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Esodo
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Un lettore scrive a Copertino:

«Non risulta dalla Scrittura che i Profeti dellVIII/VII secolo sapessero chi fosse Mosè. Nè hanno mai parlato dellesodo nel modo in cui poi se ne scriverà. Ci rendiamo conto dellincongruità? Hai voglia a parlare di tradizioni orali, tramandate di generazione in generazione. Il vero Esodo è stato il ritorno dalla Mesopotamia per il quale ne occorreva uno ideale e mitico per rafforzare le volontà. Si veda, per esempio, l’ottimo Mario Liverani, ‘Oltre la Bibbia’, Laterza. Franco Lotus».

Provando un po’ a ragionare la principale fonte documentale dell’Esodo è il relativo libro biblico. Questo testo è stato definitivamente messo per iscritto, al pari della Torah, all’epoca del ritorno dall’esilio babilonese (V secolo avanti Cristo). Ma la redazione scritta non è avvenuta per invenzione del momento. La cosiddetta ipotesi documentale sostiene, per l’appunto, che quella redazione è il risultato della collazione di altre fonti, sia scritte che orali: la fonte jahvista (J) risalente a prima del 1000 avanti Cristo, la fonte elohista (E) databile alla fine dell’VIII secolo, e la fonte sacerdotale (P) risalente allo stesso V secolo. Secondo la tradizione ebraica, ripresa da quella cristiana, la Torah sarebbe stata scritta da Mosé. Oggi sappiamo che essa è invece una raccolta, formatasi in epoca post-esilio, di vari scritti di epoche precedenti. Infatti nel Pentateuco, ossia i primi cinque libri della Bibbia, abbiamo il convergere di due racconti della creazione, due decaloghi, diversi nomi per Dio (che dimostrano un graduale affinamento della concezione monoteistica).

L’ipotesi documentale, che oggi va per la maggiore, tuttavia, non afferma, come ideologicamente vorrebbero far credere Liverani e Filkenstein, che il contenuto significante (in termini teologici sarebbe il contenuto rivelato) sia stato elaborato per scopi politici, ma, molto più correttamente, che si è trattato di una riorganizzazione di tradizioni e memorie storiche, anche orali, per giungere ad una canonizzazione organica.

L’ipotesi documentale è stata avanzata agli inizi del XX secolo dal biblista Julius Wellhausen che ha ipotizzato che alla base del Pentateuco ci siano tradizioni e racconti tramandati nel tempo prima in forma orale e poi messi per iscritto. L’oralità è il modo più antico di trasmissione della memoria, conosciuto dall’umanità, ed anche, paradossalmente, per l’epoca precedente l’introduzione della scrittura, il più sicuro, basato come era su precise tecniche di apprendimento mnemonico ben note in diverse culture, comprese quelle antiche medio-orientali. Questo significa che la forma scritta, la canonizzazione, che interviene dopo, è solo una riorganizzazione di materiale, spesso orale, precedente e che, pertanto, non può a priori parlarsi di falsificazione, anche perché difficilmente gli addetti al tramandamento orale (veri e propri corpi specializzati di tipo sacerdotale o cultuale) avrebbero piegato la tradizione ad esigenze diverse da quelle della trasmissione alle generazioni venture. Basta conoscere un po’ di antropologia delle culture primitive per saperlo.

Nel caso biblico, dunque, si è trattato, in fase di canonizzazione scritta, soltanto di armonizzare precedenti tradizioni, sia già scritte che orali, fra loro diverse nei contenuti ma sostanzialmente convergenti verso lo sviluppo della fede monoteistica (in termini teologici, si tratta della graduale rivelazione divina che poi viene organizzata canonicamente).

Per quanto riguarda, in particolare, il libro dell’Esodo, le varie fonti risultano solo parzialmente armonizzate e mostrano dal punto di vista che oggi diremmo storiografico alcune discordanze, proprio perché la canonizzazione per iscritto è successiva di secoli agli eventi. Ma questo non significa che vi sia stata invenzione delle fonti e del loro contenuto. Il fatto che la memoria degli eventi sia stata tramandata principalmente dalla tradizione orale non significa, se non per una mentalità moderna e positivista, che siano intervenute sostanziali distorsioni in ordine alla storicità essenziale di quanto tramandato. Il contenuto del libro dell’Esodo, anche la di là del fatto che stiamo parlando di Scrittura ispirata, ossia di rivelazione sotto influsso soprannaturale, nella sua essenza è stato, pur tra le difficoltà di una armonizzazione successiva, preservato dalla trasmissione orale. Oltretutto si deve tenere conto che i racconti storici in esso narrati hanno un intento teologico e, che quindi, sono stati tramandati tenendo presente, pur senza tradirne la storicità essenziale, questa esigenza.

L’essenziale fondamento storico del libro dell’Esodo trapela da una serie di indizi. A titolo di esempio ne indichiamo alcuni. Innanzitutto la citazione in esso delle due città egizie di Pi-Ramses e di Pitom, dalle quali l’esodo ha inizio, che il faraone Ramses II, che ha regnato nel XIII secolo, fece costruire con manodopera fatta sostanzialmente di schiavi. Abbiamo poi la cosiddetta stele di Merenptah, del XIII secolo, nella quale è citato, come proveniente dalla terra di Canaan, un popolo nomade denominato ysrìr, che è stato interpretato dagli storici come un riferimento ad Israele.

Si aggiunga il cosiddetto papiro di Ipuwer, la cui datazione oscilla dal XIX al XIII secolo, che tramanda la notizia di cataclismi naturali molto simili alle sette piaghe di cui si parla nel libro dell’Esodo. Vi sono, poi, diversi scavi archeologici che hanno dimostrato che tra il 1250 ed il 1150 avanti Cristo diverse città cananite (Betel, Debir, Eglon, Hazor, Lachis, Meghiddo) subirono una distruzione violenta di tipo bellico compatibile con la narrazione, magari enfatizzata, del libro di Giosué. Inoltre, sempre gli scavi archeologici, hanno rinvenuto, con datazione intorno al 1200 avanti Cristo, almeno 250 insediamenti rurali fortificati nella zona montuosa, ossia periferica, della Palestina (terra di Canaan) che dimostrano un progressivo stanziamento, di tipo sostanzialmente pacifico, di popolazioni nomadi. Tutti questi elementi confortano la storicità degli eventi tramandati e riorganizzati canonicamente nel libro dell’Esodo.

Durante l’esodo si situa l’esperienza estatica di Mosé, sui cui segni soprannaturali di credibilità ho già scritto, in risposte ad alcuni commenti, che è alla base della rivelazione del decalogo (tramandato nel Deuteronomio in due forme parzialmente dissimili ma sostanzialmente, quanto a contenuto etico-religioso, identiche). Tra i segni soprannaturali, possiamo aggiungere quello del roveto ardente che ritroviamo anch’esso nel Nuovo Testamento e nella fenomenologia mistica cristiana. Il Fuoco che arde senza bruciare è il medesimo che compare il giorno di Pentecoste nel cenacolo con le lingue di fuoco sul capo degli apostoli e di Maria. E’, poi, lo stesso che molti mistici affermano di sentire letteralmente bruciare nell’intimo del cuore: un ardere che provoca dolore ed al tempo stesso indicibile pace o godimento spirituale.

Si tratta, in altri, termini del Fuoco dAmore, del Fuoco dello Spirito Santo. Anche l’altra fenomenologia, quella del vento fragoroso che tuttavia non scuote le piante come il vento naturale, si ritrova successivamente. Ad esempio, sempre nel Nuovo Testamento, a Pentecoste o in casa del centurione Cornelio quando Pietro lo battezza. E la si ritrova ancora a Lourdes, quando la piccola Bernadette fu scossa, un istante prima dell’apparizione dell’11 Febbraio, da un rumore di vento anche se quel giorno non tirava un filo d’aria. Persino certa fenomenologia biblica solare, come quella del sole che si ferma nel suo cammino apparente per consentire agli israeliti di combattere efficacemente, è riscontrabile successivamente nel corso della storia, come nel caso della visione di Costantino prima della battaglia del ponte Milvio, sempre che non vogliamo chiudere pregiudizialmente alla possibilità che il soprannaturale si manifesti nella storia. Del resto, dopo quel che la nostra generazione sa circa tale fenomenologia solare, a seguito di eventi come quello di Fatima ed altri simili, non è possibile ridacchiare, con scettica arroganza, su certi fatti, cercando spiegazioni naturalistiche, che non reggono, come fa un Odifreddi.

Il Decalogo, che è Rivelazione divina ed, in parte, legge naturale, diventò per Israele la Legge dell’Alleanza. La Legge fondamentale nella e della quale viveva il popolo e sulla quale si ritmavano tutti gli atti quotidiani. Affermare che i Profeti dell’VIII/VII secolo non sapessero chi fosse Mosé, all’epoca ritenuto l’estensore di tutto il Pentateuco, è come affermare che - ci si passi l’azzardo - noi non sapessimo, oggi, che Dante Alighieri ha scritto la Divina Commedia.

Il profetismo è un altro genere biblico, diverso dal genere dei cosiddetti libri storici, ed è connesso con l’esperienza mistica della visione e con forti connotati messianici ed escatologici. Ma i singoli profeti, cui Dio parlava, vivevano nella Legge di Israele, nell’osservanza cioè di quel Decalogo attribuito a Mosé. Sicché affermare che essi, ai loro tempi, non avessero mai sentito parlare di Mosé è una pura assurdità.

Luigi Copertino




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