L'enigma Giovanni XXIII: l'origine «fallibile» del Vaticano II (IV ed ultima parte)
Ci sono elementi tangibili per conoscere
l'origine del Vaticano II.
Essi vanno dal piano delle logge di formare un clero modernista che
fornisse un Papa per convocare un Concilio, secondo i bisogni dei
tempi rivoluzionari, al programma, oggi ribadito anche da Benedetto
XVI, di inserire con questo nella Chiesa i «migliori
valori» dell'Illuminismo.
«Dai frutti li conoscerete»; chi se non gli
ispiratori e i realizzatori di tali piani?
Si è visto che per attuarli una legione di novatori ha
operato e opera ancora per la completa mutazione della Chiesa,
ridotta ad animatrice della democrazia ecumenista globale.
Ma poiché tale «frutto finale» è
presentato dai vertici come «elemento essenziale per
l'autenticità della
religione», una
moltitudine di cattolici sono passati dallo stato di dubbio a
quello d'apostasia, senza nemmeno accorgersi in quale
«sofisma religioso» sono stati irretiti.
Di cosa si tratta?
L'illuminismo, venendo a succedere al «profondo
teologo» Martin Lutero, ha introdotto il «fai
da te» della coscienza, dopo il «fai da
te» della fede diffuso da Lutero.
La coscienza non sarebbe più la norma prossima dell'agire
(1), di cui la norma superiore, la
«regula agendi», è la legge
naturale e divina (2) stabilita da Dio.
Non più quindi l'orologio personale che dobbiamo adeguare
all'ora effettiva, ma il fatto che disponiamo di un'ora a
piacimento che dipende solo dai nostri gusti personali.
La mentalità luterana elimina l'«atto»
della fede, perché non vuole più sottoporre
l'intelligenza personale alla interpretazione autorevole della
rivelazione data dal magistero della Chiesa, la quale è
infatti la «regula Fidei».
Ma a tale mentalità, assorbita «de
facto» anche in ambiente cattolico, si viene a sommare
pure l'anzidetta degenerazione riguardo alla coscienza, che si
separa dai sicuri ancoraggi della legge naturale e divina per darsi
ai flutti del sentimentalismo, e così alla mercè
d'ogni vento delle idee dominanti.
Con ciò si realizza una ipertrofia della coscienza e si
compie una trasposizione oggettivamente fraudolenta della medesima,
che dal piano delle decisioni riguardanti l'agire va ad usurpare
anche il dominio dell'intelligenza al quale apparteneva
l'«atto» della fede, cioè l'adesione
razionale all'insegnamento della Chiesa.
E la coscienza, divenuta erronea perché disancorata dai suoi
corretti riferimenti e conformata solo alle più comode idee
mondane di larga diffusione mediatica, si erge a norma non solo
dell'agire, ma pure del credere.
Ecco la rivoluzione clericale innescata dal piano modernista.
Quindi per capire la matrice dell'apostasia
attuale dobbiamo ripercorrere il corso del processo
modernista, che aliena il concetto dicoscienza
retta, formata nella verità - rivelata
infallibilmente - per seguire l'idea della «coscienza
libera» che si ritene «degna e
retta» in base ai propri giudizi derivati dal progresso
delle scienze e dai bisogni dei tempi.
Ecco il fulcro della questione descritta da san Pio X nella
condanna al modernismo («Pascendi»):
parificano la rivelazione divina alla coscienza.
San Pio X «condanna il 'Sillon': Alla base di tutti i
loro errori sulle questioni sociali, si trovano le false speranze
dei Sillonisti sulla dignità umana. Secondo loro, l'Uomo
sarà un uomo veramente degno di tale nome solo quando
avrà acquisito una consapevolezza forte, illuminata, ed
indipendente, capace di fare a meno di un maestro, ubbidendo solo a
se stesso, e capace di assumersi le più gravi
responsabilità senza turbamenti. Tali sono le grandi parole
con cui viene esaltato l'orgoglio umano, come un sogno che conduce
l'Uomo lontano senza luce, senza guida, e senza aiuto nel regno
dell'illusione nel quale egli sarà distrutto dai suoi
errori e dalle sue passioni mentre attende il giorno glorioso della
sua piena consapevolezza».
Secondo questi filosofi [sillonisti], il primo elemento
della dignità dell'uomo è la
libertà, intesa, però, nel senso che, ogni
uomo è autonomo
fuori che in materia di religione.
Fuori che in materia di religione?
Certo, nessun cattolico e meno ancora un consacrato avrebbe potuto
pensare che qualcuno in nome della religione potesse andare oltre
le teorie del «Sillon» condannate da
Magistero.
Eppure, il Vaticano II le ha riprese superandole con la
dichiarazione «Dignitatis humanae» (7 dicembre
1965), nella quale dichiara, in nome dell'autorità della
Chiesa, il «diritto alla libertà
religiosa», il cui fondamento è la
dignità della persona umana,
«quale si conosce, sia per mezzo della parola di Dio
rivelata che tramite la stessa ragione» (confronta
Giovanni XXIII, «Pacem in terris», 11aprile
1963).
«Questo diritto della persona umana alla libertà
religiosa dev'essere riconosciuto e sancito come diritto civile
nell'ordinamento giuridico della società» (6,
d.).
Il magistero di san Pio X aveva condannato in anticipo questa
dottrina sillonista e democristiana che, suffragata dal Vaticano
II,
superò ogni limite precedente sostenendo che il diritto
all'autonomia di ogni uomo, anche in materia di
religione, è fondato sulla
Rivelazione.
La stessa dottrina del «Sillon», condannata
all'inizio del secolo da un Papa santo, è stata superata
per essere ufficializzata da
quell'assemblea conciliare, alla luce dei «segni dei
nostri tempi».
Dio vorrebbe la libertà religiosa per i tempi moderni!
Quindi Dio, secondo Giovanni XXIII, Paolo VI e correligionari, non
solo ha dato all'uomo la religione del frutto proibito, secondo il
bene della Sua legge, non solo la
«libertà» psicologica per cui l'uomo
può scegliere anche il male e perdersi, ma anche una
«religione» della libertà nel
«bene soggettivo» e nel male
oggettivo!
La «religione fai da te» sarebbe voluta da
Dio!!!
Giovanni Paolo II, nel «Messaggio per
la celebrazione della giornata mondiale della pace» (8
dicembre 1998), ha dichiarato: «La libertà
religiosa costituisce (...)il cuore stesso dei diritti
umani. Essa è talmente inviolabile da esigere che alla
persona sia riconosciuta la libertà persino di cambiare
religione, se la sua coscienza lo domanda».
Ma come, non solo la libertà di passare da una falsa
religione alla vera, storicamente rivelata, ma la libertà di
negarla e avversarla in favore di una propria scelta religiosa
è il cuore di un «diritto umano»,
perciò di un bene per l'uomo?
Tale «diritto» lo può predicare
l'Illuminismo della Rivoluzione Francese, russa o cubana, ma un
Papa o un Concilio ecumenico della Chiesa cattolica come potrebbe
farlo senza svelarsi in grave contraddizione proprio verso le
coscienze?
Se è proprio la religione che deve formare le coscienze,
come potrebbe invitarle alla libertà religiosa, che implica
libertà morale?
Essa suppone l'inesistenza di Dio e della sua legge e religione.
Sarebbe un invito all'apostasia in nome dello stesso insegnamento
di Gesù Cristo: «Predicate a tutti la Buona
Novella. Chi crederà sarà salvo, chi non
crederà sarà condannato».
Poiché questa religione dell'apostasia, che è quella
del Vaticano II, oggi è più praticata che compresa,
si deve capire il suo «sussurro» demoniaco
alla luce degli abbagli che essa ha seminato nella storia fino al
presente.
Il concetto cattolico di libertà e di
dignità
Leone XIII («Libertas», 20 giugno
1888): «La libertà, dono di natura nobilissimo,
è proprio unicamente degli esseri intelligenti o ragionevoli
e conferisce all'uomo questa dignità, di essere in mano del
suo consiglio ed avere intera padronanza delle sue azioni. La qual
dignità però importa moltissimo
come sia sostenuta, perché dall'uso della libertà
derivano del pari e sommi beni e sommi mali. Può infatti
l'uomo obbedire alla ragione, seguire il bene morale e tendere
diritto all'ultimo suo fine; e può invece mettersi in
tutt'altra via, e correndo dietro a false immagini di bene,
turbare l'ordine debito, ed esporsi da se stesso ad inevitabile
rovina. Il nostro Redentore Gesù Cristo, restaurando ed
elevando la dignità primitiva di natura, recò alla
volontà grandissimo giovamento; e... la innalzò a
più nobile segno. Per la stessa ragione assai benemerita di
sì eccellente dono di natura fu e sarà sempre la
Chiesa cattolica, come quella che ha per officio di propagare a
tutti i secoli i benefizi recatici da Gesù
Cristo».
Il libero arbitrio
Leone XIII distingue: «La libertà
naturale, (d'ordine psicologico)è principio e
fonte nativa da cui scaturisce ogni altra libertà. Essa,
'innalzandosi alla conoscenza delle ragioni immutabili e
necessarie del vero e del bene, è in grado di giudicare
della contingenza dei beni particolari'. Ora, come la
semplicità, spiritualità ed immortalità
dell'anima, così la libertà sua nessuno afferma
più alto, nessuno con più costanza difende della
Chiesa cattolica, che le insegnò sempre, e le sostiene qual
dogma».
Si tratta della responsabilità umana: risposta dovuta
anzitutto a Dio.
Libertà morale
«Poiché ogni mezzo ha ragione di bene utile, e il
bene, in quanto bene, è oggetto proprio dell'appetito, ne
segue che il libero arbitrio è dote della volontà,
anzi è la volontà stessa, in quanto ha,
nell'operare, facoltà di elezione».
Il bene voluto è conosciuto da un giudizio della ragione.
Così la volontà, come la libertà che ne
deriva, ha per oggetto il bene conforme alla ragione.
La possibilità di errare, per difetto di giudizio,
«dimostra che siamo liberi, come la malattia, che siamo
vivi, ma dell'umana libertà non è che
difetto».
Discorre su ciò san Tommaso: «Il poter peccare non
è libertà, ma servaggio».
Basti quel che egli dice commentando le parole di Gesù
Cristo: «Chi fa il peccato è schiavo del
peccato» (Giovanni 8, 34).
«L'uomo è ragionevole per natura […]
si muove da sé e però da libero, quando opera
secondo ragione: ma quando opera contro ragione, come fa quando
pecca, allora egli è mosso quasi da un altro, e tirato e
imprigionato nei termini altrui: chi fa il peccato ne è
schiavo».
La libertà e la Legge: «Tale
essendo dunque nell'uomo la condizione della sua libertà,
troppo era necessario avvalorarla di lumi ed aiuti, che in tutti i
moti suoi la indirizzassero al bene e la ritraessero dal male;
altrimenti di grave danno sarebbe riuscito all'uomo il libero
arbitrio».
«E primieramente fu necessario porgli una legge, ossia
una regola di ciò, che si ha da fare ed omettere... Nello
stesso arbitrio dell'uomo adunque, ossia nella morale
necessità che gli atti volontari nostri non discordino dalla
retta ragione, va cercata, come in radice, la prima causa
dell'esserci necessaria la legge. E nulla può dirsi o
concepirsi più perverso e strano di quella massima: che
l'uomo, perché naturalmente libero, deve andare esente da
legge; il che, se fosse vero, ne seguirebbe che per essere liberi
dovremmo essere irragionevoli. Ma la verità si è che
proprio per questo l'uomo va soggetto a legge, perché
è libero per natura».
«L'uomo, per necessità di natura, trovasi in una
vera e perpetua dipendenza da Dio, così nell'essere come
nell'operare, e però non può concepirsi umana
libertà se non dipendente da Dio e dalla sua divina
volontà. Negare a Dio tale sovranità, o non volervisi
assoggettare, non è libertà ma abuso di
libertà e ribellione, e in siffatta disposizione d'animo
consiste appunto il vizio capitale del liberalismo. Il quale
però prende molte forme, potendo la volontà in modo e
gradi diversi sottrarsi alla dipendenza dovuta a Dio e a chi ne
partecipa la autorità».
La vera libertà consiste nel fatto che l'uomo possa vivere
secondo il bene e il fine per cui fu creato con l'aiuto
dell'ordinamento
giuridico della società.
La libertà fisica e sociale dev'essere pertanto
condizionata dalla legge, cioè se qualcuno abusa della
propria libertà contro il bene e la libertà comune,
la società ha il diritto e il dovere d'impiegare la
coercizione per impedirlo.
Ecco il corollario inevitabile del problema della libertà
umana: perché la legge sia rispettata, assicurando la
libertà generale,
l'autorità deve poter coagire e perciò, essere
valutata come servizio alla libertà di tutti.
Può questa vera libertà dispensare la verità
rivelata da Dio per il bene umano?
La controreligione illuministica
L'illuminismo voleva, però, aggiungere un suo
«valore» a questa libertà dell'uomo
affinche fosse simile, o anche meglio di Dio,
conoscendo il bene e il male.
Ora vediamo le tappe oscure che questo piano, il più
ambizioso dell'intera creazione, ha percorso nei tempi moderni,
fino al Vaticano II.
Che gli uomini conoscessero per istinto il rischio della tirannide
di una libera creatività umana è attestato dal
sospetto con cui erano visti perfino i poeti nel passato.
L'Umanesimo ha invertito questo spirito e ha aperto la cultura ad
ogni idea, iniziando la riforma mentale.
Non importava più quel che si doveva sapere, ma conoscere
sempre più di tutto.
E un nuovo concetto d'istruzione è prevalso, covando le
rivoluzioni moderne che, a loro volta, passarono al piano
universale,
irreversibile, della nuova istruzione, dell'apertura verso la
speranza di un ammirabile mondo futuro, rimasto precluso all'uomo
da una greve mentalità religiosa.
Erasmo è stato un grande precursore di
quest'apertura professando in campo teologico che «ogni
uomo ha in sé la teologia», ed è
«ispirato e guidato dallo spirito di Cristo, sia esso
scavatore o tessitore».
Lo scrittore Jacques Ploncard d'Assac, nel suo libro
«L'Eglise Occupée» (Edizioni de
Chiré, Vouillé, 1972), parla delle
conseguenze di queste idee fino ai nostri giorni, partendo dalla
battuta di un monaco di Colonia: «Erasmo ha messo le
uova, Lutero le farà schiudere».
In esse c'era il sussurro invitante la coscienza umana ad
emanciparsi, questa volta, però, in nome dello spirito
«ordinatore» di Cristo.
Sono le idee apparse nei secoli scorsi a delineare oggi la
mentalità dei profeti della rivoluzione conciliare.
Come riconoscere tali profeti?
«La Chiesa è intransigente nei princìpi,
perché crede; tollerante nella pratica perché ama. I
nemici della Chiesa sono tolleranti nei princìpi,
perché non credono; intolleranti nella pratica,
perché non amano» (padre Garrigou Lagrange,
«Dieu, son existance et sa nature», volume II,
pagina 725).
Giovanni XXIII rilancia l'ambiguità
erasmiana nella «Pacem in terris», che,
essendo il riferimento più citato nella
«Dignitatis
Humanae», chiaramente contiene la frase chiave della
revisione conciliare sui concetti di dignità umana e
libertà religiosa: «In
hominis iuribus hoc quoque numerandum est, ut et Deum, ad
rectam conscientiae suae normam, venerari possit, et
religionem privatim publice profiteri»; cioè
«ciascuno ha il diritto di onorare Dio seguendo la retta
norma della propria coscienza e di professare la propria religione
in pubblico e in privato» (AAS 55, 1963, pagina 260).
Ecco l'ambiguità rilanciata: si tratta di norme divine su
cui si fonda la «retta coscienza», o di una
«retta norma», come giudizio della propria
coscienza autonoma?
L'abbozzo di quest'ambiguità di Erasmo era stato
condannato dalla Chiesa nel passato.
Nei nostri tempi essa ritorna rinforzata da Giovanni XXIII, per
delineare il piano di «aggiornamento»
conciliare.
L'ambiguità si rivelerà la copertura lasciata cadere
con l'opzione della «Dignitatis Humanae» per
una «coscienza autonoma».
Dalla «Pacem in terris»
alla «Dignitatis humanae»
Nella «Dignitatis Humanae»
«Seguono una citazione di Lattanzio e un'altra di Leone
XIII, ma né l'una né l'altra provano la
proclamazione fatta, poiché Lattanzio parlava del diritto
dei cristiani a praticare la loro religione nell'impero romano e
Leone XIII precisava di quale libertà intendeva parlare,
cosa che non fa invece l'enciclica di Giovanni XXIII.
In questa, infatti, l'assenza di ogni precisazione fa sì
che la proclamazione del diritto di ogni uomo a professare la
propria religione possa cadere sotto i colpi della condanna del
liberalismo fatta da Leone XIII, proprio nella 'Libertas' di cui
nella 'Pacem in terris' si cita un passaggio... procedimenti di
tal fatta non sono onesti intellettualmente»...
Il senso della «Dignitatis Humanae»
«è il senso percepito dal padre Rouquette, che
scriveva in 'Études' del giugno 1963: La 'Pacem in
terris' è di fatto un evento
che, per gli storici futuri,
segnerà una svolta nella storia della
Chiesa». (monsignor F. Spadafora, Tcc, pagine
240/1)
La «Dignitatis
Humanae» è basata sulla versione
eterodossa della «Pacem in
terris».
Ecco il riassunto del testo postumo del padre Joseph de SainteMarie
pubblicato dal «Courrier de Rome» (maggio
1987) e da «Itinéraires», (luglioagosto
1987): «Padre Laurentin lo testimonia... scrive 'questo
diritto della persona... non è un'innovazione
conciliare', […] questa formula 'che inizialmente
era stata assunta tale e quale, non può essere mantenuta se
non a costo di attenuazioni. Tuttavia, la dichiarazione presa nel
suo insieme non scioglie certe ambiguità, ma perfino fa
deduzioni su quanto era stato volontariamente mantenuto nella
'Pacem in terris' '. Ecco una confessione da considerare e padre
Laurentin dice da chi l'ha avuta: padre Pavan (il teologo di
Giovanni XXIII) in 'Libertà religiosa e Pubblici
poteri', Milano, 1965, pagina 357. Strano modo di insegnare la
verità».
La formula ambigua della «Pacem in
terris» «può cadere
sotto la condanna del liberalismo della 'Libertas' di Leone XIII,
della quale si cita un brano... Senza dubbio troviamo qui una delle
'ambiguità volontariamente mantenute' di cui parla padre
Laurentin. A cosa serve invocare l'espressione 'seguendo la
giusta norma della coscienza' per dire che si tratta qui della
libertà religiosa concepita correttamente? Poiché
siamo di nuovo di fronte ad una ambiguità. Si sa che la
morale cattolica riconosce il diritto e proclama il dovere, di ogni
uomo, di seguire il giudizio della 'coscienza retta':
conscientia recta. S'intende con ciò il
giudizio di una coscienza formata secondo le norme della
virtù della prudenza e che si è conformata alla
verità. Questa nozione classica si trova perfino nella
'Gaudium et spes', 16. Di questa coscienza retta si proclama
ladignità, che si estende fino alla
coscienza invincibilmente erronea, quella di
una persona che è nell'impossibilità morale e
pratica di liberarsi dall'errore in cui si trova».
La coscienza perde la sua dignità nel
momento in cui aderisce all'errore per negligenza colposa.
«L'ambiguità della 'Pacem in terris' appare
nella redazione latina del testo, che parla dellarectam
conscientiae suae normam, cioè della 'norma
retta della coscienza'. Si deve intendere il riferimento alla
norma della 'coscienza retta' o di una 'norma retta', che
sarebbe ogni giudizio in coscienza? Ognuno può capirlo come
crede; e in ciò consiste l'ambiguità. Ognuno la
applicherà perciò ugualmente nel senso che vuole, ma
l'enciclica ha in se stessa un moto interno che ci dice in quale
senso, secondo essa, tale 'libertà' dev'essere intesa.
E' il senso inteso da padre Laurentin e da padre Pavan,
così come dai periti conciliari della 'libertà
religiosa'. Senza dubbio, continua immediatamente: non un
cambiamento dei princìpi della antropologia cattolica,
fondata sulla Rivelazione, ma una presa di posizione nuova
visàvis del mondo moderno. Soltanto questo?
Forse si può anche dire questo della 'Pacem in terris', a
causa delle 'ambiguità volontariamente mantenute', ma
ciò non è più possibile dopo la 'Dignitatis
humanae', titolo della dichiarazione conciliare, dove si trovano
princìpi che furono essi stessi cambiati».
«La continuità tra la 'Pacem in
terris' ela 'Dignitatis humanae'
è evidente; lo dimostrano i testi quanto le testimonianze,
incontestabili in questa materia, di padre Laurentin e di padre
Rouquette. Abbiamo visto come il primo lo sottolinei. Ed ecco
quanto diceva il secondo, nella stessa cronaca del giugno 1963,
cioè tra la prima e la seconda
sezione conciliare: 'Tra i diritti derivati dalla dignità
della persona umana, l'enciclica insiste sul diritto ad una libera
ricerca della verità' (non semplice 'tolleranza', ma
'libero esercizio del culto'), e questo è detto con
una confusione di campi e di punti di vista deliberatamente
mantenuti».
«Le posizioni prese in questo modo dall'enciclica
arrivano a proporre il Segretariato per l'Unità nel
progetto dello schema 'De libertate religiosa'; il cardinale Bea,
in un'intervista alla quale ci siamo riferiti, ha indicato che
lì c'era il suo spirito».
«Il paragone (tra il progetto di schema e la
'Dignitatis Humanae') parla da sé e ci permette di
identificare nella persona del cardinale Bea, l'autore del testo
centrale della dichiarazione sulla libertà religiosa, o
almeno, del suo ispiratore principale».
«Il sofisma che si ripete in entrambi i
testi consiste nel passare in modo indebito
dall'affermazione innegabile, evidente e
fondamentale, della libertà essenziale dell'atto di fede,
libertà per la quale ogni pressione su tale atto distrugge
la sua natura stessa, all'affermazione, per niente evidente, e di
fatto negata tradizionalmente dalla Chiesa, di una libertà
parimenti essenziale e illimitata a priori in materia di esercizio
pubblico del culto religioso, qualunque esso sia. (3)
La Chiesa non nega nella pratica, in assoluto, ogni
diritto di pubblica espressione alle altre religioni. In ciò
la sua tolleranza è aumentata nel tempo».
«La 'Pacem in terris' e il Vaticano II si spingono al
punto di mettere in causa gli stessi
princìpi. E' esattamente in questo che
consiste la novità e il problema gravissimo posto
dall'affermazione del testo conciliare 'Dignitatis Humanae': un
diritto alla libertà religiosa nel foro esterno iscritto
nella natura umana e nell''ordine stesso stabilito da Dio',
diritto che si vuole limitato unicamente dalle esigenze d''ordine
pubblico'.
Si noti anche, poiché il fatto è di massima
importanza, un'altra somiglianza tra l'enciclica di Giovanni
XXIII e la dichiarazione del Vaticano II: in entrambi i casi questi
testi, di così pesanti conseguenze per la storia della
Chiesa, e che così si pongono per il giudizio di tale
magistero, non sono potuti venire alla luce che in seguito a gravi
scorrettezze di procedura. Per quel che concerne la 'Pacem in
terris', ecco ancora la testimonianza di padre Rouquette: 'So da
buona fonte che il progetto in questione è stato redatto da
monsignor Pavan, animatore delle Settimane Sociali in Italia; la
sua redazione è stata condotta in gran segreto; il testo non
sarebbe stato sottomesso al Sant'Uffizio, i cui direttori non
fanno mistero della loro opposizione al neutralismo politico
papale. Si è voluto evitare così che il Sant'Uffizio
differisse indefinitamente la pubblicazione del testo, come era
successo con la 'Mater et Magistra'».
«La 'Pacem in
terris' è stata pubblicata
all'insaputa del Sant'Uffizio, essendo stata redatta e
mantenuta segreta dal piccolo gruppo di periti - e di pressione -
del quale era l'opera. Analogo, ma ancora più grave, il
corso seguito dalla 'Dignitatis Humanae'. Le legittime obiezioni
sollevate al piano di dichiarazione dal 'Coetus internationalis
Patrum' non furono ascoltate, ma respinte (confronta
'Rhin', Wiltgen, pagine 243247) ...Come la 'Pacem in
terris', e ancora più di questa, la dichiarazione
conciliare è stata pubblicata in seguito a palesi violazioni
delle regole.
Non fu rispettato nel primo caso almeno il dovere di prudenza; nel
secondo, perfino un diritto esplicito è stato
conculcato».
Conseguenze della contraffazione dottrinale
«Il discorso sugli effetti di questi errori
imposti alla Chiesa da gruppi di pressione per vie oltremodo
subdole grazie alla copertura dell'autorità pontificia o
conciliare sarebbe vastissimo. Ci limitiamo ai titoli principali
sotto i quali continuare la riflessione sulle loro conseguenze ed
implicazioni.
La prima concerne l'autorità del magistero: se la Chiesa
insegna oggi solennemente il contrario di quanto insegnò
fino al 1963, significa che si era prima sbagliata. Ma se si era
sbagliata, è fallibile, e lo è oggi come lo fu ieri.
Che ragione avrei allora per credere in essa ora più che
ieri?
La seconda è che proclamando oggi come principio assoluto il
diritto naturale alla libertà religiosa, la
'dichiarazione' conciliare rappresenta una condanna di massa non
solo dell'insegnamento precedente della Chiesa, ma anche del suo
modo di agire; il che mette in causa non più semplicemente
la sua potestas docendi, ma
anche l'uso della sua potestas regendi. Per
dei secoli la Chiesa avrebbe agito ignorando e conculcando un
diritto naturale fondamentale della persona umana. E la negazione
conciliare dei diritti e dei poteri della società civile in
materia religiosa implica una analoga condanna di tutti i Papi
degli ultimi secoli.
Peggio ancora, dalla concezione non solo laica
ma abbastanzalaicizzante che essa offre, la
dichiarazione conciliare nega i diritti di Cristo sulla
società civile, il che è non solo in contraddizione
con l'insegnamento costante della Chiesa, ma anche con le
verità più fondamentali della dottrina cristiana
della Redenzione. C'è un'empietà in questo, nel
senso proprio del termine, forse non del tutto esplicita, ma a
causa della sua implicazione immediata. […]
Insomma, per tornare al piano dell'ordine naturale, questa
separazione falsa e indebita di quanto concerne la religione
rivelata dell'ordine della società civile risulta nella
completa rovina delle fondamenta stesse di quest'ordine. Il caso
estremo a cui condurranno i princìpi qui esposti sarà
quello dell'esaltazione dello Stato come realtà suprema e
ultima. Forse non sarebbe lui, in ultima analisi, a giudicare le
esigenze dell' 'ordine pubblico', in nome del quale esso
sarebbe abilitato a regolamentare 'la libertà
religiosa'? E' vero, si parla di un 'ordine morale oggettivo'
per fondare questi diritti del potere civile, ma su cosa si
fonderà questo stesso ordine se non si riconosce più
allo Stato alcun dovere verso la religione in quanto tale e verso
la religione rivelata in particolare?».
La filosofia conciliare, ispirata dal monismo
ed evoluzionismo che riduce tutto al principio terreno per servire
il fine che si
prefiggeva: la pace secondo un «ordine nuovo»
del mondo, doveva fornire il suo contributo specifico,
«religioso».
Scartate le «vie filosofiche razionali», anche
dell'idealismo di Croce (che espone al ridicolo il modernismo),
essa andava elaborata in un ambito prettamente clericale, come
utopia religiosa, onde evitare i rischi di una incongruenza
filosofica.
Ecco perciò l'applicazione conciliare della tesi di Karl
Rahner S.J.: del «cristiano anonimo»;
modello centrale di «uomo nuovo»
universale, dell'antropocentrismo
«cristiano», creativo e conciliante. Su tale
idea che, come si vedrà, è la distorsione di un
concetto vero, poggia il processo di unificazione del Vaticano II
nella sua ricerca del «nuovo ordine
religioso».
Essa è anche la base di una «nuova coscienza
incosciente» di redenzione universale
(«Redemptor hominis») che, ispirata in un
«secondo Cenacolo Apostolico», da una
«nuova Pentecoste», farebbe tacere i dubbi
sull'ispirazione, saggezza e bontà dei suoi autori.
Siamo davanti a «ispirazioni»,
«intuizioni», proiezioni di un misticismo alla
rovescia che dovrebbero scalzare i fondamenti della fede cattolica,
che non ignora né prescinde dei termini di ragione.
A Dio è dovuto «un culto razionale»,
come insegna l'Apostolo (Romano 12, 1) e ribadisce il Concilio
Vaticano I (Costituzione «Dei Filius»).
Si vorrebbe, invece, limitare la natura dell'omaggio dovuto
dall'uomo a Dio a un vago sentimento, anche incosciente, mentre la
ragione umana rimarebbe concentrata sulle faccende ed utopie
terrene.
L'elementare sofisma del roncalpensiero
Giovanni XXIII, aprendo il Vaticano II, ha pronunciato
quello strano discorso che molti hanno capito essere farina di
Montini.
Ma l'idea di aprire alle venture del mondo moderno, dominato dal
naturalismo umanistico, padre dell'ecumenismo massonico e del
materialismo socialista, era anche sua.
Anzi, l'idea di farlo bloccando i «profeti di
sventure», non balzava fuori in quel momento tanto
luminoso per lui, ma era una
convinzione portata avanti nella sua lunga militanza modernista,
che irrideva degli allarmi riguardo ai pericoli crescenti ribaditi
dai
Pontefici.
Basta sentire i Papi degli ultimi secoli per capire che
quest'inversione era una meschina rottura, non solo con la totale
visione biblica, dalla Genesi all'Apocalisse, ma con tutti i
Profeti, i Padri e i Santi della Chiesa.
Essi sempre ammonirono, non solo contro le mosse anticristiane del
mondo in generale, ma sui pericoli di un nuovo modo di pensare e di
vivere moderno.
Quindi secondo il «delirio» delle
libertà e dell'indifferentismo in materia di religione
(Enciclica «Mirari vos», 15 agosto
1832); sulla tentazione di conciliazioni impossibili con gli errori
moderni (Enciclica «Quanta cura» e
«Sillabo», 1864); sul pericolo delle false
libertà del liberalismo (Enciclica
«Libertas», 1888) e della Massoneria
(«Inimica vis», 1894); sulle insidie del modernismo e
del suo agnosticismo, collettore d'ogni eresia e sofisma
(«Pascendi», 1908).
Bloccando queste «profezie di
sventura», Giovanni XXIII censurava anche il
segreto di Fatima, col quale la Madre di Dio ricordava che la causa
delle guerre sta nella ribellione umana, che antepone errori
umanistici alla parola di Dio.
C'è perciò da chiedersi: per il
«roncalpensiero» la causa delle due grandi
guerre era da ritrovare nel pensiero umanistico moderno, forgia
delle grandi rivoluzioni, o nel cristianesimo di sempre, che tali
movimenti intendevano distruggere?
La domanda è d'obbligo perché ogni ragionamento
serio indica che riguardo alle disgrazie non c'è da
bloccare chi accusa le loro cause, ma chi le promuove.
Al contrario, Giovanni XXIII e Paolo VI prendevano le distanze dai
«profeti di disgrazie», per aprire con
«immensa simpatia» ai suoi fautori. Potevano
cadere in un sofisma così bieco in rappresentanza
dell'infallibile autorità divina, che contraddicevano?
L'eresia, fulcro di ogni complotto
«L'anello è chiuso. Muovendo dal soggettivismo,
l'eresia modernista vi ritorna detronizzando Dio e mettendo al suo
posto l'Uomo. E' perciò che il Papa (san Pio X),
nello stile preciso dell'epoca, del quale il linguaggio
babelico di questa seconda metà del secolo XX ha perduto il
ricordo, chiama l'immanentismo. Poiché la coscienza umana
non è collegata a nulla che la oltrepassi, essa non
potrà attingere Dio se non in se stessa: 'Esso si trova
nell'uomo stesso'. 'Quindi - rileva il Papa - l'equivalenza fra
coscienza e Rivelazione'. Tutte le verità della fede sono
già contenute nella coscienza dell'uomo - afferma
il Tyrrel in 'Through Scylla and Charybdis'.
Dio non comunica più all'uomo le verità
sovrannaturali per mezzo della Rivelazione. E' l'uomo, che le
scopre in sé medesimo» (Marcel de Corte,
«La grande Eresia», Volpe, 1970).
I profeti del Vaticano II erano consapevoli del bisogno di un
«ordine morale oggettivo» per fondare i
diritti umani da loro attribuiti al potere civile, ma tacevano su
cosa doveva fondare questo stesso ordine perché si
vergognavano di dire che ogni ordine e giustizia si fonda sulla
verità che trascende l'uomo.
Invece, essi non volevano che si riconoscesse più allo Stato
alcun dovere verso la religione in quanto tale e verso la religione
rivelata in particolare.
L'uomo che segue la religione dell'uomo che si fa dio, avrebbe il
diritto non solo di scegliere le sue verità, ma di
coltivarle e insegnarle nel mondo civile e anche religioso; di fare
delle proprie opinioni materia di fede.
Ecco, secondo Paolo VI, «l'uomo quale oggi in
realtà si presenta: l'uomo vivo, l'uomo tutto
occupato di sé, l'uomo che si fa non soltanto centro di
ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione di ogni
realtà». [...]
Tale «nuovo umanesimo», fondato sui
«valori del mondo rinunciatario alla trascendenza, deve
poter fare delle proprie
opinioni un diritto da onorare,
sostenere e benedire».
Oggi quest'umanesimo, che con l'animazione dei gran sacerdoti del
conciliarismo ecumenista, pretende guidare ad un
«ammirabile mondo nuovo», materializza
soltanto un mondo edonista e abortista, demolitore del
cristianesimo.
Ma non sembra che i suoi umanisti si siano ancora accorti che esso
è in via di distruzione, se non per opera dell'Islam, dei
germi d'auto corruzione che si porta dentro.
Sarà necessario arrivare ad uno stato
d'angoscia estrema perché la gente capisca che, col
cristianesimo, sono state demolite anche le naturali e uniche
difese del mondo ordinato alla pace nella giustizia?
Che l'Europa, l'America, il mondo, son gravemente mutilati, non
da membri e organi ingenerati da un'utopica democrazia mondiale,
ma dall'idea stessa di chi sia l'uomo, la sua origine, la sua
condizione nel mondo, il suo fine ultimo.
E poiché tutta la storia umana, dalla caduta originale alla
rivoluzione conciliare, è scritta sulla falsariga
dell'alienazione della parola
divina, oggi siamo al frutto terminale di tanto
«progresso», ossia un'umanità mutilata
dal suo cuore, che non può sentirsi che
naturalmente cristiano.
Finché imperverserà questa nefasta volontà di
trapianto del cuore umano naturale con un adulterato cuore
umanistico, mondialista e conciliarecumenista, che infetta ogni
sano pensiero e impulso umano, prevarrà per
l'umanità il pericolo di una sorda propensione
all'autosterminio.
Daniele Araì
Note
1) «
Col nome di coscienza intendiamo il giudizio
immediato pratico sul valore morale delle azioni che siamo per
compiere. Non è coscienza il giudizio generale in astratto
sul valore morale di un'azione. Questo giudizio si suppone, ma,
perché si abbia la coscienza, si richiede l'altro giudizio
circa il valore morale dell'azione propria, concreta, imminiente.
E' dunque un confronto tra il principio generale e l'azione che
si è per fare», cardinale
Massimo Massimi, «
La Nostra Legge», Libreria
Editrice Vaticana, Roma, 1961, pagina 55.
2) «
La coscienza (antecedente)
è l'araldo della Legge, non solo della legge naturale,
ma anche della legge positiva, divina e umana. Essa dice come
dobbiamo regolare la nostra condotta… E' la guida che ci
mostra il cammino, comandando e proibendo, e anche permettendo e
consigliando. Il giudizio di questa guida non è infallibile,
come non è infallibile la nostra mente. Quindi è
necessario distinguere dalla coscienza vera o retta una coscienza
erronea o falsa», cardinale Massimo Massimi, opera
citata pagina 59.
3) Papa Gregorio XVI lo chiama
«
deliramentum». (vedi enciclica
«
Mirari vos»).