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L’Armée «avverte» Hollande
09 Ottobre 2013
La «Grande Muette», la Grande Muta, è stata chiamata l’armata francese. Un po’ perché la Terza Repubblica, laicissima corrottissima e dunque antimilitarista, pensò bene di togliere il diritto di voto a tutti gli ufficiali, e anche ai soldati semplici durante il servizio di leva; un po’ per sottolineare che l’Armata , usa a obbedir tacendo e tacendo morire, resta neutrale nell’agone politico, servendo solo la Patria. Un ideale che deve essere sempre ricordato, dato che è lungi dalla realtà. Del resto, questa armata è nata politica: alla sua origine è l’armata giacobina di popolo che vinse le monarchie nella Rivoluzione, l’armata di Napoleone da Austerlitz a Waterloo; l’armata della Marna e della Somme, e del carnaio di Verdun che durò otto mesi e in cui la Francia versò il sangue di 400 mila figli suoi. È l’Armata che difese l’Indocina, quella che tenne l’Algeria ribellandosi a De Gaulle, anche lui del resto generale. Noi italiani non possiamo nemmeno capire, perché non abbiamo mai avuto nulla di simile: ma quella è un’Armée di élite e di popolo, con una storia da grande potenza e una radice profonda nella sovranità nazionale, consacrata dal sangue. Una Grande Muta che i politici sbaglierebbero a non ascoltare, quando mormora e fa tintinnare la sciabola... Ebbene, è accaduto: un gruppo di generali e ufficiali superiori di tutte e tre le armi, che si raduna sotto il titolo di «Sentinelles de l’Agora», ha scritto una petizione, che è in realtà una mozione di censura diretta a colui che è formalmente il Comandante supremo della Forze Armate della Repubblica, ossia François Hollande le petit. Segno dei tempi, questa petizione è stata consegnata, perché la diffonda, al sito La Voix de la Russie, radio semi-ufficiale di Mosca, edizione francese. Il perché è facile da dedurre: la Siria, con il Libano, è stata sotto mandato francese, fu l’Armée occupante ed amministratrice a promuovere gli alawiti, e a prepararli ad assumere il potere, proprio perché come minoranza spregiata e in pericolo di esser cancellata dai sunniti, avrebbe mantenuto la laicità dello Stato come proprio interesse primario, e dunque la convivenza delle tante e ribollenti minoranze religiose. Un capolavoro di cui l’Armata può andar fiera. Ora, l’idea di essere obbligati da Hollande Le Petit ad aggredire il regime di Assad per dare il potere ai fanatici islamisti, ha fatto «girare le palle» (il termine è rigorosamente militare) (1) ai gallonati in képi. Il geniale sabotaggio diplomatico messo in atto da Lavrov e Putin, e la prontezza strategica di Assad a rinunciare alle armi chimiche (ormai peggio che inutili), che hanno scongiurato all’ultimo istante un conflitto già deciso, ha strappato di sicuro un amaro sorriso alla Grande Muette. Lo sganciamento britannico e la retromarcia americana hanno lasciato Hollande solo col cerino in mano, a misurare il disastro politico che s’è procurato da solo. Come traduce il presentatore della mozione militare, essi sono «pieni d’indignazione per i dirigenti della nazione che dirigono a tutta forza la nave France sugli scogli di un wahabismo sfrenato che già infuria nelle banlieues»: già, perché l’Armata ha l’esperienza storica dell’islamismo (Algeria, ricordate?) e vede che l’Eliseo sta giocando col fuoco, non solo indebolendo la Francia in politica estera, ma rischiando d’incendiare il materiale infiammabile interno, rappresentato dai figli e nipoti di immigrati nordafricani, in stato di sedizione permanente nelle banlieues; ci manca di insegnare a costoro il wahabismo... Insomma, Hollande sta rovesciando in modo cieco e stolto la tradizionale politica militare francese nel Mediterraneo, e a vantaggio di chi? Deve aver particolarmente irritato il tentativo del governo di presentare «le prove irrefutabili» dell’uso dei gas da parte di Assad, rivelatesi un falso, sostenendo che si trattava di «dati declassificati dei servizi DRM e DGSE», ossia dei d’intelligence polizieschi e militari. Tanto più che alla testa della DGSE (Direction Générale de la Sécurité Extérieure) l’Eliseo ha messo tale Christophe Bigot, creatura di Bernard Kouchner, addetto d’ambasciata in Israele e fervido sostenitore della collaborazione franco-giudea ed aperto fautore dell’attacco alla Siria, che non disegna di farsi fotografare in kippà. Posto che a capo degli Esteri c’è il noto Laurent Fabius, e agli Interni quel Manuel Valls che si è dichiarato «legato eternamente alla comunità ebraica e ad Israele», i generali ne concludono (in articoli da loro ispirati) che «la lobby israeliana vuol dettare la politica estera e l’uso della forza militare della Francia». (Quand le lobby pro-israélien entend - encore et toujours - dicter sa politique étrangère et l’usage de sa force militaire à la France) E siccome il bellicismo andato a male ha indebolito il presidente Hollande e ha creato un inferno in Siria che è anche un vuoto di potere che bisognerà impedire venga occupato dai «wahabiti», i generali hanno elevato la loro protesta. Tanto più che il governo di Le Petit non è capace di far uscire dalla crisi economica il Paese, per la sua servile adesione all’europeismo burocratico e, peggio, alla volontà della Germania. Ecco dunque il tono della protesta: «Lo smantellamento dell’istituzione militare è quasi completo», dicono i generali: ed accusano i tagli di bilancio, ma soprattutto l’ideologia «post-moderna che vuol farla finita per sempre col rumore delle armi». Attualmente l’esercito francese è solo una specie di «campionario» (échantillon), una miniatura di quello che deve essere una forza armata a difesa della sovranità. «La forza militare è passata, nel silenzio e nella negazione, dallo statuto di grande istituzione della sovranità a quello di una società di servizi retribuita in base ai compiti». A completare la «demolizione» è stato il fatto di «sottoporre l’alta gerarchia militare agli ordini di una amministrazione civile della difesa che prospera senza freni, tanto più intrusiva quanto più si sa irresponsabile, col pretesto di confinare i militari al loro mestiere proprio. Il soldato, retrocesso alla funzione di uomo di fatica della Repubblica, è pregato di versare il sangue nell’indifferenza e nel silenzio sottomettendosi alle severe regole di un dovere di Stato, dovere che viene largamente disertato da coloro che pretendono di farlo rispettare». Segue un elenco delle «colpe» di cui i generali accusano i civili, amministrativi e politici: «Grande colpa sacrificare il braccio armato della Francia ad arbitrio di ideologie d’occasione e di qualche difficoltà finanziaria (..) L’attuale assenza di minaccia militare primaria non è che un momento della storia. La sua calma apparente non deve mascherare le riconfigurazioni geopolitiche in corso, che metteranno ai margini, peggio elimineranno senza pietà, le nazioni col morale vacillante. Grande fallo per la sicurezza dei francesi di fare sparire un pilastro primario della capacità di ripresa del Paese di fronte ad una eventuale situazione di caos, di cui nessuno può anticipare il luogo, l’ora e la natura. Solo una forza armata può farvi fronte e deve offrire mezzi sufficienti, serviti da uomini e donne strutturati dai possenti valori del dovere e dell’obbligo morale». «Errore grave eliminare una delle istituzioni “che fabbricano legami” (fra i cittadini diversi) di cui la Francia ha urgente bisogno di fronte all’azione deliberata di forze centrifughe, che sono al servizio di interessi particolari e settari». La potenza e l’efficacia di questa istituzione di Stato deve essere ricreata; «la Francia deve ricominciare a pensare in termini di rischi e di potenza strategica: ne ha i mezzi. Deve farlo senza aspettarlo dall’Europa, potenza inesistente, o da una soggezione transatlantica deleteria e sempre più illusoria». A questo punto, ecco le richieste dei generali francesi. Anzitutto un bilancio decente, che permetta ai nostri soldati di disporre dell’addestramento e dei mezzi necessari, e al politico di impegnarsi senza il sostegno determinante degli Stati Uniti (...). Poi «uomini e donne in numero sufficiente» capace di segnare «nella durata la volontà e la determinazione della nazione». All’interno di «una ripartizione di forze perfettamente univoca, sia pur facendo la ripartizione che conviene tra i professionisti in numero sufficiente e i cittadini in armi, che devono imperativamente ritornare al centro del nostro dispositivi di sicurezza e identità»: insomma, chiedono il ritorno alla leva obbligatoria di popolo , contro la professionalizzazione mercenaria della dottrina militare Usa, da tutti adottata in Occidente, che deresponsabilizza i cittadini (e li rende sempre più politicamente passivi, «consumatori» di diritti senza doveri) . Infine, «una ripartizione equilibrata delle responsabilità autorizzata dalla Costituzione», che «lasci al settore militare il dovere di esercitare liberamente il suo consiglio, amministrando e mettendo in azione le forze altrimenti che attraverso il canale malsano di una amministrazione (civile) tanto più intrusiva in quanto si sa irresponsabile». I gallonati annunciano «documenti futuri» dove preciseranno «punto per punto le misure indispensabili» che esigono dal governo civile, «con determinazione e costanza, per la realizzazione del bene pubblico». «È gran tempo di rinnovare il patto di fiducia della Repubblica coi suoi soldati, se non è troppo tardi. Diventa urgente ridare a tale patto il vigore necessario, senza che ci sia bisogno di ricorrere a forme di rappresentanza che, benché estranee alla nostra cultura, potrebbero mostrarsi come il solo mezzo, un giorno forse vicino, per i nostri soldati di farsi ascoltare». Una chiara ancorché velata minaccia. Se fossimo nella Spagna anni ’30, parleremmo di un «pronunciamento», e l’affinità non è casuale. Ortega y Gasset avvertì i pacifisti, antimilitaristi e socialisti spagnoli del rischio che correvano schernendo, svalutando e diffamando la forza armata. Quello spagnolo, disse, è un esercito che per 500 anni ha mantenuto l’impero su cui non tramontava mai il sole, un immenso sforzo di sacrificio e di sangue, di dovere e di stoica abnegazione; e voi pacifisti gli state dicendo che non serve, anzi che non fa parte della nazione, che la popolazione «progressista» lo rifiuta? Ma voi ne fate «un pugno chiuso, moralmente disposto all’attacco»! Ciò che avvenne puntualmente con il sollevamento di Franco e la reconquista militare contro le orde repubblicane social-comuniste, massoniche ed internazionaliste, anti-nazionali e anticristiane. La vittoria di Franco mostrò agli utopisti criminali che sì, l’Armada era ancora parte della nazione... Naturalmente oggi i tempi sono diversi. Ma anche nei generali francesi d’oggi parla la Grande Armée che Napoleone guidò ubbidiente dai trionfi alla catastrofe, quella della Russia e del Messico; quella di Verdun, dell’Indocina e dell’Algeria (e dell’OAS) (2): un patrimonio di sangue e bravura al servizio della grandeur, che non si lascia ridurre «a una società di servizi da retribuire alla bisogna» senza sentirsi offesa da una «politica» senza seguito popolare e incapace. E, come qui si vede, detestano tutto di quel che la «politica» ha fatto: dall’Europa all’euro, dalla sottomissione agli Stati Uniti, alla burocratizzazione, alla de-responsabilizzazione del cittadino e al frazionamento della cittadinanza in «comunità» etnico-religiose l’una contro l’altra ostili, negatrici della unità laica della nazione. Chiunque può intravvedere i rischi di questo mormorio della Grande Muette. Non meno vistose sono le opportunità che fa intravvedere. In Francia, come in Italia e nel resto d’Europa, non esiste più opposizione politica. Con il socialista Hollande all’Eliseo, i gaullisti non hanno nulla da obiettare, il loro programma politico è uguale: euro, rigore di bilancio, «più Europa», austerità, e qualche avventura post-coloniale d’occasione. Nessuna proposta veramente alternativa per uscire dal disastro avanzante, nonostante che – in Francia e non in Italia – esistano forze intellettuali capaci enunciarla e di realizzarla al bisogno. Ora, quando l’opposizione della cittadinanza non riesce ad esprimersi in Parlamento, finisce per porsi come extraparlamentare. Le forze sociali reali, quelle che hanno in mano reali leve di potere, possono farsi avanti... e persino diventare liberatrici: dall’euro, dall’eurocrazia, dalla Germania e dagli Usa. Ovviamente in Italia nulla di questo è sperabile: i numerosissimi generali di un esercito otto-settembrista non hanno un onore storico da difendere, anzi si sono accomodati alla greppia delle categorie pubbliche inadempienti: se ben ricordo, il loro ministro Ignazio La Russa li ha forniti ciascuno di una Maserati come auto di servizio (gli inglesi hanno fatto dello spirito: così saranno più veloci dei soldati italiani nella prossima ritirata). Impossibile che venga da lì un progetto alternativo di uscita dalla crisi economica, morale e intellettuale in cui affondiamo. Speriamo nella Grande Muette.
1) «La pratica di «girare le palle» (intese come pallottole) era stata adottata, all'epoca della prima guerra mondiale, da molti nostri soldati come modo sbrigativo e «alternativo» di rendere più letale il munizionamento. Invece di modificare la punta delle pallottole al fine di indurre effetti espansivi (ad esempio bucando la punta, come nelle hollow point, o segandola, come nelle classiche dum dum inglesi) i fanti più «industriosi» e meno attrezzati sfilavano le pallottole (le palle) dal bossolo e le reinserivano girate. Così facendo ottenevano due risultati: non solo ne avanzavano il baricentro, rendendole più stabili e precise nel tragitto verso il bersaglio, ma soprattutto le rendevano estremamente instabili e prone a ribaltarsi al momento dell'impatto, determinando ferite estese e difficilissime da operare, anche quando non profonde. Questo munizionamento era proibito dalla convenzione di Ginevra e i soldati che avevano le «palle girate erano i più aggressivi...». 2) I generali (Soustelle, Salan, Massu ed altri) che fondarono l’armata clandestina per contrastare la rivolta del FLN algerino erano tutti reduci dal disastro dell’Indocina (Vietnam). Per anni avevano difeso i contadini inermi contro i Vietcong, li avevano radunati in villaggi fortificati, avevano assicurato loro: «l’Armata di Francia non vi abbandonerà». Avevano dovuto lasciarli alla mercé del nemico, per una decisione politica da Parigi, nel 1954, venendo meno alla parola data. «Mai più» si giurarono, mai più abbandoneremo la popolazione civile a comunisti né verremo meno al giuramento. Spediti in Algeria, trovarono una situazione simile: centinaia di migliaia di algerini che volevano restare francesi (harkis) e un milione e mezzo di bianchi (pied noirs) che avevano messo radici in quello che, allora, era territorio metropolitano francese; gli uni e gli altri sotto il terrore del FLN e della sua guerriglia senza pietà: massacri di famiglie rurali isolate, bambini trucidati, sequestri di persona e torture, attentati-strage nei ristoranti. I generali adottarono fino in fondo i metodi che avevano sperimentato con successo in Indocina, applicando al FLN le sue stesse azioni: terrorismo contro terrorismo, tortura contro tortura, rappresaglie. E inquadramento della popolazione fedele in gruppi di autodifesa, terra bruciata dei villaggi sospetti. La repressione ebbe successo, il FLN era alle corde. La popolazione francese d’Algeria impose il ritorno di De Gaulle ai «politici», ritenendo che il vecchio generale avrebbe tenuto l’Algeria attaccata ala patria. Avvenne il contrario. Gli ufficiali in Algeria, per non lasciare la popolazione, ne organizzarono l’insurrezione e tentarono due colpi di stato. Alla fine, nel 1962, furono processati per alto tradimento; nemmeno si difesero, con la convinzione di aver difeso un principio più alto del diritto e più sacro della legalità. Il presidente del Tribunale speciale al generale Raoul Salan: «Accusato, si alzi. Ha qualcosa da aggiungere a sua difesa?». Salan rispose: «Io non aprirò la bocca, signor presidente, se non per gridare “Viva la Francia”. E all’avvocato generale (il procuratore d’accusa, che aveva chiesto la sua condanna a morte come traditore), io dico soltanto questo: Que Dieu me garde!». Solo Dio può giudicare un soldato che, in condizioni estreme, onora il suo giuramento, quando il contrasto fra «legalità» e «legittimità» si fa inconciliabile. Il generale De Gaulle, quando seppe che Salan era stato sì condannato, ma non alla ghigliottina, si infuriò, gettando a terra un prezioso vaso (di Stato) all’Eliseo. 500 mila algerini scelsero di riparare in Francia anziché restare sotto il governo rivoluzionario. Un milione e mezzo di pied noirs fecero lo stesso, espulsi. (http://guerredalgerie.fr)
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