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Per farla finita col complottismo
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(II ed ultima parte)

Per essere di una qualche utilità verso i miei rari lettori, da subito espongo la mia tesi  assumendo il rischio di disarticolare il senso delle righe che verranno.
La tesi è la seguente: come dice Leopoldo Fabiani: «il complotto è cambiato».
I poteri che danno vita al complotto sono su internet ed il «navigatore» rischia di essere ridotto all’ignoranza per via della confusione; in questo caso l’ignorare si realizza non per mancanza di dati ma per eccezionale sovrabbondanza di informazioni.
Si ha difficoltà, oggi, ad individuare quelle corrette e a trascurare quelle che costituiscono le ennesime ripetizioni di cose mille volte dette, o quelle palesemente fantastiche tanto da far gridare ai benpensanti alla «subcultura».

Dunque, se il complotto cambia, anche il «complottismo» - inteso sia come sforzo di portare ad organicità le indagini condotte da specialisti, sia come plesso di convinzioni maturate dai sempre più numerosi acculturati - dovrebbe essere sottoposto ad aggiustamenti.
Una modifica dovrebbe riguardare la finalizzazione pratica delle indagini e l’interesse maggiormente sentito ed incarnato, appassionato direi - e penso all’interesse nazionale - che gli acculturati dovrebbero nutrire, anche per uscire dalla sfera di un tema approcciato solo intellettualmente per entrare nella sfera certo più dignitosa della socializzazione politica.
D’altra parte il nostro Paese è più che sufficientemente illustre da «meritare» il nostro impegno, la fatica ed il sacrificio necessari ad una sua reconquista, della Patria, come la definirebbero gli spagnoli; ad un riscatto dalle istituzioni dei complotti che dilaniano la nostra Patria.
Non basta essersi impossessati di conoscenze su congiure e congiurati; non basta far parte di una sorta di contro-opinione pubblica più che distante dalla opinione pubblica dei «benpensanti» ed apprendere dati di volta in volta sempre nuovi.

Per esempio, Luciano Garibaldi ha scritto «… che la verità sulla morte di Benito Mussolini è stata, è, e sarà uno dei nodi cruciali della storia del nostro Paese» (1).
Garibaldi si riferiva ad una dichiarazione resa da De Felice durante l’intervista concessa a Pasquale Chessa («Rosso e Nero», Milano, 1995).
Avviandosi alla conclusione del libro, Garibaldi ha poi citato Bruno Spampanato, autore nel 1964 del noto «Contromemoriale», dove egli sostiene: «A qualcuno doveva ben convenire lo sconvolgimento dell’Italia, la sua retrocessione a potenza di second’ordine, il suo declassamento nel Mediterraneo, la sua estromissione dall’Africa Settentrionale…la sua scomparsa dall’Africa Orientale, infine la perdita di quanto si era acquistato in mezzo secolo. E solo chi voleva questo poteva volere che una sconfitta militare... prendesse per l’Italia le proporzioni e gli aspetti di un disastro politico. La storia era questa. L’Inghilterra era stata amica di un’Italia modesta e fedele: e nel Risorgimento l’aveva perfino aiutata quando il suo contrappeso serviva alla politica britannica nell’equilibrio europeo-mediterraneo. Ma già l’Italia degli scorsi decenni allarmava gl’inglesi: e quest’ultima Italia fu considerata nemica fin dalla guerra in Etiopia. Da allora gl’inglesi non fecero che prorogare la scadenza che arriva col 1945» (2).
«Scaduta» la pista inglese cruenta, quella bellica per intendersi, credo che sia cominciata, a guerra finita, la «manutenzione» angloamericana, relativamente incruenta, dell’Italia, resa oggi mansuetamente bovina, più che modesta e più che fedele.

Occorrerebbe che gli specialisti approfondissero quel grado di manutenzione per capire a quale livello di soggezione l’Italia sia giunta.
La modestia delle mie conoscenze e la limitatezza del numero dei libri che mi accompagnano negli spostamenti come fossero un «bagaglio presso» mi costringe, in questo caso, entro la  permeation fabiana.

Sulla Fabian Society si è scritto molto; chiediamo aiuto (e rimandiamo) al «fedele» Epiphanius che ha analizzato il fenomeno con ricchezza di particolari (3).
In sintesi, i fabiani auspicano un socialismo mondiale che fosse ristretto alle classi sociali ma che facesse salve le prerogative dei vertici iniziatici.
Con la permeation, les angles influenzano «le persone che - anche e soprattutto se formalmente lontane dal socialismo - si trovano ad occupare posti chiave di potere a tutti i livelli e in tutti i campi… gli obbiettivi primari della permeation sono gli uomini politici, anche i professionisti, gli insegnanti, gli imprenditori devono essere ‘permeati’… In quest’atteggiamento élitistico… si evidenzia la scelta di incidere in maniera indiretta sulla politica e di non assumere in prima persona compiti di gestione del potere».

Come si vede è ormai tempo che si dia avvio ad un robusto antinglesismo.
E’ tempo che accanto all’antiamericanismo sovraesposto in termini di fatti macroscopici, si affermi un antinglesismo per fatti solo apparentemente «microscopici» e tutti da scandagliare.
Costoro vanno osservati minuziosamente, per il loro livido, strisciante, subdolo lavorio portato contro il nostro popolo.
Ed occorre farlo subito, oggi che il capitalismo anglosassone che Michel Albert dava vincente contro quello renano degli anni ‘90 è finalmente imploso (vedi i fenomeni legati ai mutui subprime ed ai prodotti derivati in genere).
Sono ben consapevole delle infinite sofferenze che un simile crollo ha comportato e porterà, ma credo che si potrà trovare almeno un qualche sollievo se ci si convince che ci è stata scaricata dal groppone una delle mille menzogne sotto le quali tutti noi gemiamo.
Magra consolazione, d’accordo.

A suo tempo scrissi e lo ripeterò scusandomene: citando Galli della Loggia: «Il bluff è finito - scriveva sconsolatamente Gaetano Salvemini in una delle sue prime lettere dall’America, nel dicembre 1944 - l’Italia non è più che una sfera d’influenza inglese, una colonia inglese, una seconda Irlanda» (4)
Tanto rispetto per gli irlandesi, ma francamente non ho nessuna voglia né vorrei che i miei compatrioti facciano quella fine, specie se a decretarla dovessero essere les angles, per i quali «…l’Italia avendo insidiato e messo in pericolo l’egemonia britannica nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, essendo scesa in campo contro l’Inghilterra nel momento in cui questa oltre tutto era nelle maggiori difficoltà e avendo perso la guerra, dovesse essere adeguatamente punita e dovesse pagare fino in fondo il prezzo delle sue colpe e guadagnarsi il suo passaggio fuori della condizione di Paese nemico vinto, perché - come Churchill scrisse nell’agosto del 1944 - ‘quando una nazione si permette di sottomettersi ad un regime tirannico, essa non può essere assolta dalle colpe di cui questo regime si è reso colpevole’» (5).

Così saremo legittimati ad organizzare una nuova Norimberga per i popoli USA che «lo» hanno dapprima eletto e poi se «lo» sono confermato per altri quattro anni !
Che splendido giorno sarà quello in cui il mondo potrà assistere al blocco commerciale nei confronti degli USA!
Fa effetto anche il solo pensarci, vero?
Chiedetevi perché!

La libertà [si è trasformata] in un nostro «diritto»: quello di fare l’interesse dell’Anglosfera, come direbbe De Jouvenel se non lo avessimo prontamente parafrasato.
«L’Italia doveva essere degradata al rango minimo di nazione, smilitarizzata, amputata territorialmente a favore della Jugoslavia, privata di qualsiasi ruolo internazionale e coloniale, ed essere tenuta, per così dire, a domicilio coatto, a esclusivo vantaggio degli interessi britannici nell’area mediterranea» (6).
Quel che valeva alla fine dell’ultima guerra, il giurarle vendetta per aver tentato di competere con il suo impero, vale ancor oggi.
Questo scrivevo.

Occorre che si cominci a creare una coscienza nazionale ed un amor patrio capace di distinguere il nemico dall’amico; che dubiti del fatto che i popoli europei a noi geograficamente vicini, debbano essere nostri antagonisti mentre popoli lontani, molto lontani, oltre la Manica, quelli sì che sono amici !    Occorre cominciare a chiedere il conto ai gentleman (!) angles per gli infiniti mali che quotidianamente ci arrecano con strumenti subdoli, secondo lo stile che è loro proprio.

Durante un ozio pomeridiano, gravato dalla calura estiva, incappai nella traduzione di un canto: 
«Sentiamo ormai un unico odio.
Amiamo in comune, odiamo in comune.
Ci è rimasto un solo nemico.
Tutti lo conoscete.
Tutti lo conoscete.
Accovacciato dietro il mare grigiastro,
pieno di invidia, di malizia, di ira e di astuzia      
separato da noi da acque
più spesse del sangue.
Ci è rimasto un solo odio.
Ci è rimasto un solo nemico: l’Inghilterra !
».

Decisi di saperne di più e così mi toccò apprendere che: «Ernst Lissauer, un poeta minore ebreo, eternò il tradimento di Albione in un ‘Inno all’odio’, un poema scribacchiato in tutta fretta che conquistò immediata¬mente i favori del pubblico quando a settembre apparve su un quotidiano di Monaco. ‘Il Kaiser è andato in estasi - scrisse Stefan Zweig - ed ha conferito a Lissauer l’Ordine dell’Aquila Rossa, il poema è stato riprodotto su tutti i giornali, gli insegnanti lo hanno letto ad alta voce nelle scuole, gli ufficiali al fronte lo hanno declamato ai loro soldati, finché tutti lo hanno imparato a memoria. Come se non bastasse, esso è stato messo in musica, adattato per coro, e cantato nei teatri. Non v’era nessuno, fra i 70 milioni di tedeschi, che non conoscesse ‘l’Inno all’odio’ dal primo all’ultimo verso’. L’incendiario poema approdò ben presto in America, ove il ‘New York Times’ propose ai suoi esterrefatti lettori il bellicoso messaggio» (7).

Dunque, avendo a mente simili considerazioni, invito il lettore a riflettere con attenzione su alcuni eventi presi, direi, a caso: ad esempio, sulle modalità  che assunse la fine di Bettino Craxi, l’uomo di Sigonella ma anche l’uomo che si permise di portare l’Italia a scavalcare les angles in termini di nazione più industrializzata e che, come se non bastasse,  fece il grave errore di battere il pugno sul tavolo perché l’Italia fosse, prima del ‘76, annoverata nell’allora G6, così spuntandola nei confronti dei les angles che si erano «fieramente» opposti al suo ingresso.
Riflettere sulle meste processioni formate da metà dei politici nostrani (compresi, a suo tempo, i dirigenti sedicenti antimondialisti della Lega) avviate in direzione della City londinese per, cappello in mano e proni all’esame, chiedere di essere accettati nel bel mondo della cuccagna finanziaria.
Riflettere sulle gite scolastiche (voce di bilancio fortemente attiva per les angles) allegramente organizzate da innumerevoli giovani diretti a Londra, giovani che cresceranno avendo negli occhi l’immagine di quella città scambiata con l’ombellico del mondo, dimentichi, nel frattempo, del valore della loro Roma.
Riflettere sui quotidiani collegamenti con Londra di tutti (credo che siano proprio tutti e quotidiani) i telegiornali nostrani, preoccupati di sciogliere il grave stato d’ansia in cui versa l’italiano medio quando non viene informato tempestivamente sull’effetto dell’ultimo spinello fumato da questo o quel principino o sull’ultimo inciampo di Elisabetta II.

In ultima analisi, vorrei sapere dai «complottisti» (anche perché ho interesse a sapere) se, divenuti più pragmatici e più «finalizzati», per caso non stia accadendo, Dio non voglia, che i «nostri nemici - cito a memoria, avendo perduto il riferimento d’origine - stiano marciando alla nostra testa».
E’ tempo che si passi ora ad alcune precisazioni relative ai modi che renderebbero inattuale il «complottismo», avendo però ben a mente il doppio piano della storia e delle logiche così come lo pensò Honoré de Balzac di cui si è detto nella prima parte.

Se, alla ricerca della sua storia occulta e «vergognosa», alcuno individuasse supposte motivazioni segrete che sarebbero all’origine di un avvenimento  meritevole di far parte di più vasto disegno ordito ai danni delle società naturaliter umane (congiura mondiale ma soprattutto nazionale), delle sue comunità di destino, e degli individui, cioè se la dietrologia conducesse a sposare posizioni complottiste, oggi una simile ricerca porterebbe ad incontrare purtroppo la cronaca e la storia prima ancora del «complotto».
Sta accadendo, infatti, che la vastità degli sconvolgimenti a carico di ogni pensabile aspetto del reale a compromissione di ogni ipotetico futuro, potrebbe essere certamente interpretabile come la fase, ben nota ai complottisti, dell’iniziatico solve.

In realtà, la drammaticità del vissuto quotidiano e l’eccezionale incertezza perfino dell’ora a venire, sono tanto sconvolgenti da sopravanzare ogni interpretazione; insomma la realtà sta superando la «fantasia» (dei dietrologi).
Quel che si vuol dire, dunque, è che esiste il rischio che le realtà occulte e non che si snocciolano sotto i nostri occhi, quelle che poi sarebbero destinate a perfezionare l’impianto teorico del «complotto» (peraltro in pieno svolgimento), quegli accadimenti è possibile che rendano disfunzionale la ricerca e l’attività di elaborazione teorica svolta dal «complottismo».

Quanto più simili elaborazioni divengono raffinate, quanto più si confermano reciprocamente e si autogiustificano, tanto più c’è il rischio che l’enormità degli eventi le schiacci, schiacci, cioè, le denunce delle infamità perpetrate perché l’infamità nel frattempo si è realizzata: qualche tempo fa si diceva: tutti i particolari in cronaca.
Inoltre le informazioni relative al complotto hanno rotto gli argini della dimensione nazionale per diventare notizie di rilevanza planetaria, per cui accade che le denunce dei dietrologi - è questo il fine che alcuni storici controtrivoluzionari posero come scopo delle loro ricerche - pur divenute rigogliose, suggestive e riscontrabili, perdano il loro riferimento naturale (nazionale) e diventino o appaiano sostanzialmente «astratte».
Le denunce servivano a divulgare l’esistenza di «complotti» e cospirazioni che, considerati come «crimini nella maggior parte degli Stati» potevano essere perseguiti dall’autorità costituita in quanto finalizzati a commettere un atto illegale o immorale; le persone coinvolte potevano essere indagate per essere state parte di una struttura criminosa, o anche, talvolta, per essere semplicemente a conoscenza della cospirazione e non aver agito per opporvisi.

E’ evidente che non è più pensabile di perseguire alcuno per atto illecito da «complotto»; non esiste la volontà politica per farlo (si pensi alla P2); non l’autorità che voglia tutelare la società - che nell’ottica liberale (che offende e deforma lo spirito naturale europeo) perde la sua consistenza e la sua autonomia - non quella che intenda discernere fra momento fisiologico dell’ordine e momento patologico del contro-natura.
Dunque il «complottismo» può considerarsi, come sommariamente cercherò di dimostrare, non più in linea con i tempi presenti.
Ciò vale sia che con il termine si voglia indicare la «tendenza ad immaginare…» sia che si vogliano spregiare le tesi del mero portatore di teorie che, alla stregua della desueta filosofia della storia, prevedano un secondo (Balzac) ordine di idee e di fatti storici, sia che si voglia indicare l’attività di quanti ricercano proprio le connessioni seconde.

Ritengo che il «complotto» o congiura o cospirazione ovvero ciò che comunque con tali termini si voglia intendere, sia ormai entrato nel dominio della realtà storica.
Il possibile dramma di una Terza Guerra Mondiale occhieggia di continuo fra gli articoli di politica estera; mi chiedo quanto ed a chi abbia potuto giovare, sul piano pratico, sapere che fin dal 1870 Mazzini e Pike, «in gara» fra loro per conquistare il grado più alto della più Alta Massoneria, ne prevedessero lo scoppio.
Tanto svelava, pare, il capitano di squadra navale (commodoro) William Guy Carr riportato da Jean Lombard, rivelazione a noi giunta grazie al lavoro di gran valore svolto da Epiphanius (8).
Se però tale letteratura avesse fatto parte del patrimonio di una specifica comunità (politica [partitica] o sociale), avrebbe potuto sortire l’effetto, afferriamo al volo un’immagine più che un esempio, di avviare la costruzione di rifugi antiatomici visto che i più recenti palazzi svizzeri ne sono ordinariamente dotati.

Ricordo che i ripostigli delle famiglie sono inseriti in un grande rifugio con tanto di porta blindata di cemento spessa circa un metro.
Ne discende che il complottismo inteso come attività autonoma di ricerca, di interpretazione, di controllo, di denuncia necessita di uno sbocco pratico, fattivo, anche perché, come ho detto, sono venuti meno i presupposti da cui esso aveva ricevuto l’abbrivio.
I fatti ed i personaggi che vi rientrerebbero possono essere addirittura ascritti alla cronaca corrente piuttosto che essere scoperti o rivelati o previsti.

Una curiosità forse può chiarire:  Blondet, a suo tempo, scrisse a proposito di Veltroni: vedrete, se è stato presente in quella sessione Bilderberg (1996), sarà stato certamente cooptato.
Trascorsi gli anni, Veltroni, smesso il ruolo di outsider della politica, ne è diventato il protagonista. Anche se si fosse ignorata una simile e pur felice intuizione sarebbe bastato osservare l’improvvisa, pirotecnica comparsa ed il ruolo assunto da Veltroni per intuire a quale ordine di decisioni sia appartenuta la sua discesa (!) in campo.

Così, oggi basterebbe leggere la cronaca e passarla al setaccio del revisionismo cronachistico della controinformazione per ottenere un quadro, probabilmente sfumato, ma certo verosimile.
Comunque sia, se è evidente che altro è un complotto, per quanto ipotetico, ed altro è la teoria del complotto che «attribuisce la causa ultima di un evento o di una catena di eventi (in genere eventi storici, politico/sociali) ad un ‘complotto’ » inteso come fatto perpetrato ai danni della società, meno evidente sarà la considerazione che esso dovrebbe rientrare nel dominio della sociologia, essa stessa penalizzata dalla problematicità della dimostrazione dell’assunto.
Il versante psicologico della teoria che si assume per verosimile, assume forme diverse.

Ad esempio, viene sostenuta da alcuni la presunta illogicità o la mancanza di prove del complotto che trasformerebbe la teoria del complotto in complottismo colpevole di interpretare «praticamente tutti i più importanti eventi e le tendenze della storia come il risultato di cospirazioni segrete».
In realtà è successo che per mettere a tacere alcuno che troppo aveva indagato su questioni riservate, lo strumento prescelto sia stato quello del ridicolizzarlo o di «patologizzarlo» per schizofrenia, comunque, di squalificarlo, di schernirlo o di denigrarlo.
Alcuni psicologi sostengono che una persona che crede ad una teoria del complotto potrebbe credere, con la stessa facilità, anche ad altre teorie simili.

Dicono: l’idea di complotto colpisce l’immaginario collettivo e dunque rende apparentemente chiaro - fornendo una spiegazione - ciò che sembra a prima vista incomprensibile, suscita sentimenti contro un nemico comune e per questo verso il complottismo avrebbe accesso, come auspico, al più ampio dominio della politica.
Possiamo dire, per semplificare, che quella teoria si radica in un complesso di eventi o documenti attribuibili al pensiero ed alle azioni di uomini «eccellenti» (storici, intellettuali, «filosofi», religiosi ma prevalentemente politici), eventi che, letti attraverso la lente teleologica del progetto comune cospiratorio, inducono il ricercatore a convincersi del fatto che nessun’altro mai potrebbe, meglio di quei politici o di quegli intellettuali, certificare il compimento o la reale meccanica (ben descritta, ad esempio, da Augustin Cochin) con cui la gran parte degli eventi storici si è dipanata, specie a far data dai primi anni del ‘700, e diretta verso un unico obiettivo: la distruzione del cattolicesimo e delle
monarchie cattoliche.
Una antologia di «certificazioni» rese da simili personaggi, ristretta ad individualità di grande rilievo e ad affermazioni particolarmente significative, si può trovare nelle pagine iniziali della ponderosa opera di Epiphanius (9).
C’è effettivamente di che restare ammutoliti anche perché l’autore si serve puntualmente e
minuziosamente della citazione delle fonti.

Ad esempio, un versante poco battuto è quello relativo alla parte che il protestantesimo ha avuto nel tentativo, oggi particolarmente accanito, di schiantare la nostra religione cattolica.
Ad esempio, la letteratura revisionista del nostro Risorgimento ha di recente messo in evidenza il fatto che, oltre alle tre componenti meglio note del liberalismo, della Massoneria e dell’imperialismo anglosferico che contribuirono egregiamente all’annientamento del Regno delle Due Sicilie, personaggi di rilievo anglicani e protestanti abbiano preteso da Francesco II di Borbone la licenza (negata dal cattolicissimo re) di costruire i templi entro cui celebrare le loro funzioni.
Non sarebbe di poco conto conoscere le sinergie che si stabilirono e che certamente permangono fra Massoneria e protestantesimo e fra anglicanesimo e l’imperialismo dei les angles.

A questo proposito, sono dell’avviso che occorrerebbe farsi molto più attenti proprio verso quei poteri caratterizzati da un’esistenza silente, che mantengono un basso profilo di immagine, quelli di cui si conosce l’esistenza ma poco o nulla si sa della loro l’attività o, peggio, quei poteri che si immaginano attivi ma che non si percepiscono come pericolosi.
Potrebbe essere questo un buon tema per rendere funzionale e «nazionalizzare» le ricerche di quanti ritenessero opportuno verificare alcune presunzioni (indizi).
Poco dovrebbe  convincere il relativo silenzio che circonda la politica estera della gran Bretagna, sorta di motore immobile, produttore di continui adeguamenti della ideologia liberale, della operatività massonica e del loro ossessivo neoimperialismo ideologico; è di fatto consentito a quell’isola di galleggiare nella storia come se fosse il più fantastico dei vascelli che abbia mai solcato i mari, ivi compreso lo stupefacente Nautilus ed il suo straordinario Capitano Nemo.
Si è dovuto attendere lo scoppio della Rivoluzione Francese perché la teoria del complotto, ormai oggi del tutto strutturata, prendesse corpo.

I controrivoluzionari (ma non Edmund Burke, per favore) uomini cattolicissimi o spesso ecclesiastici, come è stato il caso di Augustin Barruel o di Henri Delassus o di Pio Brunone Lanteri, o di Florido Giantulli o di Denis Fahey o di Rudolph Graber e tanti ancora, avviarono quella teorizzazione.
Credo che le «Memorie per servire alla storia del Giacobinismo» di Augustin Barruel restino ancora l’opera capitale che ha avuto il merito di disegnare l’impianto del complotto al cui interno hanno trovato sistemazione le successive singole realtà e i nuovi sviluppi.
Ripeto; la visione duale della storia che Balzac ha espresso sul finire delle sue incantevoli «Illusioni perdute», non andrebbe mai dimenticata perché è di qualificata giustificazione per la poco perdonata disponibilità intellettuale del dietologo ad approcciare i principali eventi nella storia come se fossero «diretti da ‘cospiratori’ che manipolano gli accadimenti politici rimanendo nel retroscena».
E’ possibile sostenere a mo’ di parziale sintesi che eventi (prevalentemente) conosciuti sono attuati da personaggi (quasi sempre) sconosciuti.

Realtà diversa dalla teoria del «complotto» è il «complottismo», reso da alcuni come la «tendenza ad immaginare…».
E non va bene.
Le poche «firme» italiane molto preparate per capacità di documentazione e logiche rigorose che rendono particolarmente affidabili gli autori, per verità, poco «tendono» e poco «immaginano».
Non va bene, quindi, anche perché esiste il vezzo, che molti intellettuali si concedono volentieri ma del tutto gratuitamente, di riversare sul piano della psicologia individuale - pensiamo in particolare alle patologie di cui sarebbero affetti i complottisti: paranoia, frustrazione, bilia e la lista cresce a dismisura se si mette mano al revisionismo concentrazionario - una questione che appartiene piuttosto alla sociologia e alla gnoseologia, o filosofia della conoscenza, che prescindono dalle tendenze e dalla immaginazione.
Per la verità, la tendenza a compiere un trasbordo del genere, il trasferire, cioè, questo genere di questioni dal piano sociale o politico o di Sistema a quello individuale è, non solo in corso, ma in rapida crescita (10).

Tutto sommato, e tirando per i capelli il senso della questione, se fosse proprio necessario psicologizzare il ricercatore, reo di non essere preconcettualmente contrario a concepire l’esistenza di un doppio piano della storia, si potrebbe asserire che l’accettazione da parte sua dell’ipotesi di una cospirazione marciante contro la società naturale e percepita come inafferrabile per via della sua immensa portata, origini piuttosto dal bisogno, universalmente avvertito sul piano delle individualità, di attribuire una causa verosimile alla progressiva perdita di controllo della realtà da parte dell’uomo - prima, si badi, che il disagio individuale, in questo caso, del ricercatore (e di mille come lui) evolva verso le patologie di difficile terapia.
Anzi, per essere più precisi, l’ipotesi complottista può costituire lo strumento utile per tentare di riappropriarsi di quel controllo che, nel nostro caso verrebbe applicato alle fonti delle informazioni utili, a loro volta, a controllare la realtà.

E’ certamente vero, tuttavia, che l’approccio al complottismo viene di solito avviato alla stregua delle acquisizioni di conoscenze assunte a priori, di quelle, cioè, che consentono un apprendimento per ragionamento e non per esperienza.
E’ però altrettanto vero che la materia non consente, di solito, di fare esperienza diretta del fatto che si vuole denunciare, ciò per via della segretezza che è il collante che tiene uniti i poteri complottardi.
Bisogna convenire sul fatto che è piuttosto difficile presenziare ad una sessione Bilderberg o Trilateral o ad un’assise massonica.
Quindi, una certa quota di a priorismo nella ricerca documentale è inevitabile.
Purtroppo accade nella realtà che ci si debba servire di dichiarazioni di seconda o terza mano, e dunque, nella migliore delle ipotesi, di documenti cartacei dai quali trarre le presunzioni (o indizi).

Ciò non significa che sia corretto immaginare di avere dinanzi agli occhi l’affresco di un puzzle (il complotto) che ognuno di noi crede di avere intuito come verosimile all’interno del quale inserire, più o meno forzatamente, presunte tessere raccogliticce.
Al contrario il puzzle, il cui soggetto ci dovrebbe essere ignoto, dovrebbe formarsi mano a mano che le tessere/informazioni ci pervengono e vengono riscontrate con infinita pazienza badando di non presumere di ottenere prove ma solo indizi possibilmente gravi, precisi e concordanti.

In conclusione, il termine complottismo, che propriamente dovrebbe indicare l’attività di chi organizza complotti, viene quasi sempre «usato per designare in modo dispregiativo il punto di vista di chi crede ad una teoria del complotto per etichettarlo come maniacale o paranoico».
Si tratta della ben nota e vile posizione di quanti, a corto di  reali capacità confutative, preferiscono denigrare la figura del contraddittore.

Vale la pena di notare di sfuggita che coloro che comunemente vengono definiti con un facile neologismo «complottisti» sarebbero in realtà dei «complottardi».
Il neologismo origina dal lemma «complottismo» e giacchè il suffisso -ista non prevede il senso della mera condivisione di una certa teoria, il termine individuerebbe piuttosto l’attività di partecipazione a dottrine o a movimenti muniti di impianto teorico come si potrebbe dire nel caso di fascista o comunista o altro.
A mio avviso sarebbe più appropriato definire semplicemente dietrologi coloro che si sogliono chiamare «complottisti», per via del fatto che, in realtà, secondo il «linguaggio politico e giornalistico» sarebbero coloro che verrebbero dapprima mossi dalla domanda che individua la dietrologia: «Chi o che cosa sta dietro a che cosa o a chi».
Successivamente gli stessi cercherebbero di rispondere andando alla ricerca delle «supposte motivazioni nascoste che sarebbero all’origine di un avvenimento».

Più che la ricerca, sembra essere decisivo il momento in cui l’atteggiamento critico genera, all’interno dell’individuo, la domanda che spinge a tentare di intercettare la verità.
Chi si è già votato al piacere dell’intrattenimento, assumerà un atteggiamento passivo ed acritico che lo lascerà scivolare verso il «non fare domande».
Un simile divieto, più o meno scoperto, esito possibile di un comando o esercizio di un potere indiretto (o induzione), è stato oggetto di raffinato studio da parte di Eric Voegelin (11) che individua il suo momento sorgivo in un atteggiamento di natura gnostica.
Resterebbe dimostrato comunque che colui che si limita a far proprie alcune teorie resterebbe, e finalmente, privo di segno semantico.

Probabilmente si fa eccezione per il solo antisemitismo, lemma secondo il quale il mero ripetitore di teorie elaborate da altri ed amplificate mille volte nel mondo, si espone al «rischio» di essere incriminato per… concorso con chi elabora teorie e le sostiene in quello stesso Occidente, nota patria della liberal democrazia, che si diverte a sfogliare il carciofo delle libertà individuali!        
Dopo le lunghe ma necessarie precisazioni, è tempo che si torni alla tesi prima.
Ho detto che la realtà sembra superare la fantasia; che il complottismo rischia di essere ininfluente perché si limita solo a soddisfare le curiosità degli acculturati ed un milione di acculturati non serve a nulla così come la curiosità non è una virtù; rischia di essere irrilevante perché il «complotto» è quasi del tutto realizzato e la sua cronaca sta in rete; che il «complottismo» ha come perso di vista l’interesse nazionale; che le denunce dei dietrologi non trovano più la sponda istituzionale capace di garantire risultati politici a tutela della società, in qualche modo ordinata, anche se messa in allarme dall’esistenza di un intrigo perpetrato ai suoi danni e dissimulato dal segreto.

Non mi stancherò di ripeterlo: se l’atteggiamento dietrologico in passato tendeva ad appagare personali curiosità, oggi si impone come dovere minimo anche dell’uomo della strada se vuole tentare di non perdere il contatto e capire la realtà dentro la cui complessità si trova calato.
Il chiedersi chi c’è dietro alcuno o qualcosa; la teorica del sospetto, dell’ipotesi seconda o terza, oggi si fa necessità determinante per non essere tagliati fuori.
Sono sotto gli occhi di tutti la crisi della politica; l’attacco forsennato al cattolicesimo; le questioni morali di spessore eccezionale sciorinate dall’oggi al domani fra pettegolezzi che solo pochi lustri fa perfino le lettrici di Grand Hotel avrebbero respinto; il senso della misura smarrito nei comportamenti e nei sentimenti; le falsità utilizzate con cadenza ordinaria mentre viene capovolto il rapporto percentuale esistente fra verità (ordinarie) e menzogne (eccezionali) e così via, sempre più via, in un inarrestabile precipizio.
Ipotizzare che qualcuno possa avere un particolare interesse ad imprimere spinte aggiuntive tali da indirizzare a proprio beneficio la rotta assunta da quel precipitarsi di eventi, si impone come dovere morale.

Ma qui occorre chiedersi: società tanto malate quanto lo sono quelle occidentali (si pensi all’italica «mucillagine» o poltiglia, ad esempio) possono e forse dovrebbero essere salvate sì, ma da quale realtà peggiore della mucillagine?
Certo, un loro cuore buono esiste; esistono ancora molte comunità di destino, molte famiglie e molti individui, comunità religiose e di lavoro in sé ordinate, che possono essere pensati come un’immaginaria cristianissima cittadella arroccata a resistere alle ondate neobarbariche.
Ma quel cuore buono occorre che prenda coscienza di sé.
Occorre che le sue extrasistole si plachino e il suo ritmo torni normale.

Quel cuore deve amarsi e riconoscersi nelle sue parti ed occorre che possegga la convinzione di rappresentare l’ultima occasione che l’intero organismo ha per non trasmutarsi in un’alga.
In ciò saremmo il primo popolo al mondo, certamente in Occidente; e, mi si perdoni, ma personalmente non ce la faccio più a caricarmi di ulteriori primati negativi mentre la gran canaglia osserva compiaciuta i cani di Kojeve danzare per le strade sotto gli occhi dell’inascoltato Zaratustra.
Insomma, in una parola, occorrerebbe organizzare quel cuore.

E facciamo un po’ di conti: di sabato e di domenica il mondo si ferma, si fermano le rivoluzioni, gli ammalati rimangono da soli negli ospedali; non ci si può spostare perché le autostrade sono intasate; le mogli reclamano perentoriamente i mariti; la partita esige le sue vittime così come il sabato sera sgrana i suoi morti e di domenica se ne conta il numero grande quanto quello annuale di una guerra condotta contro la noia che resta poi vittoriosa sul campo.
Il lunedì ci ritroviamo zombi dietro le scrivanie ed il pomeriggio lo impieghiamo a pregare che la giornata finisca presto.
Restano quattro giorni, di cui nell’ultimo, il venerdì mattina, si programmano i disimpegni del fine settimana ed il carico degli stessi sui giorni della settimana successiva.
Il venerdì sera, infine, reclama il tributo di euforia, «doverosa» come la felicità che ci attende di lì a poche ore, quella che Bruckner definirebbe «perpetua» (12).
Nei tre giorni superstiti, oltre a fronteggiare lo stress da lavoro, occorrerebbe organizzare il cuore buono della nostra Italia.

Ma chi se la sente di fare il «lavoraccio» ingrato del ragionier Rossi, contabile, di allacciare rapporti, sentire chi è disposto a stare con chi, mediare le posizioni, cercare chi abbia voglia di servire una causa e smettere di sentirsi il ras dei tre somari, annotare i contatti, accertare le disponibilità e così via?
Se rifacessimo i conti, temo fortemente di dover prendere atto che il cuore buono preferisca raccogliersi nella presunta quiete domestica e lasciare fuori ogni causa d’ansia.

Resterebbero, dunque, medici e infermieri al pronto soccorso, pensionati insonni, panettieri e «dietrologi/complottisti»; starebbe a questi di decidersi a «salvare» quel cuore buono (e lo stesso complottismo) perché forse resterebbero gli ultimi a conoscere (o ad aver conosciuto) per esperienza il significato del servire una causa!
Ad attenderli ci sarebbe una più forte socializzazione politica che potrebbe fornire il patrimonio di una nuova, originale visione del mondo, di un’idea/ideologia politica di alto profilo come quella suggerita da Karl Dietrich Bracher (13); ci sarebbe l’impegno a trovare la forma organizzativa adeguata capace di svolgere un’azione sociale e politica propria, forte come sarebbe del patrimonio delle conoscenze interne (anche complottistiche/dietrologiche).

Un immaginario movimento sociale potrebbe annoverare  all’interno della sua organizzazione, fra le sue anime, oltre alla vocazione religiosa, all’indirizzo politico, allo strumento economico anche una cultura della verità cui la ricerca complottista avrà dato imprescindibile apporto.
In un’ottica che affermi il prevalere dell’interesse nazionale.
A voler essere rigorosi, una autonoma «disciplina» dei retro-perché (dietrologici) non dovrebbe esistere; essa dovrebbe essere alimentata da una vocazione politica, servire non solo alla formazione di una diversa opinione pubblica ma anche ad assumere specifiche decisioni od orientamenti politici, facilitare precise scelte di ordine sociale od economico, al fine di confermare la preelezione di far quadrato a difesa della fede e della Chiesa Cattolica.

L’alternativa sta nel darsi alle erratiche avventure intellettuali, oscillando, quando accade, fra i lucidi deliri di coloro che vorrebbero «rifondare» il Cristianesimo o e i neoteologi-revisori della Fede, fra coloro che ne vorrebbero accelerare la retrocessione e coloro che vorrebbero che fosse liquidata la funzione del katéchon per affrettare, dicono, la parousìa.
In quest’ottica dovrebbe premere molto di più (perché più utile) sapere bene e di più della loggia presso cui rifondatori e neoteologi sono affiliati, oppure dei contatti riservati degli emergenti Veltroni o dei Tremonti «vecchi» e «nuovi».
Sapere bene e di più di coloro cui Tremonti intendeva riferirsi, quando ripeteva, all’interno di una intervista, il termine «illuminati».

Sapere bene e di più del criterio di cui si è servito per dichiarare, durante la trasmissione «L’Infedele» del 26 marzo 2008, che i membri del G7 o del G8 «governano il mondo» - subito correggendosi, però, con il dire - «pretendono… di governare il mondo».
Tremonti è stato ripetutamente presente alle sessioni Bilderberg; è stato nel direttivo della rivista «Aspenia», dunque è stato o è strettamente adiacente all’Aspen Institute oltre che essere autore di un recente volume (14) in cui si fa paladino della famiglia, delle tradizioni ed anche di una nuova Bretton Woods.
A quale grado di inimicizia egli è arrivato?
La sua «conversione» può considerarsi autentica?
Quale senso ha il suo liberal liberismo all’interno ed un improbabile «protezionismo» sull’estero?

Il limite è indiscutibilmente chiaro grazie al buon senso, al Vangelo ed alla tradizione cattolica: istruire tutti, consigliare i dubbiosi, consolare gli afflitti, perdonare e sopportare ma non «date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci per tema che non le calpestino con le zampe e non si rivoltino a dilaniarvi» (15).
E’ l’inversione della dovuta gratitudine, l’irredimibile peccato contro lo Spirito Santo, è l’invito ad essere «prudenti come serpenti e semplici come colombe» (16).
Ciò significa che fra le due società - il cuore buono ed il corpo di tenebra - il privilegio delle maggiori cure vada orientato verso il primo piuttosto che verso il secondo: a meno di un intervento divino, mi sembra che troppo in là sia andata la compromissione di larghi strati della società che ci circonda: «popolo della notte» o culto compiaciuto reso al «grande fratello» televisivo o letamai del genere.

Lo pensereste diversamente un corpo di tenebra (o mucillagine… morale,  se preferite).
Occorre assolutamente che il cuore buono dell’Italia si salvi perché l’Italia tutta si salvi.
E servirlo, merita.

Giuliano Rodelli


                                                                      
1) Luciano Garibaldi, «La pista inglese», Ares, 2002, pagina 128.
2) Luciano Garibaldi, «La pista…», citato, pagina 207.
3) Epiphanius, «Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia», Litografia Amorth, pagina 177 e seguenti.
4) Ernesto Galli della Loggia, «La morte della patria», Laterza, 2003, pagina 3.
5) Renzo De Felice, «Mussolini l’alleato», Einaudi, 1998 pagina 209.
6) Edgardo Bartoli, «Milord», Neri Pozza, 2007, pagina 19.
7) http://hausser.altervista.org/AAR/WWI/1914/1914.htm
8) Epiphanius, «Massoneria…» pagine 117-118.
9) Epiphanius, «Massoneria…» pagine 13 e seguenti.
10) Si veda diffusamente Alain Ehrenberg, «La fatica di essere se stessi», Einaudi, 1999, ed anche la ricca letteratura adiacente per comprendere come le ricadute eccezionalmente drammatiche della
modernità riescano ad essere artificiosamente «addebitate» dal Sistema al soggetto che nel frattempo patisce realmente le conseguenze di quelle ricadute. Ciò che resta incrollabilmente intoccabile è il
mitologhema di una modernità da collocarsi al di sopra di ogni critica che, diversamente, riporterebbe su piani diversi dal soggettivismo la questione di quelle ricadute.
11) Eric Voegelin, «Il mito del mondo nuovo», Rusconi, 1990; e «La nuova scienza politica», Borla, 1968.
12) Pascal Bruckner, «L’euforia perpetua, il dovere di essere felici», Garzanti, 2001, pagina 41 e
seguenti.
13) Karl Dietrich Bracher, «Il Novecento, secolo delle ideologie», Laterza, 1999.
14) Giulio Tremonti, «La paura e la speranza», Mondadori, 2008, pagine 74 e seguenti.
15) Matteo, 7,6. La traduzione è di Gianfranco Nolli, «Lessico biblico», Studium, 1970 pagina 845.
16) Matteo, 10,16.


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