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Essere «autentici» prima che cristiani
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«Papà sto male, vieni a prendermi», ha telefonato un ragazzo alla festa rave. L’ha scritto non ricordo più quale giornale, dopo il brevissimo clamore suscitato da un concerto «rave» finito col morto per cocktail di acidi e alcoolici. I raduni «rave» sono vissuti, dai giovani che vi partecipano, come la trasgressione estrema: adunate di massa senza autorizzazioni né permessi della questura, eventi clandestini in capannoni abbandonati molto fuori mano, al fondo di strade sterrate introvabili. Arrivano con tende e roulottes, vivono notti-giorni-notti senza dormire, senza interruzione di decibel, fra spazzatura che s’accumula e urine e feci, e naturalmente ogni tipo di droga a fiumi. A loro piace così.

Ma piace, agli adolescenti? Non si può porre la questione, temo. Perché uno dovrebbe prima chiedersi: che cosa piace «a me»? A me personalmente nella mia personalità individuale autentica? Gli adolescenti (salvo eccezioni) non sanno cosa piace «a me», perché non hanno un «io», se non in forma dolorosamente germinale. Vanno dove avviene ciò «che piace a tutti gli altri», per non essere diversi dai coetanei, per confondere il loro «io» appena iniziale e immaturo - che fa male, come fa male un dente del giudizio che cresce - nella  palude collettiva dei «noi adolescenti», nelle sue mode compulsive; è il conformismo della trasgressione; dove la spinta essenziale non è il piacere di una musica o di una festa, è non essere «separati» dalla sciame, dal branco: perché questo è il dolore della pubertà, non poter essere come gli altri, perché il papà ti vieta di andare dove vanno tutti (come topi gregari dietro al pifferaio di Hamelin).

Come tutti, quell’adolescente non aveva detto in famiglia che andava a una festa «rave», aveva trovato una scusa e una menzogna. La famiglia, tranquilla. Poi, all’alba, il padre si sente chiamare al telefonino dal figlio diciassettenne, con un filo di voce: «Papà sto male, vieni a prendermi». Il diciassettenne passa il telefonino a un altro, che spiega al padre come raggiungere il luogo, le strade introvabili interrate per il capannone cosparso di cartacce e di sterco. Corsa del genitore col cuore in gola…

La faccio breve: ritengo il giovanottino più colpevole per quella telefonata, che l’essere andato alla festa «rave» a farsi come un matto o un cretino. Quella telefonata sì, che meritava ceffoni educativi, da farlo livido. Perché sempre ci sono state feste «rave»: e gente a capofitto verso il delirio, tentata dall’abisso, la voglia di andare oltre ogni limite. Sempre ci sono state: notturne feste dionisiache, cene romane dove ci si procurava il vomito per tornare a mangiare, orge dove alcuni si facevano condurre dall’impero dei sensi fino alla morte, al suicidio, omicidi immotivati e poi la fuga nella Legione Straniera, il bruciarsi la vita con l’oppio e con l’assenzio.

Chi intraprendeva quelle strade, pronto a tutto e di più, nessuna possibilità esclusa, di una sola cosa era sicuro: che mai e poi mai, in preda all’acido lisergico o ridotto al’agonia alcoolica o braccato con le mani sporche di sangue, avrebbe telefonato al papà. Quando uno vuol superare i limiti, ha chiuso per sempre con l’epoca in cui si può chiamare in aiuto papà. Non si torna indietro. Invece il giovanottino trasgressivo è tornato indietro. Ma non siamo tutti così, oggi?

Sono della stessa specie quasi tutti i «diritti» che reclamiamo: la droga, ma depenalizzata; l’obbedienza ai primi impulsi, ma con l’autoambulanza che ci salvi; la soggezione agli ormoni, ma presidiata «all’istituto del divorzio»; gli omosessuali vogliono vivere «liberamente» e pubblicamente la loro anomalia, ma con unione matrimoniale, ossia con la pensione di reversibilità. E’ la trasgressione di massa: con l’assicurazione sulla vita, la responsabilità limitata, e l’assoluzione ecclesiastica. Cosa significa questo?

Significa che non siamo «autentici». Che quando diciamo che «ci buttiamo» in un amore o in un abisso, o anche in una fede, non lo facciamo con tutti noi stessi. Manteniamo una riserva mentale: se le cose si mettono male, chiamo papà. O il 118, per farmi fare la lavanda gastrica. Oppure divorzio. O lascio la tonaca.

Troppi di noi vivono nella falsità, alla superficie del proprio io - un io spesso fittizio, che alle dure prove dei fatti si rivela diverso da quel che fingeva di essere. Siamo così abituati a vivere alla superficie per non porci la domanda a cui abbiamo paura di rispondere (Chi sono «io»? Cosa voglio, io «personalmente»? Cosa viene richiesto a «me»? ) da aver perso l’orecchio per la falsità dei demagoghi di mezza tacca.

Non ci allegano i denti il cerone di Berlusconi, il frasario di Veltroni, o la «moralità cattolica» di Casini. O meglio: il cerone del Salame allega i denti ai seguaci di Veltroni, cui Veltroni però pare sincero (o lo danno a credere).

E ci sono cattolici, anche buonissimi, cui non stride il battesimo di Magdi Allam. Lo vedo dai molti lettori, cattolici, che mi hanno scritto a questo proposito, indignati che si possa criticare quel battesimo, quella «conversione». Lo vedo in un anti-islamismo indotto sì dalla propaganda, ma così parossistico che s’intuisce che a ispirarlo non è la certezza della propria fede cristiana, ma la paura. Niente di male se la paura venisse confessata, ma malissimo se la mascheriamo (a noi stessi) con il motivo «io sono un vero cristiano». Non si tratta solo di cattolici, il fenomeno è totale. E non è affatto nuovo.

E’ dall’Ottocento, purtroppo, che gli europei vivono senza autenticità, ossia in non completo accordo con se stessi, con personalità divise, con la riserva mentale interiore. Già allora vennero meno certe convinzioni vitali profonde - la fede nella scienza dei positivisti, la fede nel diritto, nella libertà politica, nella democrazia - e si è continuato a vivere fingendo di credere in ciò che, dentro di noi, è morto.

La democrazia già un secolo fa era un tale cadavere, da suscitare reazioni storiche violente come i fascismi (e d’altra parte il comunismo). Sconfitti quelli, eccoci tornati alla «democrazia», cadavere nel frattempo ancora più putrefatto. Non sentite Napolitano (o Ciampi, o Oscar Luigi Scalfaro) che tono usa, quando ci parla di democrazia? Come fosse il sacerdote di un culto mistico. Come se la democrazia fosse un sistema di dogmi e di relative scomuniche; e difatti, molta gente comune (che dice: «Io sono anzitutto un democratico») ha finito per credere alla democrazia come si crede (chi ci crede) alla Madonna di Lourdes. Ma l’atteggiamento vitale verso la democrazia è l’esatto contrario di quello che usa chi crede a Lourdes.

Per mantenere viva la democrazia, ogni generazione deve discuterla, sottoporre a critica il dogma nel senso di ripensarlo da sé, alla radice. Perché la democrazia non è data una volta per tutte come un’acqua miracolosa. E’ una istituzione umana, frutto di battaglie e di sforzi, che viene sottratta - per lo più, proprio da grandi sacerdoti del culto. Quando Napolitano ci insegna la «democrazia», proprio dalla sua untuosa unzione dobbiamo intuire che ci sta fregando, e quel che intende per democrazia è la Casta, ossia il potere incontrollato di parassiti ladri di denaro pubblico, che si pretende insindacabile.

Ma siamo disposti al lottare, a rischiare, per la democrazia? E’ anche per questo che gli adolescenti vanno alle feste «rave»: perché di fronte alle loro intemperanze idiote o malvagie, tipo bullismo, gli fanno leggere la Costituzione, li fanno studiare «educazione civica». Applicando la costituzione come una reliquia miracolosa, di quelle con cui i preti del Medio Evo toccavano i lebbrosi per guarirli.

Avviene lo stesso anche per la scienza, in cui l’Ottocento positivista credeva totalmente (al punto che il marxismo si dichiarava «scientifico»); oggi, è «scientifico» solo il riduzionismo alla Odifreddi. O un evoluzionismo a cui gli scienziati fanno finta di credere, mentre raccolgono dati che ormai lo smentiscono - o che richiedono una nuova sistemazione della teoria.

Quanto alla gente, vive ed usa oggetti tecnologici verso il cui funzionamento non solo non ha alcuna curiosità, ma nemmeno alcuna «solidarietà» intellettuale, come il selvaggio che usasse uno strumento piezoelettrico per fare il fuoco, anziché la selce e l’acciarino.

Per questo, oggi, in Italia esistono migliaia di corsi di laurea fasulli, fabbricati unendo due parole
di vago tono scientifico, tipo «Scienze della comunicazione linguistica per il doppiaggio televisivo», oppure «Scienza del packaging», o «Sociologia del turismo gastronomico»,  o persino «Scienze della fitness». E a tal punto non sappiamo più cosa sia la scienza e quali ne siano i caratteri e le condizioni - gloria d’Europa - che iscriviamo i nostri figli a corsi di «Etologia degli animali da compagnia», o «Scienze della comunicazione».

Senza capire che è soperchieria, trucco di furbastri che si fanno passare per «scienziati» di qualcosa. La cosa è più grave quando si passa al campo della cosiddetta «spiritualità». Molti, in buona fede, credono di essere cattolici. E poi, quando Gad Lerner inscena un dibattito beffardo sul tema: «Ma tu ci credi che Cristo sia risorto?», non c’è uno dei preti presenti che riesca a dar ragione della sua fede. Anzi c’è molto imbarazzo. Resurrezione dei corpi? Forse un residuo arcaico, ereditato dall’ebraismo, un po’ imbarazzante.

Molti buonissimi cristiani pensano a un paradiso di anime felici: «anime», non corpi. E’ una sorta di platonismo (ai minimi termini), su cui non ci si sofferma,  magari per non correre il rischio di «perdere la fede». Se Cristo è risorto col corpo, e la Vergine è in cielo col corpo, dove stanno? Come respirano? Mangiano? Sì, i meglio istruiti ricordano che Paolo ha detto che il corpo attuale in cui viviamo è solo «un seme» che finisce nella terra, da cui germoglierà un corpo di gloria (o di dannazione). Ma insomma, è meglio sorvolare e non approfondire, non si sa bene…

M’è capitato persino di sentire, un direttore di un giornale cattolico, un discorsetto su Dio che «mette l’anima» nel feto umano. E’ una ben debole fede, se si basa su pensieri così informi, non indagati con coraggio radicale. Non si sa nemmeno che molti filosofi e scienziati tutt’altro che credenti hanno detto cose molto più sensate sull’anima. E persino scrittori e registi. Su cosa sia l’anima, infatti, personalmente non l’ho capito dal catechismo, ma dal film «Blade Runner».

In un futuro da fantascienza, si fabbricano robot biologici; esseri di forma umana, con organi biologici forniti dal’ingegneria genetica, progettati per certi compiti in ambienti estremi, e programmati per una durata limitata (come le lavatrici e le auto). Un gruppo di questi robot si ribella, corre per la città, sono un pericolo pubblico; l’agente messo a dar loro la caccia scopre, a poco a poco, il perché della loro rivolta: quelli vogliono «più vita». Non vogliono morire. Si scopre così che quei robot hanno sviluppato lo spirito. Come mai?

Sicuramente i bio-ingegneri che li hanno fabbricati non gli hanno messo dentro l’anima; e nemmeno Dio. E’ che quei robot hanno una coscienza e una memoria. Hanno vissuto, negli ambienti estremi interplanetari, «cose che voi umani non potete nemmeno immaginare»; hanno combattuto battaglie spaziali, hanno visto galassie. «E tutto questo finirà come lacrime nella pioggia?», dice il loro capo.

Ecco cos’è l’anima: non qualcosa che Dio mette nel corpo, perché questo è uno strano materialismo, come se l’anima fosse una «cosa». Già Tomaso d’Aquino diceva: l’anima è «la forma» del corpo, e nel linguaggio della sua filosofia la «forma» è il significato, «l’intellegibile», ciò che è compreso. Un pugnale può essere fatto di rame, di bronzo, d’acciaio o d’ossidiana (la «materia») ma la sua forma, quello che lo rende pugnale, è ciò che gli dà l’artigiano che lo fabbrica «per uno scopo». I robot del film non volevano morire, perché la vita deve avere un senso, non può essere una cieca indifferenza. Garcia Lorca disse qualcosa di simile davanti al plotone d’esecuzione: non dovete uccidermi, perché ho dei ricordi.

Che cosa assurda, questa ribellione dell’uomo alla cosa più naturale del mondo, la morte. Ancor più assurdo è che l’uomo ha ragione di ribellarsi alla morte, ossia al nulla di significato, alla spartizione della sua propria personalissima esperienza, ai suoi «ricordi». Perché lo spirito non è una «sostanza» incorporea. E’ una qualità che alcune cose possiedono, ed altre no. E questa qualità che consiste nell’avere un senso, un valore proprio.

Filosofi non credenti hanno notato che l’insieme dei fenomeni organici che costituiscono la vita di un uomo hanno una dimensione «trascendente», ossia che non partecipa più dell’organico. Non pensate subito a Dio o alla immortalità. Pensate, per cominciare, al teorema di Pitagora.

Per scoprire il teorema, Pitagora (o chi per lui) doveva «funzionare» come organismo; senza un cervello ben ossigenato da una buona circolazione, la giusta increzione di ormoni, la digestione almeno passabile, un apparato di locomozione e i villi gastrici in azione, non avrebbe potuto pensare il teorema. Però, una volta scoperto, il teorema (in un triangolo rettangolo il quadrato dell’ipotenusa è pari alla somma dei quadrati dei due lati) esiste «per sé». Indipendentemente dalla secrezione del pancreas e dall’irrorazione cerebrale di Pitagora. Anzi, in qualche modo «esisteva» anche prima, esiste sempre, fuori del tempo. E’ la verità - la modesta verità geometrica - e non è di natura organica.

Esiste una spinta biologica a cercare la verità, ma una volta trovata, la verità è indipendente dall’uomo, e infatti non è «invenzione» ma «scoperta». Esiste un bisogno di giustizia, e per quante volte sia tradito e calpestato, ognuno - se vive autenticamente, se non mente a se stesso - sa che la giustizia «deve» esistere, che è necessaria, che ci sono atti giusti e ingiusti, e che l’ingiustizia «non ha diritto» di essere. Lo stesso per la bellezza, anche se oggi a molti piace il brutto, e ciò complica le cose, fino al punto da confondere bellezza con pornografia, ciò che dà «sensazioni».

Una musica di Bach o un quadro di Van Gogh è sensazione e non può esistere se non come sensazione,  ma «trascende» la sensazione. Sentiamo che la bellezza è «necessaria» come lo sono la verità e la giustizia. Lo sentiamo, s’intende, se siamo «educati» a capire la musica di Bach o i quadri di Vang Gogh. Ma questo non dice nulla contro l’elemento trascendente e necessario che essi contengono; dice solo che c’è molta gente ignorante che non capisce, ossia che non curano di essere uomini. Dice che la vita umana dev’essere «cultura», coltivazione di sé per capire il bello, il bene e il giusto, ossia ciò che è «significativo».

Oggi una rinascita d’Europa dovrebbe, credo, passare per questa comprensione: che le funzioni biologiche, senza le quali non si comprende il bene e il bello e il vero, sono in continuità con le funzioni spirituali. E che le funzioni spirituali hanno la necessità scientifica delle funzioni organiche. Che all’uomo la cultura serve come gli serve la secrezione del pancreas, che la giustizia gli è necessaria come la digestione, e il «senso della vita» come l’irrorazione sanguigna. Natura e sopra-natura sono indispensabili all’uomo. Per lui le cose e gli eventi devono avere un senso, altrimenti s’intristisce e muore.

Magari muore solo culturalmente e spiritualmente - come accade all’Europa, dove non sorge più un’arte, una musica, una scienza nuova - ma sempre più spesso muore anche fisicamente, scegliendo di superare i limiti magari in una squallida festa «rave», per uscire da sé, per mettersi alla prova, per darsi senza residuo - oppure perché la vita che il secolo attuale propone all’adolescente non ha senso, e non è altro che falsità, educazione civica, cristianesimo con riserva mentale.

Possiamo qui intuire, come in un barlume, perché Cristo promette non l’immortalità dell’anima (platonica), ma la resurrezione. Quello che risorgerà sarà un corpo «noetico»: come l’attuale è soggetto al bios, alle secrezioni del pancreas, in quello sarà lo spirito (la verità) che assoggetterà il pancreas. Si può intuire perché la nostra salvezza, in cui Cristo ci ha preceduto, è l’«Incarnazione». L’uomo è corpo-anima (bios e significato, organicità e verità), ha questo drammatico destino, non può essere angelo; è la bestia che però scopre la chimica e la geometria. L’essere zoologico che non si rassegna a che tutto «debba finire come lacrime nella pioggia»,  ma che naturalmente ha il potere di tradire se stesso. Come?

Vivendo senza autenticità. Facendo il trasgressivo ma con la pensione assicurata. Vietandosi di discutere la democrazia perché glielo presentano come un dogma. Facendo quello che «fanno tutti» invece di capire, con sforzo personale, che cosa vuole fare «lui». E magari facendo il buon cattolico che però non va troppo a fondo, sennò teme di perdere la fede, e che allora l’Islam vincerà.

Di convinzioni non credute, di idee ricevute, vive l’uomo europeo, e per questo scende e arretra verso il livello zoologico. Spera così di salvarsi, ma è un’illusione. Perché, come scrisse Ortega y Gasset, non c’è scampo: «La vita deve essere colta», ossia coltivata. Ma, aggiungeva, «la cultura deve essere vitale».

E’ vitale il nostro cattolicesimo? Sono vitali le università? E’ vitale la cultura del XXI mo secolo? Ma questo aprirebbe un altro discorso, e questo è già troppo lungo.


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