralizzato e dominato dal giro di Ahmadinejad,  non è affatto escluso che le due ali formino una coalizione opportunista contro la fazione che sostiene Ahmadinejad, visto da entrambi i gruppi come l’avversario primario da abbattere.

Anzi, Amir Ali Amiri, il portavoce dei tecnocrati (CUF), l’ha detto molto chiaro: «L’ottavo parlamento (uscito dalle elezioni) è quello in cui i critici (del governo) hanno la maggioranza. Naturalmente, se il governo insiste con questa sua politica, la maggioranza del parlamento gli dovrà fare opposizione». E questa è una minaccia seria, perché il parlamento iraniano ha notevoli poteri costituzionali, dice Kamal Nazer Yasin: può decretare l’mpeachment dei ministri e dello stesso presidente, porre il veto a leggi del governo e farne di sue.

Ha un peso rilevante nella diversa allocazione di risorse nel bilancio; «in particolare, l’egemonia sul parlamento può, attraverso le reti clientelari locali, avere incisiva influenza sulle elezioni presidenziali». Questo parlamento potrebbe - poniamo - anche firmare i nuovo protocolli aggiuntivi che la IAEA (ONU) richiede da Teheran sulla questione nucleare, o al contrario, più «falco» di Ahmadinejad, potrebbe votare l’uscita dell’Iran dal Trattato di Non-Proliferazione. Può insomma scavalcare Ahmadinejad a «destra» o a «sinistra». Non è poco.

Ecco perché Ahmadinejad non è il nuovo Hitler, come lo etichetta la propaganda israeliana:
non foss’altro, il vecchio Hitler non aveva, né avrebbe tollerato, una Camera del genere, con tali poteri. E probabilmente, il «nuovo Hitler» non sarà più al potere nel 2009. Il regime di Tejeran è qualcosa di molto più sottile e sofisticato di un totalitarismo.




1) Kamal Naser Yasin, «Iran: a new balance of forces», International Relations and Security Network, 19 marzo 2008.


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