Nasce il nuovo ordine mondiale. Non quello voluto.
21 Aprile 2008
Lehman Brothers manderà a casa 600 dipendenti. Merrill Lynch ha
annunciato che taglierà 4 mila posti di lavoro. Citigroup, dopo aver
annunciato 4 mila licenziamenti a gennaio, ha dichiarato che licenzierà
altri 9 mila dipendenti nei prossimi dodici mesi. Secondo il Financial
Times, alla fine, i disoccupati ex-Citi saranno 25 mila.
La JP Morgan Chase, oltre alle perdite sue, subisce quelle dovute
all’acquisto-salvataggio di Bear Stearns: di cui si prepara a sbattere
fuori 14 mila dipendenti, e forse - secondo il Wall Street Journal -
metà di tutti gli ex impiegati.
Altri grandi istituti bancari americani in rovina stanno licenziando: 3
mila alla Washington Mutual (1,14 miliardi di perdite dichiarate),
centinaia alla Wachovia e alla Well Fargo. Le grandi banche d’affari
globali hanno annunciato circa 20 mila licenziamenti, di cui 6 mila
solo a New York.
In quella che gli USA chiamano la loro più vivace «industria» (la finanza), è un massacro.
Tra USA ed Europa, i posti di lavoro scomparsi nel settore
finanziario-speculativo, del credito e dei derivati, si calcolano in 70
mila. Nei prossimi 12-18 mesi il numero può salire in USA a 200 mila,
secondo Celent LLC, un centro di ricerca finanziaria; secondo Esperian,
un «data provider», a fine 2008 gli operatori finanziari sul lastrico
saranno 240 mila, sui 2 milioni di posizioni nel settore bancario
commerciale
(1).
«Non c’è più tanto bisogno di gente che sa ‘securitizzare’ debiti, dato
che per quegli oggetti non c’è più mercato», ha scritto Floyd Norris,
giornalista economico del Times. Sono begli stipendi e bonus profumati
che scompaiono, e che fornivano il loro frizzante «glamour» a New York
e Londra.
«Fino ad ora la crisi è determinata dal settore finanziario», ha
spiegato John Thain, presidente esecutivo di Merrill Lynch, «ma
dobbiamo ancora vedere l’effetto sul consumatore dei prezzi calanti
degli immobili, dei prezzi crescenti dell’energia e del cibo, e della
disoccupazione più alta».
Non che tutti i licenziati finanziari finiscano a chiedere l’elemosina.
James Cayne, il presidente della Bear Stearns ed autore della sua
bancarotta, negli ultimi cinque anni ha guadagnato 155,26 milioni di
dollari; anche se, prima di essere sbattuto fuori, ha potuto rivendere
le sua azioni nella banca fallita per «soli» 61 milioni di dollari in
marzo.
Charles Prince, presidente di Citigroup, e Staney O’Neal, di Merrill,
sono stati accompagnati alla porta per aver fatto perdere miliardi di
dollari in speculazioni dementi alle loro banche, con un gruzzoletto,
rispettivamente, di 68 e di 161 milioni di dollari.
Gli squali, anche feriti a morte, continuano a divorare. Non a caso il
costo del metro quadro a Manhattan è salito ancora del 41% in questo
anno di crisi.
Sono altri i lavoratori che pagano il prezzo: i 5 mila licenziati alla
AT&T, i 1.100 della Volvo Trucks, i 730 della Harley Davidson, i
477 della Siemens Automation, i 356 del Greenville Hospital di Jersey
city, i 250 della immobiliare Dutch Housing. A marzo, risulta che 5
milioni di lavoratori - 400 mila più che a novembre - sono in USA a
orario e paga ridotte, dato che le aziende hanno meno attività. I
redditi salariali sono in declino da sei mesi consecutivi. Lo squalo
del capitalismo terminale perde sangue a fiotti, ma continua a divorare.
Gli hedge fund si sono buttati sui mercati-merci, provocando il rialzo
speculativo del cibo (il riso è rincarato del 120% nell’anno, di cui il
75% negli ultimi due mesi). Feriti a morte, riescono ancora a fare
profitti e a devastare le società con i rincari di alimenti e petrolio.
Al mercato merci di Chicago, che tratta 25 materie prime agricole, il
volume dei contratti è cresciuto del 20% da gennaio, superando un
milione di contratti al giorno. Gli hedge fund comprano ogni giorno 30
milioni di tonnellate di soya per futura consegna... Naturalmente non
si fanno consegnare questa merce voluminosa, ma rivendono i «futures»
prima. E’ questo che rende la loro opera distruttiva.
I «futures» agricoli, in mano agli operatori dell’economia reale,
servono a stabilizzare i prezzi e a finanziare gli agricoltori con
anticipi su raccolti futuri. Gli hedge, comprando e vendendo futures di
carta, hanno fatto impazzire questo mercato, condannando alla fame
centinaia di milioni di poveracci in Asia, e provocando fenomeni di
accaparramento e tesaurizzazione da parte dei Paesi produttori, che
temono, se vendono il riso e grano sui mercati mondiali, di non
riuscire a sfamare la loro popolazione.
William Pfaff
(2)
trova «stupefacente che in questa situazione, le istituzioni
finanziarie internazionali e i regolatori di Stato non stronchino
questa attività parassitaria e anti-sociale». Basterebbe riservare il
mercato-merci di Chicago, e gli altri simili, agli operatori reali,
quelli che davveno trattano granaglie, e che sono poche decine, e ben
noti.
Ma le istituzioni monetarie non lo fanno: «Il mito del mercato
imparziale e benefico ha la meglio sull’evidenza contraria». Continua
ad operare l’ideologia liberista dogmatica. E’ il capitalismo in agonia
che addenta le ultime sue prede.
Perchè mentre i colossi della finanza crollano, e l’economia USA si
restringe drasticamente in una depressione che si promette abissale,
incapace di punire i colpevoli e di mettere un freno alla follia, si
scopre che, nel mondo, certe economie «vecchio stile» stanno sostenendo
la tempesta meglio di quelle che si sono adeguate al dogma liberista e
che hanno puntato tutto sulla fornitura agli indebitati consumatori USA.
Russia, Brasile e Australia, ricchi di materie prime, se la stanno
cavando bene nonostante il rallentamento mondiale. Germania e Giappone,
ancora produttori di macchinari industriali «pesanti» per la produzione
e non il consumo - l’industria che gli USA hanno abbandonato -
continuano a tener testa alla situazione. In Brasile, grazie alla
domanda sostenuta dei suoi prodottti: minerale ferroso, caffè,
zucchero, i tassi d’interesse sono addirittura calanti.
L’India sta facendo meglio della Cina, perchè ha un forte mercato
interno, che non dipende troppo dalle esportazioni in USA. La Cina, con
la Thailandia, le Filippine e la Malaysia stanno subendo rallentamenti
perchè hanno fidato troppo nell’export in USA. E Paesi come Ungheria e
Turchia sono nei guai per essersi indebitati troppo sui mercati
finanziari. In generale, se la cavano quei settori europei che hanno
compensato l’euro forte rinunciando al mercato americano, e trovandosi
altri clienti.
Il mercato USA sta diventando sempre meno rilevante nel mondo. Di più:
Dani Rodrik, docente ad Harvard (Kennedy School), ha stabilito che i
Paesi - specie dell’America Latina - che hanno seguito i consigli
liberalizzatori del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, nel
1980-90, hanno sperimentato una crescita «negativa» dello 0,8% (l’Asia,
intanto, cresceva del 5,6 %), e di uno stentato 1% fino al 2000.
Poi, alcuni Paesi hanno rigettato le ricette del liberismo e dei suoi
custodi globali («privatizza, liberalizza, svaluta») per adottare
politiche economiche nazionali, «disapprovate» dal FMI: e stanno
crescendo meglio dei vicini, e anche più del Vietnam e della Cina. I
Paesi liberati sono: Argentina, Bolivia, Brazile, Cile, Salvador,
Messico, Uruguay.
Nel complesso, sta emergendo un «Nuovo Ordine Mondiale», ma ben diverso
da quello immaginato dai profeti anglo-americani del mercato-mondo: è
in atto uno storico dislocamento di potenza, di influenza politica, di
prestigio e di ricchezza reale dall’Occidente ex avanzato al quello che
era ex Terzo Mondo, o secondo mondo.
In linea di massima, il potere sta sfuggendo dai Paesi in deficit di
energia verso quelli che hanno energia (petrolio, gas, uranio) da
vendere
(3).
La Cina, bisognosa di materie prime energetiche, sta però solo in
teoria nel primo gruppo declinante: perchè usa la sua nuova influenza
politica per accordi strategici di Stato, ben lontani dal liberismo
alla Adam Smith, per assicurarsi il futuro. Così la Sinopec cinese ha
un accordo storico con la Aramco saudita (che un tempo apparteneva alla
Exxon e Chevron) per nuove esplorazioni in Arabia; la China National
Peroleum collaborerà con Gazprom, il colosso sottto controllo di Stato,
per costruire oleo e gasdotti che porteranno il gas russo ai cinesi. La
indiana Oil and Natural Gas Corporation (impresa pubblica) sta aiutando
il Venezuela a sviluppare i suoi giacimenti di greggio pesante un tempo
controllati da Chevron.
Il trasferimento di ricchezza ai fornitori di greggio, gas e metalli è
enorme: di 970 miliardi di dollari nel 2006, e sicuramente molto più
nel 2008, visti i rincari. Parte rilevante di questa ricchezza viene
depositata in fondi sovrani di Stato, che stanno acquistando tutto ciò
che vale qualcosa in USA, con dollari svalutati.
Di imprevedibile rilevanza per il futuro è la concentrazione
straordinaria del potere energetico: dieci soli Stati possiedono
l’82,2% delle riserve mondiali accertate, e solo tre - Russia, Iran e
Katar - controllano il 55,8% dell’offerta globale. Un accordo fra
Russia e Iran per la divisione pacifica ma «politica» dei mercati,
senza concorrenza fra loro (che Teheran ha già proposto) eserciterà una
storica tenaglia sui Paesi dell’OCSE, sviluppati, (ex)
industrializzati, abituati ad un alto tenore di vita, oggi -
specialmente gli USA - a credito.
Inneggia a questo imprevisto nuovo ordine globale un libro che sta
facendo furore in Asia: «The new Asia hemisphere - The irresistible
shift of global power do the East», di Kishore Mahbubani. Costui, un
diplomatico di Singapore, sostiene che i grandi Paesi asiatici,
cresciuti al nuovo benessere grazie ai «valori occidentali», libero
mercato, proprietà privata e tecnologie comprese, stanno tagliando il
cordone ombelicale che li subordinava alla cultura occidentale
(4).
Oggi, una imponente «de-occidentalizzazione» sarebbe in corso dalla
Cina al Medio Oriente, perchè questi Paesi hanno constatato come la
prosperità mondiale venga oggi «messa in pericolo da processi politici
occidentali fortemente antagonizzanti e disfunzionali», come le guerre
di Bush.
Essi vedono l’ipocrisia con cui «l’Occidente, abitato soltanto dal 12%
della popolazione mondiale», si affanna a mantenere il controllo degli
organismi del libero commercio globale, dal Fondo Monetario alla Banca
Mondiale al WTO, fino al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, «che furono
create con l’intento di servire all’umanità».
Insomma, l’Asia non crede più che l’Occidente sia «la parte più
civilizzata del mondo», non è più soggiogata dal prestigio culturale di
Europa ed USA.
1) David Walsh, «As losses mount, US banks cut thousands of jobs», World Socialist Website, 19 aprile 2008.
2) William Pfaff, « The speculators driving food price rises», 15 aprile 2008.
3) Michael T. Klare, «The rise of the new energy world order», Asia Times, 17 aprile 2008.
4) Sreeram Chaulia, «Asia pushes, West resists», Asia Times, 19 aprile 2008.
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