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Iraq: test di neo-genocidio
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«Quando gli americani sono venuti, ci hanno promesso una vita migliore; dopo aver ucciso i nostri figli e mariti, ora ci ammazzano per fame», dice Ina’m Majeed, insegnante elementare  in una scuola femminile a Falluja. Suo marito è stato ucciso nell’aprile 2004 sotto i bombardamenti americani a Falluja, lei è rimasta da sola a provvedere ai quattro figli. La vedova e i suoi bambini sono, in teoria, beneficiari di razioni alimentari di Stato.

«Le razioni che una volta erano sufficienti a campare», dice la maestra, «ora sono ridotte a quasi nulla, mentre i prezzi di mercato sono incredibilmente aumentati. Per l’80% degli iracheni è ora impossibile avere lo stesso nutrimento che ottenevano sotto il regime di razionamento del passato regime» (1).

L’ultima frase va spiegata. Gli iracheni sono sotto razionamento alimentare da 18 anni, ossia da quando gli Stati Uniti, dopo la prima Guerra del Golfo, imposero durissime sanzioni contro il governo di Saddam, cui parteciparono l’Europa e l’ONU. Impossibilitato a vendere il petrolio contro merci, il governo Baath introdusse un severo razionamento: e le quantità di cibo distribuito si ridussero via via che le sanzioni venivano riconfermate; esse duravano più di quanto il regime avesse previsto, e le scorte venivano meno.

Poi, nel ‘95, con il programma Oil-for-Food, l’Iraq potè vendere limitate quantità di greggio per acquistare alimenti-base e medicinali essenziali. Dal 1996, la qualità e la quantità delle razioni  fornite dal Sistema Pubblico di Distribuzione (PDS) migliorò decisamente. Non era un un Bengodi, tuttavia.

Nel 2001 Hans von Sponeck, allora capo del programma ONU, dichiarò pubblicamente che le sanzioni «equivalgono a stringere un cappio al collo dell’iracheno medio», e denunciò che la penuria imposta dalla civiltà giudeo-cristiana causava la morte ogni giorno di 150 bambini iracheni. Dennis Halliday, il coordinatore degli aiuti umanitari per l’Iraq, si dimise per protesta, e usò per primo, a proposito dell’embargo, la parola «genocidio».

Ebbene: dopo oltre cinque anni di occupazione della civiltà giudeo-cristiana, la situazione è peggiorata. Il sistema pubblico di distribuzione esiste tuttora, ma viene saccheggiato dalle ruberie e dalla corruzione del governo-fantocio di AL-Maliki.

Risultato: dall’inizio dell’anno - quindi ormai da quattro mesi - i dieci generi (alimentari e no) che venivano prima distribuiti sono ridotti a cinque. Ai tempi di Saddam, enumera Abu Aymen, un avvocato di Falluja, 45 anni ed otto figli, «ricevevamo formaggio, latte in polvere, salsa di pomodoro, fagioli, sapone e detersivo, oltre a riso, farina, olio, tè e un po’ di zucchero. Nei casi particolari c’era cibo per infanti e persino del pollo. Oggi riceviamo cibo e medicine scadute, con proiettili e missili». Conclude: «E pensare che ci lamentavamo della vita che ci faceva fare Saddam».

Lo conferma Fadhil Jawad, membro del partito Dawa, ossia quello del primo ministro in carica, Nuri Al-Maliki: «Per noi le razioni del Sistema Pubblico di Distribuzione erano un argomento di propaganda contro il regime, prima dell’occupazione; accusavamo Saddam di nutrire il popolo come bestie, con le sue razioni... razioni che oggi non siamo capaci di fornire». Ora è il nuovo governo a gestire il PDS, perchè nonostante la liberazione e  la democrazia, «è necessario dare agli iracheni un sostegno» del genere, dopo cinque anni di occupazione.

Un rapporto del maggio 2006 stilato dal World Food Program (ONU) ha valutato in 4 milioni gli iracheni  «privi di sicurezza alimentare e in estremo bisogno di assistenza umanitaria di diverso genere».

Nell’aprile 2007, un altro rapporto dell’Alto commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR)  informava che di questi quattro milioni che non sono in grado di comprarsi di che mangiare ogni giorno, solo il 60% ha accesso alle razioni del PDS. E non si può dire più sia Saddam a farli vivere come animali, ma il governo voluto dai liberatori.

Haj Chiad, un distributore delle razioni PDS a Falluja, ha detto all’agenzia InterPress Service: «Allora (ai tempi di Saddam) distribuivamo cibo, oggi distibuisco veleno. Spesso, negli ultimi quattro anni, gli alimenti che ci sono dati dal ministero per la distribuzione sono marci, o effettivamente tossici. Distribuiamo riso e zucchero che sono stati immagazzinati a lungo in ambienti umidi, pasta di pomodoro scaduta da chissà quanto tempo...».

La Commissione per l’Integrità (!) che esiste nel parlamento iracheno ha rivolto un’interrogazione al ministero competente, quello del commercio, e al suo ministro Abdul Falah al-Sudany, chiedendogli un rapporto sulla «vasta corruzione del suo ministero». Come per tutte le altre interrogazioni sui casi di corruzione dilaganti nel governo di Al-Maliki, anche questa non ha ottenuto risposta.

Questa lenta morte per denutrizione in cinque anni di liberazione richiede, forse, una nuova valutazione della strategia della Casa Bianca. Dobbiamo smettere di ripetere che l’invasione dell’Iraq è stata un fallimento, che «l’America non sta vincendo». Certo, non sta vincendo, se continuiamo a credere che lo scopo strategico dell’invasione fosse la liberazione dell’Iraq e la sua «democratizzazione», sia pur nel senso di portarlo, con tutto il suo petrolio, nell’area di influenza americana. Ma se invece ammettiamo che lo scopo strategico fosse fin dal principio l’eliminazione di una popolazione, allora dobbiamo riconoscere che il Pentagono passa da un successo all’altro.

E si tratta di una strategia di successo piena di fantasia innovativa: il campo di sterminio del XXI secolo non richiede più fosse comuni e camere a gas, la morte è autogestita dagli internati, o almeno dai kapò messi al comando dall’invasore. E stanno morendo, per così dire, senza spese a carico degli aguzzini e dei loro mandanti. Pagano loro per le loro razioni da fame, che diminuiscono ogni giorno. Nemmeno c’è bisogno di SS a distribuire la sbobba; lì sono gli stessi detenuti a farlo, scelti come ovvio fra i criminali comuni.

Non sto esponendo un paradosso, men che meno un motto di spirito. Razionamenti che durano da 18 anni - prima con l’alibi dell’embargo, oggi senza  scusanti - lasciano capire un’intenzione deliberata di genocidio. E siccome il «successo» del genocidio iracheno non è che la replica in grande di un esperimento del tutto simile, praticato in corpore vili sui palestinesi di Gaza, si può intuire che questa strategia di successo viene applicata sempre di più.

Forse presto - aiutando i rincari di greggio e cibi, che sono prodotti al 60% della speculazione finanziaria, che può essere stroncata ma è lasciata libera di infuriare (2) - un esperimento di così evidente successo sarà esteso ad altre parti del mondo, ed anche alla nostra. Dopotutto, fra i programmi  del malthusianesimo anglo-americano c’è la riduzione della popolazione mondiale a livelli «sostenibili». Potrebbe aiutare un Arcipelago Gulag  mondializzato, autogestito e sotto regime di libero mercato.

E’, a quanto pare, l’esito della civiltà giudaico-cristiana. Il che, come cristiani, dovrebbe indurci alla modestia: non rivendichiamo questa civiltà come anche nostra.  Tenetevela tutta voi. Chiamatela pure, in esclusiva, civiltà giudaico-americana.




1) Ali al-Fadhily e Dahr Jamail, «Corruption eats into Iraqi’s food rations», Inter Press Service, 3 maggio 2008.
2) William Engdahl, «Perhaps 60% of  today’s oil price is pure speculation», GlobalResearch, 2 maggio 2008.


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