Essere «autentici» prima che cristiani
30 Marzo 2008
«Papà sto male, vieni a prendermi», ha telefonato un ragazzo alla festa
rave. L’ha scritto non ricordo più quale giornale, dopo il brevissimo
clamore suscitato da un concerto «rave» finito col morto per cocktail
di acidi e alcoolici. I raduni «rave» sono vissuti, dai giovani che vi
partecipano, come la trasgressione estrema: adunate di massa senza
autorizzazioni né permessi della questura, eventi clandestini in
capannoni abbandonati molto fuori mano, al fondo di strade sterrate
introvabili. Arrivano con tende e roulottes, vivono notti-giorni-notti
senza dormire, senza interruzione di decibel, fra spazzatura che
s’accumula e urine e feci, e naturalmente ogni tipo di droga a fiumi. A
loro piace così.
Ma piace, agli adolescenti? Non si può porre la questione, temo. Perché
uno dovrebbe prima chiedersi: che cosa piace «a me»? A me personalmente
nella mia personalità individuale autentica? Gli adolescenti (salvo
eccezioni) non sanno cosa piace «a me», perché non hanno un «io», se
non in forma dolorosamente germinale. Vanno dove avviene ciò «che piace
a tutti gli altri», per non essere diversi dai coetanei, per confondere
il loro «io» appena iniziale e immaturo - che fa male, come fa male un
dente del giudizio che cresce - nella palude collettiva dei «noi
adolescenti», nelle sue mode compulsive; è il conformismo della
trasgressione; dove la spinta essenziale non è il piacere di una musica
o di una festa, è non essere «separati» dalla sciame, dal branco:
perché questo è il dolore della pubertà, non poter essere come gli
altri, perché il papà ti vieta di andare dove vanno tutti (come topi
gregari dietro al pifferaio di Hamelin).
Come tutti, quell’adolescente non aveva detto in famiglia che andava a
una festa «rave», aveva trovato una scusa e una menzogna. La famiglia,
tranquilla. Poi, all’alba, il padre si sente chiamare al telefonino dal
figlio diciassettenne, con un filo di voce: «Papà sto male, vieni a
prendermi». Il diciassettenne passa il telefonino a un altro, che
spiega al padre come raggiungere il luogo, le strade introvabili
interrate per il capannone cosparso di cartacce e di sterco. Corsa del
genitore col cuore in gola…
La faccio breve: ritengo il giovanottino più colpevole per quella
telefonata, che l’essere andato alla festa «rave» a farsi come un matto
o un cretino. Quella telefonata sì, che meritava ceffoni educativi, da
farlo livido. Perché sempre ci sono state feste «rave»: e gente a
capofitto verso il delirio, tentata dall’abisso, la voglia di andare
oltre ogni limite. Sempre ci sono state: notturne feste dionisiache,
cene romane dove ci si procurava il vomito per tornare a mangiare, orge
dove alcuni si facevano condurre dall’impero dei sensi fino alla morte,
al suicidio, omicidi immotivati e poi la fuga nella Legione Straniera,
il bruciarsi la vita con l’oppio e con l’assenzio.
Chi intraprendeva quelle strade, pronto a tutto e di più, nessuna
possibilità esclusa, di una sola cosa era sicuro: che mai e poi mai, in
preda all’acido lisergico o ridotto al’agonia alcoolica o braccato con
le mani sporche di sangue, avrebbe telefonato al papà. Quando uno vuol
superare i limiti, ha chiuso per sempre con l’epoca in cui si può
chiamare in aiuto papà. Non si torna indietro. Invece il giovanottino
trasgressivo è tornato indietro. Ma non siamo tutti così, oggi?
Sono della stessa specie quasi tutti i «diritti» che reclamiamo: la
droga, ma depenalizzata; l’obbedienza ai primi impulsi, ma con
l’autoambulanza che ci salvi; la soggezione agli ormoni, ma presidiata
«all’istituto del divorzio»; gli omosessuali vogliono vivere
«liberamente» e pubblicamente la loro anomalia, ma con unione
matrimoniale, ossia con la pensione di reversibilità. E’ la
trasgressione di massa: con l’assicurazione sulla vita, la
responsabilità limitata, e l’assoluzione ecclesiastica. Cosa significa
questo?
Significa che non siamo «autentici». Che quando diciamo che «ci
buttiamo» in un amore o in un abisso, o anche in una fede, non lo
facciamo con tutti noi stessi. Manteniamo una riserva mentale: se le
cose si mettono male, chiamo papà. O il 118, per farmi fare la lavanda
gastrica. Oppure divorzio. O lascio la tonaca.
Troppi di noi vivono nella falsità, alla superficie del proprio io - un
io spesso fittizio, che alle dure prove dei fatti si rivela diverso da
quel che fingeva di essere. Siamo così abituati a vivere alla
superficie per non porci la domanda a cui abbiamo paura di rispondere
(Chi sono «io»? Cosa voglio, io «personalmente»? Cosa viene richiesto a
«me»? ) da aver perso l’orecchio per la falsità dei demagoghi di mezza
tacca.
Non ci allegano i denti il cerone di Berlusconi, il frasario di
Veltroni, o la «moralità cattolica» di Casini. O meglio: il cerone del
Salame allega i denti ai seguaci di Veltroni, cui Veltroni però pare
sincero (o lo danno a credere).
E ci sono cattolici, anche buonissimi, cui non stride il battesimo di
Magdi Allam. Lo vedo dai molti lettori, cattolici, che mi hanno scritto
a questo proposito, indignati che si possa criticare quel battesimo,
quella «conversione». Lo vedo in un anti-islamismo indotto sì dalla
propaganda, ma così parossistico che s’intuisce che a ispirarlo non è
la certezza della propria fede cristiana, ma la paura. Niente di male
se la paura venisse confessata, ma malissimo se la mascheriamo (a noi
stessi) con il motivo «io sono un vero cristiano». Non si tratta solo di cattolici, il fenomeno è totale. E non è affatto nuovo.
E’ dall’Ottocento, purtroppo, che gli europei vivono senza autenticità,
ossia in non completo accordo con se stessi, con personalità divise,
con la riserva mentale interiore. Già allora vennero meno certe
convinzioni vitali profonde - la fede nella scienza dei positivisti, la
fede nel diritto, nella libertà politica, nella democrazia - e si è
continuato a vivere fingendo di credere in ciò che, dentro di noi, è
morto.
La democrazia già un secolo fa era un tale cadavere, da suscitare
reazioni storiche violente come i fascismi (e d’altra parte il
comunismo). Sconfitti quelli, eccoci tornati alla «democrazia»,
cadavere nel frattempo ancora più putrefatto. Non sentite Napolitano (o
Ciampi, o Oscar Luigi Scalfaro) che tono usa, quando ci parla di
democrazia? Come fosse il sacerdote di un culto mistico. Come se la
democrazia fosse un sistema di dogmi e di relative scomuniche; e
difatti, molta gente comune (che dice: «Io sono anzitutto un
democratico») ha finito per credere alla democrazia come si crede (chi
ci crede) alla Madonna di Lourdes. Ma l’atteggiamento vitale verso la
democrazia è l’esatto contrario di quello che usa chi crede a Lourdes.
Per mantenere viva la democrazia, ogni generazione deve discuterla,
sottoporre a critica il dogma nel senso di ripensarlo da sé, alla
radice. Perché la democrazia non è data una volta per tutte come
un’acqua miracolosa. E’ una istituzione umana, frutto di battaglie e di
sforzi, che viene sottratta - per lo più, proprio da grandi sacerdoti
del culto. Quando Napolitano ci insegna la «democrazia», proprio dalla
sua untuosa unzione dobbiamo intuire che ci sta fregando, e quel che
intende per democrazia è la Casta, ossia il potere incontrollato di
parassiti ladri di denaro pubblico, che si pretende insindacabile.
Ma siamo disposti al lottare, a rischiare, per la democrazia? E’ anche
per questo che gli adolescenti vanno alle feste «rave»: perché di
fronte alle loro intemperanze idiote o malvagie, tipo bullismo, gli
fanno leggere la Costituzione, li fanno studiare «educazione civica».
Applicando la costituzione come una reliquia miracolosa, di quelle con
cui i preti del Medio Evo toccavano i lebbrosi per guarirli.
Avviene lo stesso anche per la scienza, in cui l’Ottocento positivista
credeva totalmente (al punto che il marxismo si dichiarava
«scientifico»); oggi, è «scientifico» solo il riduzionismo alla
Odifreddi. O un evoluzionismo a cui gli scienziati fanno finta di
credere, mentre raccolgono dati che ormai lo smentiscono - o che
richiedono una nuova sistemazione della teoria.
Quanto alla gente, vive ed usa oggetti tecnologici verso il cui
funzionamento non solo non ha alcuna curiosità, ma nemmeno alcuna
«solidarietà» intellettuale, come il selvaggio che usasse uno strumento
piezoelettrico per fare il fuoco, anziché la selce e l’acciarino.
Per questo, oggi, in Italia esistono migliaia di corsi di laurea fasulli, fabbricati unendo due parole
di vago tono scientifico, tipo «Scienze della comunicazione linguistica
per il doppiaggio televisivo», oppure «Scienza del packaging», o
«Sociologia del turismo gastronomico», o persino «Scienze della
fitness». E a tal punto non sappiamo più cosa sia la scienza e quali ne
siano i caratteri e le condizioni - gloria d’Europa - che iscriviamo i
nostri figli a corsi di «Etologia degli animali da compagnia», o
«Scienze della comunicazione».
Senza capire che è soperchieria, trucco di furbastri che si fanno
passare per «scienziati» di qualcosa. La cosa è più grave quando si
passa al campo della cosiddetta «spiritualità». Molti, in buona fede,
credono di essere cattolici. E poi, quando Gad Lerner inscena un
dibattito beffardo sul tema: «Ma tu ci credi che Cristo sia risorto?»,
non c’è uno dei preti presenti che riesca a dar ragione della sua fede.
Anzi c’è molto imbarazzo. Resurrezione dei corpi? Forse un residuo
arcaico, ereditato dall’ebraismo, un po’ imbarazzante.
Molti buonissimi cristiani pensano a un paradiso di anime felici:
«anime», non corpi. E’ una sorta di platonismo (ai minimi termini), su
cui non ci si sofferma, magari per non correre il rischio di «perdere
la fede». Se Cristo è risorto col corpo, e la Vergine è in cielo col
corpo, dove stanno? Come respirano? Mangiano? Sì, i meglio istruiti
ricordano che Paolo ha detto che il corpo attuale in cui viviamo è solo
«un seme» che finisce nella terra, da cui germoglierà un corpo di
gloria (o di dannazione). Ma insomma, è meglio sorvolare e non
approfondire, non si sa bene…
M’è capitato persino di sentire, un direttore di un giornale cattolico,
un discorsetto su Dio che «mette l’anima» nel feto umano. E’ una ben
debole fede, se si basa su pensieri così informi, non indagati con
coraggio radicale. Non si sa nemmeno che molti filosofi e scienziati
tutt’altro che credenti hanno detto cose molto più sensate sull’anima.
E persino scrittori e registi. Su cosa sia l’anima, infatti,
personalmente non l’ho capito dal catechismo, ma dal film «Blade
Runner».
In un futuro da fantascienza, si fabbricano robot biologici; esseri di
forma umana, con organi biologici forniti dal’ingegneria genetica,
progettati per certi compiti in ambienti estremi, e programmati per una
durata limitata (come le lavatrici e le auto). Un gruppo di questi
robot si ribella, corre per la città, sono un pericolo pubblico;
l’agente messo a dar loro la caccia scopre, a poco a poco, il perché
della loro rivolta: quelli vogliono «più vita». Non vogliono morire. Si
scopre così che quei robot hanno sviluppato lo spirito. Come mai?
Sicuramente i bio-ingegneri che li hanno fabbricati non gli hanno messo
dentro l’anima; e nemmeno Dio. E’ che quei robot hanno una coscienza e
una memoria. Hanno vissuto, negli ambienti estremi interplanetari,
«cose che voi umani non potete nemmeno immaginare»; hanno combattuto
battaglie spaziali, hanno visto galassie. «E tutto questo finirà come
lacrime nella pioggia?», dice il loro capo.
Ecco cos’è l’anima: non qualcosa che Dio mette nel corpo, perché questo
è uno strano materialismo, come se l’anima fosse una «cosa». Già Tomaso
d’Aquino diceva: l’anima è «la forma» del corpo, e nel linguaggio della
sua filosofia la «forma» è il significato, «l’intellegibile», ciò che è
compreso. Un pugnale può essere fatto di rame, di bronzo, d’acciaio o
d’ossidiana (la «materia») ma la sua forma, quello che lo rende
pugnale, è ciò che gli dà l’artigiano che lo fabbrica «per uno scopo».
I robot del film non volevano morire, perché la vita deve avere un
senso, non può essere una cieca indifferenza. Garcia Lorca disse
qualcosa di simile davanti al plotone d’esecuzione: non dovete
uccidermi, perché ho dei ricordi.
Che cosa assurda, questa ribellione dell’uomo alla cosa più naturale
del mondo, la morte. Ancor più assurdo è che l’uomo ha ragione di
ribellarsi alla morte, ossia al nulla di significato, alla spartizione
della sua propria personalissima esperienza, ai suoi «ricordi». Perché
lo spirito non è una «sostanza» incorporea. E’ una qualità che alcune
cose possiedono, ed altre no. E questa qualità che consiste nell’avere
un senso, un valore proprio.
Filosofi non credenti hanno notato che l’insieme dei fenomeni organici
che costituiscono la vita di un uomo hanno una dimensione
«trascendente», ossia che non partecipa più dell’organico. Non pensate
subito a Dio o alla immortalità. Pensate, per cominciare, al teorema di
Pitagora.
Per scoprire il teorema, Pitagora (o chi per lui) doveva «funzionare»
come organismo; senza un cervello ben ossigenato da una buona
circolazione, la giusta increzione di ormoni, la digestione almeno
passabile, un apparato di locomozione e i villi gastrici in azione, non
avrebbe potuto pensare il teorema. Però, una volta scoperto, il teorema
(in un triangolo rettangolo il quadrato dell’ipotenusa è pari alla
somma dei quadrati dei due lati) esiste «per sé». Indipendentemente
dalla secrezione del pancreas e dall’irrorazione cerebrale di Pitagora.
Anzi, in qualche modo «esisteva» anche prima, esiste sempre, fuori del
tempo. E’ la verità - la modesta verità geometrica - e non è di natura
organica.
Esiste una spinta biologica a cercare la verità, ma una volta trovata,
la verità è indipendente dall’uomo, e infatti non è «invenzione» ma
«scoperta». Esiste un bisogno di giustizia, e per quante volte sia
tradito e calpestato, ognuno - se vive autenticamente, se non mente a
se stesso - sa che la giustizia «deve» esistere, che è necessaria, che
ci sono atti giusti e ingiusti, e che l’ingiustizia «non ha diritto» di
essere. Lo stesso per la bellezza, anche se oggi a molti piace il
brutto, e ciò complica le cose, fino al punto da confondere bellezza
con pornografia, ciò che dà «sensazioni».
Una musica di Bach o un quadro di Van Gogh è sensazione e non può
esistere se non come sensazione, ma «trascende» la sensazione.
Sentiamo che la bellezza è «necessaria» come lo sono la verità e la
giustizia. Lo sentiamo, s’intende, se siamo «educati» a capire la
musica di Bach o i quadri di Vang Gogh. Ma questo non dice nulla contro
l’elemento trascendente e necessario che essi contengono; dice solo che
c’è molta gente ignorante che non capisce, ossia che non curano di
essere uomini. Dice che la vita umana dev’essere «cultura»,
coltivazione di sé per capire il bello, il bene e il giusto, ossia ciò
che è «significativo».
Oggi una rinascita d’Europa dovrebbe, credo, passare per questa
comprensione: che le funzioni biologiche, senza le quali non si
comprende il bene e il bello e il vero, sono in continuità con le
funzioni spirituali. E che le funzioni spirituali hanno la necessità
scientifica delle funzioni organiche. Che all’uomo la cultura serve
come gli serve la secrezione del pancreas, che la giustizia gli è
necessaria come la digestione, e il «senso della vita» come
l’irrorazione sanguigna. Natura e sopra-natura sono indispensabili
all’uomo. Per lui le cose e gli eventi devono avere un senso,
altrimenti s’intristisce e muore.
Magari muore solo culturalmente e spiritualmente - come accade
all’Europa, dove non sorge più un’arte, una musica, una scienza nuova -
ma sempre più spesso muore anche fisicamente, scegliendo di superare i
limiti magari in una squallida festa «rave», per uscire da sé, per
mettersi alla prova, per darsi senza residuo - oppure perché la vita
che il secolo attuale propone all’adolescente non ha senso, e non è
altro che falsità, educazione civica, cristianesimo con riserva mentale.
Possiamo qui intuire, come in un barlume, perché Cristo promette non
l’immortalità dell’anima (platonica), ma la resurrezione. Quello che
risorgerà sarà un corpo «noetico»: come l’attuale è soggetto al bios,
alle secrezioni del pancreas, in quello sarà lo spirito (la verità) che
assoggetterà il pancreas. Si può intuire perché la nostra salvezza, in
cui Cristo ci ha preceduto, è l’«Incarnazione». L’uomo è corpo-anima
(bios e significato, organicità e verità), ha questo drammatico
destino, non può essere angelo; è la bestia che però scopre la chimica
e la geometria. L’essere zoologico che non si rassegna a che tutto
«debba finire come lacrime nella pioggia», ma che naturalmente ha il
potere di tradire se stesso. Come?
Vivendo senza autenticità. Facendo il trasgressivo ma con la pensione
assicurata. Vietandosi di discutere la democrazia perché glielo
presentano come un dogma. Facendo quello che «fanno tutti» invece di
capire, con sforzo personale, che cosa vuole fare «lui». E magari
facendo il buon cattolico che però non va troppo a fondo, sennò teme di
perdere la fede, e che allora l’Islam vincerà.
Di convinzioni non credute, di idee ricevute, vive l’uomo europeo, e
per questo scende e arretra verso il livello zoologico. Spera così di
salvarsi, ma è un’illusione. Perché, come scrisse Ortega y Gasset, non
c’è scampo: «La vita deve essere colta», ossia coltivata. Ma,
aggiungeva, «la cultura deve essere vitale».
E’ vitale il nostro cattolicesimo? Sono vitali le università? E’ vitale
la cultura del XXI mo secolo? Ma questo aprirebbe un altro discorso, e
questo è già troppo lungo.
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