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Per finirla col complottismo
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Lo sguardo distratto colse il titolo di un almanacco esposto tra i periodici in bacheca: «Il complotto: teoria, pratica, invenzione» (1).
Negli ultimi anni le opere pubblicate con un contenuto simile si sono rincorse ed il più delle volte sono state apostrofate di pessimi giudizi.
Il fascicolo questa volta aveva il «merito» di recare le firme di Popper, Cardini, Giorello, Eco, Riotta, Banville e molti ancora a me poco noti.
Cattiva consigliera, la curiosità.
Ma il fatto che alcune firme importanti si fossero mosse per rendere il proprio giudizio sul tema, esercitava un fascino irresistibile.
Franco Cardini, in particolare, che da tempo ha scelto di far sentire le  sue ragioni sulla questione, avrebbe certamente meritato una lettura attenta.
Va detto però che l’impressione che ne ho ricavato alla fine è stata quella della inadeguatezza delle diverse proposizioni.

Popper ha fatto ricorso ad una «teoria sociale della cospirazione» mentre Giorello è stato costretto a puntualizzare che il dibattito sulla cospirazione si svolge necessariamente nel quadro di un «rigoroso individualismo»; Eco poi ha preferito ricorrere, come esempio abusato di letteratura del complotto mondiale, ai «falsissimi» Protocolli dei Savi di Sion e ad inserire nella questione il concetto soggettivista di «psicologia» del complotto aggiungendo che «L’interpretazione sospettosa in un certo senso ci assolve dalle nostre responsabilità perché ci fa pensare che dietro a ciò che ci preoccupa si celi un segreto…».
Insomma, i complottisti passati per possibili psicopatici, anche un po’ ansiosi ed un po’ irresponsabili.

In quasi tutti gli autori si è potuto notare l’uso sinonimico dei termini «complotti» e «complotto».
Solo Cardini marca la differenza dei primi nei confronti di un unico Grande Complotto ma si riserva l’eccezione secondo cui il concetto di un GC incontrerebbe una vera e propria difficoltà logica: la storia sarebbe troppo complessa per essere messa sotto tutela da parte di una «paraideologia» qual è il complottismo.
Mostrando di conoscere alcuni dei «cattivi» maestri (Malinski e De Poncins), da storico di vaglia fornisce un patrimonio importante di dati, sottolinea la concorrenza di sette occulte e si avvia a conclusione  gratificando così i Protocolli dei Savi di Sion: l’«infame best seller antisemita» presunta prova documentale dell’esistenza del complotto.

Tralascio il commento sul giudizio di valore circa l’infamità; mi è sembrato un giudizio particolarmente inopportuno perché avrebbe dovuto essere lasciato agli ideologi di professione, specie se attribuito ad uno scritto vecchio di cent’anni.
La dichiarazione più o meno autorevole circa la loro falsità sembra mettere d’accordo tutti e ciò accade perché in realtà elude la natura del problema.

Evola, già molto tempo fa, aveva liquidato la questione richiamando l’attenzione su un carattere adiacente alla verità/falsità dei Protocolli: non si tratterebbe di una loro veridicità ma della loro verosimiglianza; poco importa se i Protocolli siano o meno falsi: dal 1905, dice Evola, i Protocolli si realizzano con preoccupante puntualità.

Il Cardini dell’ultima riga scrive: «Venticinque secoli di storia dimostrano ampiamente che il ventre che partorisce i GC [Grandi Complotti ndr] è sempre gravido».
Sembra che abbia voluto fare il verso alla generosa quantità di cretini che popola il mondo, ma devo dire che pensare la cosa a carico, ad esempio, di Pierre de Villamarest mi è apparso di nuovo fuori luogo.
Giovanni Mariotti riporta la frase di Henry Ford, l’autore di «L’ebreo internazionale», secondo il quale i Protocolli «coincidono con quanto sta accadendo».
Si tratta, in sostanza, dell’argomentazione prodotta da Evola.
Ciononostante Mariotti ripete il luogo comune: i Protocolli sono un falso.
Termina ribadendo l’equivalenza fra complotti e Grande Complotto e gratificando i complottisti di un «genialmente idioti», «geniale» ossimoro che ancora non avevo incontrato.

Bisogna giungere al pezzo di Leopoldo Fabiani per leggere finalmente un’ipotesi interessante: «il complotto è cambiato».
E precisa: con l’assassinio di Kennedy esso non partirebbe più dal basso diretto alla conquista dello Stato o contro istituzioni o privati, ma realizza per la prima volta uno scontro ai vertici dello Stato.
Questa volta il cospirazionista si becca un bel (ma non nuovo) epiteto di «paranoico».
Alla ricerca di una causa razionale che giustifichi tutti gli eventi, i complottisti non si accorgono di incorrere nel massimo della irrazionalità e, per questa via, si perderebbe «la luce della ragione per le tenebre del complotto».
Così sentenzia Gianni Riotta non peritandosi, come la maggior parte dei critici, a spiegare quale sarebbe il processo razionale che, razionalmente, condurrebbe a determinare l’illogicità dei processi mentali del complottista.
Tuttavia egli ritiene di poter certificare che i complotti esistono.

Subito dopo passa a trastullarsi con un lungo elenco di curiosità che indurrebbero i complottisti a «godere» (sic) dopo aver letto il cumulo delle coincidenze.
«Frustrato e bilioso», il complottista, sarebbe privo di umiltà e saggezza, dice Riotta.
Passi per il frustrato, ma bilioso non sembra essere una costante temperamentale dei cospirazionisti.

Per leggere lo scritto più meditato inserito nel volume occorre giungere all’elaborato di Danilo Taino.
Qui finalmente vi è di che leggere a proposito di Carroll Quigley, della Trilateral, del Bilderberg, del CFR e del Rhodes Scholarsip .
Si fa anche questione della moneta e dell’oro; del giocare sui tavoli opposti della politica che la tecnica fabiana ha dettato per le strategie di dominio.
Si pensi, ad esempio, ad Al Gore, impegnato contro il riscaldamento del pianeta e contro i demo-conservatori USA che conducono, cospirando, la loro politica di potere e danaro.
Si pensi anche alla figura di Jacques Attali e alla Commissione che porta il suo nome, tutto apparentemente enigmatico ma capace di dire da «sinistra» le cose da fare con la «destra».
Danilo Taino si esercita in interessanti considerazioni, come quando afferma che «Si trattava di trovare il sistema commerciale e quello finanziario migliori per accompagnare e sostenere gli interessi dell’impero britannico prima e poi della sua propaggine economico-finanziaria americana. Non erano un’ideologia astratta il liberismo negli scambi e la base aurea negli affari monetari: erano, più prosaicamente, le forme ideologiche che meglio difendevano e sostenevano gli interessi dell’impero britannico in quegli anni».

E a les angles indirizzo una considerazione: tra i molti indizi che suffragano l’ipotesi dell’esistenza di un Grande Complotto potrebbe esserci proprio questo: mentre gli USA sono impegnati in una sovraesposizione mediatica spesso in negativo, les angles, pur possedendo, in termini di potere euro-occidentale un enorme capacità, riescono a tenersi sufficientemente defilati, poco percepiti, gratificati da un elevato soft power (l’espressione è di Joseph Nye, «Il paradosso del potere americano», Einaudi)
grazie al quale, ad esempio, in Iraq, hanno sofferto, in termini di immagine, molto meno degli USA; e se non fosse per il senatore USA, Lyndon LaRouche che provvede a ricordarne le pesanti influenze nel mondo e negli stessi USA, les angles riuscirebbero a far pensare di sé l’abusato falsissimo ritornello di gentiluomini per vocazione.

Taino, tuttavia, applica un correttivo.
Si badi, dice: altro è elencare i misfatti, per quanto nefasti, di una intera casta di capitalisti (peggio, di capitalisti finanziari) altro è pretendere di cavare dalle loro macchinazioni elementi di prova a carico di un vertice, responsabile di un complotto, capace di scalare il mondo.
In altri termini, dice: guai a leggere la storia «attraverso la lente del complotto».
Insomma la questione sembra convergere sulla prova.

Effettivamente se il complotto fosse provato, il problema sarebbe risolto.
Ed allora, aspettarsi una prova documentale sarebbe come chiedere al reo di sottoscrivere la propria confessione.
E’ evidente che in un clima che fa del segreto la sua ragione di esistere, significherebbe volersi dare degli ostacoli quasi insormontabili e comunque costruire ipotesi o teorie necessariamente suscettibili di essere smentite.
Molti ricorderanno, ad esempio, di aver letto della vicenda Taxil il quale riuscì a dichiarare e smentire una gran massa di dati nel breve arco di pochi lustri.
Dunque anche la prova documentale, specie se collocata in regime di pieno controllo dei media da parte delle élite di comando, può essere messa in grado di non nuocere.
Resterebbero i fatti, le dichiarazioni, le coincidenze, le cause (prime, seconde, ecc.), le curiosità e così via.

Una simile casistica esporrebbe però il suo lato debole alla controversia dell’interpretazione.
Ed è questo l’ambiente entro il quale il complottista assolve al compito che si è dato, tentando di pervenire alla evidenza da cui scaturirebbe la verità.
Siamo nel vero, dicono, perché è evidente che se in testa ad un determinato soggetto si possono ascrivere una serie di curiosità, di dichiarazioni, di coincidenze, di rapporti ed interessi evidenti, può considerarsi provata la sua partecipazione al complotto.
Dunque ancora una volta si fa questione di prove.

In tale ambito ricordo che lo schema metodologico di ricerca che a me sembra più corretto, su cui anche gli scettici non possono che concordare, sia quello indiziario.
E’ pur vero che il concetto è stato preso in prestito dal nostro codice civile (dall’articolo 2729 che si trova appunto nel Titolo dedicato al regime delle prove e che prescrive al giudice di prendere in considerazione solo quelle presunzioni (o indizi) che siano state da lui giudicate «gravi, precise e concordanti»), ma è anche vero che il senso comune suggerisce che se un tale «espediente» può essere decisivo per gli esiti di un processo civile, a maggior ragione esso potrà essere utilizzato come metodo nella formulazione del giudizio ordinario, e anche nella attività conoscitiva della ricostruzione storica esercitata pure dai complottisti!
Occorre dire però che i complottisti non vanno confusi con i cattivi maestri, con coloro, cioè che a suo tempo furono colpiti dalla damnatio memoriae.

Costoro purtroppo costituiscono riferimento significativo solo per gli specialisti, come è accaduto Per Virion, De Villamarest, Coston, Moncomble, Cochin, Fay e agli altri molti scrittori che, vissuti in tempi lontani, rivelarono l’esistenza di complesse connessioni stabilitesi fra fatti individuali ed avvenimenti collettivi finalizzati al sovvertimento dell’ordine naturale secondo un disegno (il complotto) articolato e predefinito.
I complottisti, invece, sono coloro che hanno solo l’ardire di condividere le ipotesi dei cattivi maestri e di tentare di ripercorrere i tracciati da loro indicati; ai complottisti  viene rimproverato di volere immaginare che un avvenimento possa avere una doppia natura, una storica ed una ideologica, una oggettiva (da assumere nella sua letteralità) ed un’altra soggettiva (da assumere nella sua valenza semantica).
Il complottista, si dice, imprigionato com’è nel perimetro della sua visione d’insieme, addirittura arriva a spregiare il dato storico a vantaggio di una sua presunta valenza semantica.
In altri termini, un fatto assumerebbe la consistenza della tessera di un mosaico (il complotto) e la sua ragion d’essere apparirebbe necessitata, non casuale, né frutto di eterogeneità finalistica.
Per costoro un fatto nascerebbe come parte di un progetto occulto (il complotto) l’esistenza del quale andrebbe provata.

In questo senso credo che la prova possa essere raggiunta più agevolmente ed essere più credibile se l’indagine utilizza il procedimento indiziario, graduato secondo  gravità, precisione e concordanza del fatto con altri.
Ciò significa che resterebbero esclusi dall’indagine indiziaria molti fatti/curiosità, fatti non riscontrabili o fatti la cui concordanza appare approssimativa.
Facciamo l’esempio di Veltroni: partecipa ad una sola sessione del Bilderberg (quella del 1996); a distanza di circa dieci anni si impone sulla scena politica nazionale con i crismi della determinazione permanente.
E’ possibile stabilire un nesso fra il gruppo Bilderberg e l’eventuale presidente del consiglio?
Esistono fatti gravi, precisi e concordanti che ci consentono di affermare che il Gruppo Bilderberg un giorno potrebbe governare direttamente il nostro Paese?

Per il prosieguo mi atterrò allo schema, già più volte ricordato, offertoci da Honoré de Balzac che, da illustre martinista, scrisse: «Vi sono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata, la storia ad usum delphini e la storia segreta, ove troviamo le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa» (2).
Il martinisno, secondo Carlo Gentile, «è un ordine illuministico e sta fra la Massoneria e il mondo spirituale occulto: l’origine è naturalmente rosicruciana».
Il brano è riportato dal sempre prezioso Epiphanius (3).

E’ opportuno ricordare che, alcune pagine prima, l’autore aveva richiamato un altro brano particolarmente significativo «La Massoneria, che non è che una rivoluzione in azione, una cospirazione permanente contro il dispotismo politico e religioso, non s’è attribuita da sé i propri simboli…» (4).
Il brano è tratto da un volume fuori commercio (il cui frontespizio è riprodotto nel testo di Epiphanius) edito a Firenze nel 1945 che venne definito come «un documento ultrasegreto… destinato agli Alti Gradi Amministrativi dell’Istituzione» (5) da Padre Giantulli, (S.J.), profondo conoscitore del mondo massonico, sulla competenza, attendibilità del quale credo esistano pochi dubbi.

Il doppio piano di avvenimenti pensato da Balzac, e dunque il doppio piano di logiche, di fini, di strategie,  di strumenti, insomma, di realtà vere - ben diverse da quelle, dissimulatrici delle vere, che vengono ostentate quotidianamente dai media - costituisce a mio avviso il canovaccio autorevole da utilizzare nelle indagini «dietrologiche» e in quelle «complottiste».

Giuliano Rodelli

                                              


1) Ranieri Polese (a cura), «Il complotto. Teoria, pratica, invenzione», Guanda, 2007.
2) Honoré de Balzac, «Le illusioni perdute», New Compton, 2006 pagina 410.
3) Epiphanius, «Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia», Litografia Amorth s.d. pagine 71 e seguenti.
4) Ivi.
5) Ibidem, pagina 69 numero 87.


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