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Rischio Draghi al Colle. Un promemoria
14 Novembre 2014
Devo riprendere una frase che leggo da Dagospia (ormai è l’organo d’informazione adeguato alla comica Italia): «Draghi ha ragione: è inutile che gli italiani facciano casino contro l’Europa; la sovranità l’hanno persa indebitandosi fino al collo». È il succo dell’aulico discorso che Draghi ha tenuto all’università di Roma in memoria di Federico Caffé. È proprio dei padroni-parassiti dei tempi ultimi che servano alle loro vittime, oltre il danno, la derisione. E che i servi come quelli di Dagospia le accettino: Draghi ha ragione, viviamo al disopra dei nostri mezzi; la BCE ci protegge! l’euro ci salva. Lecchiamo la mano al padrone... Giusto per mettere i puntini sulle «i», vogliamo ricordare come mai gli italiani hanno preso a indebitarsi fino al collo? Senza voler attenuare le colpe dei politici e delle loro clientele, il motivo è il cosiddetto divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia — 1981. In che consisteva il «matrimonio» di prima? Schematicamente, in questo: quando il Tesoro emetteva titoli di debito pubblico (BOT) e i mercati non li compravano tutti, la Banca d’Italia era tenuta a comprare l’invenduto residuo. Ciò calmierava gli interessi che lo Stato (meglio: noi contribuenti) dovevamo offrire ai capitalisti perché comprassero i nostri BOT o come dice Nino Galloni (1) , manteneva basso il costo del finanziamento del deficit, il che consentiva una politica keynesiana – allora la teoria che andava per la maggiore – di crescita economica trainata dalla spesa pubblica, per esempio attraverso la costruzione di infrastrutture. Questo non piaceva ai «mercati», perché non lucravano abbastanza interessi dalla crescita italiana – perché c’era la crescita, oh sì. Tanto più scontenti erano quelli internazionali (Goldman Sachs, tanto per dire) perché erano i risparmiatori italiani che per lo più si accaparravano, ben contenti, le emissioni dei BOT. «Un popolo che non s’indebita fa rabbia agli usuari», disse Ezra. Figurarsi un popolo che s’indebita con se stesso, lucrando per sé gli interessi che paga sul suo debito per il suo sviluppo. Ovviamente i nostri governanti d’allora ne approfittarono, esagerando in clientelismo, usando il denaro a basso costo per sussidi improduttivi; invece che costruire infrastrutture, crearono stipendi e stipendifici; prestarono così il fianco alle campagne moralizzatrici (che avrebbero finito per travolgerli con Mani Pulite) ben orchestrate dall’estero e con complici molto autorevoli all’interno. Nel 1981 il Ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, attuò il «divorzio». La Banca d’Italia (che era diventata privata all’insaputa dei più) non dovette più entrare nelle aste di vendita dei BOT a raccattare l’invenduto. Da quel momento il nostro debito è stato in balia dei «mercati», che per comprare i BOT potevano esigere interessi altissimi. Tanto più che, come spiegavano il Financial Times e l’Economist, l’Italia è un Paese economicamente debole, mal governato, inaffidabile... insomma: pagherà il suo debito? Il rischio-paese doveva essere compensato da un lucro più alto da parte dei nostri creditori. La realtà era un’altra. C’era un trucco. Cito ancora Galloni: con le aste competitive a cui Bankitalia non partecipava, «bastava che gli operatori si mettessero d’accordo per non comprare una piccola parte dell’emissione, e il giuoco era fatto». Vorrei che il trucco fosse chiaro: lo Stato doveva pagare interessi più alti non solo sulla quota invenduta dell’emissione, ma anche su tutta quella che aveva già trovato compratori. Finanziare il deficit diventava carissimo. Non lo fu subito, perché per un po’ gli italiani comprarono i BOT come avevano sempre fatto. Ricordo benissimo che il governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi (venerato maestro) fu il primo a piazzare titoli del debito pubblico alla Borsa di Londra, cento miliardi di lire mi sembra – senza alcuna necessità e utilità visto che il mercato interno li assorbiva, ma solo perché i mercati internazionali volevano partecipare alla bonanza. «Finanziati ad alto tasso d’interesse, i primi a risultare anti-economici furono proprio gli investimenti pubblici necessari e innovativi, mentre sarebbe rimasto invariato il livello delle altre spese. A causa di ciò sarebbe peggiorata la qualità della spesa pubblica, ossia il rapporto tra investimenti produttivi ed uscite correnti». Fummo messi alla mercé dei «mercati» – le grandi banche speculative, e anche quelle italiane. Si mise così in moto una dinamica «che sotto il pretesto di riconvertire le industrie per sostenere la concorrenza mondiale, d’altra parte ne impediva gli interventi strutturali, spingendo il costo del finanziamento delle imprese ben oltre quel che sarebbe stato utile per attrare capitali dall’estero». Andreatta il democristiano laicissimo, con classico darwinismo anglo-massonico alla Adam Smith, si rallegrava: gli alti tassi produrranno una selezione naturale delle imprese italiane. Pessima ideologia: le industrie che sopravvivono non sono necessariamente le migliori («sopravvivono quelle che riescono ad aggirare la costosa normativa a tutela del lavoro, dell’ambiente, della salute) – senza contare tutti i settori pubblici parassitari che dalla concorrenza sono protetti, e le cui dirigenze si sono dati stipendi mostruosi mentre l’Italia impoveriva. Perché con la separazione tra Bankitalia e il Tesoro, comincia «il percorso d’impoverimento dell’Italia e dei suoi abitanti» di cui ora subiamo gli estremi; «il Paese è stato preda di vere e proprie misure di sterilizzazione della crescita», condannando intere generazioni di giovani alla disoccupazione per subordinare il destino nazionale all’avidità dei mercati. Questi, come sapete, misero l’occhio sulle imprese IRI e simili gioielli, gli facevano gola: bisognava darle al «mercato» e metterle in Borsa. Con le privatizzazioni delle partecipazioni statali, venne azzerata «l’azione dello Stato-imprenditore, finanziatore e promotore di strategia industriali a lungo termine», essenziale in un paese dove l’imprenditoria privata è gretta, meschina e volta al profitto di brevissimo respiro, da rentiers – i capitalisti senza capitale. È dagli anni ’80 – in coincidenza col «divorzio» tra Tesoro e Bankitalia – che l’Italia perde la sua sovranità monetaria e che il debito pubblico – fino ad allora mantenuto attorno al 50-60% del Pil – comincia a crescere in modo esponenziale «a causa degli effetti cumulativi degli alti tassi d’interesse». È la verità, andate a cercare le tabelle storiche e vedrete come e da quando è cresciuto il debito. Qui ne posto una incompleta e semplificata, la prima che ho trovato. Storia debito pubblico Italiano 1965 30,02% del Pil 1980 57,59% del Pil 1981: «divorzio» fra Tesoro e Bankitalia 1983 69,93% del Pil (Governo Fanfani e poi Craxi) 1984 74,40% del Pil (Governo Craxi) 1985 80,50% del Pil (Governo Craxi) 1986 84,50% del Pil (Governo Craxi) 1987 88,60% del Pil (Governo Craxi, Fanfani, Goria) 1988 90,50% del Pil (Goria, De Mita) 1989 93,10% del Pil (Andreotti, De Mita) 1990 94,70% del Pil (Governo Andreotti) 1991 98,00% del Pil (Governo Andreotti) 1992 105,50% del Pil (Governo Andreotti e Amato) Esplode Tangentopoli 1993 115,60% del Pil (Governo Ciampi e Amato) 1994 121,50% del pil (Governo Ciampi Berlusconi) 1995 121,20% del Pil (Governo Dini) 1996 120,60% del Pil (Governo Dini Prodi) 1997 118,10% del Pil (Governo Prodi) 1998 114.90% del Pil (Governi Prodi Dalema) 1999 113,70% del Pil (Governo Dalema) 2000 109,20% del Pil (Governo Dalema Amato) 2001 108,70% del Pil (Governo Amato Berlusconi) 2002 105,55% del Pil (Governo Berlusconi) 2003 104,26% del Pil (Governo Berlusconi) 2004 103,90% del Pil (Governo Berlusconi) 2005 106,60% del pil (Governo Berlusconi) 2006 106,80% del pil (Governo Berlusconi, Prodi) Dal 2007 in poi ha iniziato a salire fino all’attuale 130%. La misura fu giustificata – dai banchieri e dai loro complici giornalistico-politici (vedi Scalfari) – anche come la punizione di una classe politica corrotta. A questa classe andavano sottratte le stampanti della lira. Benissimo, verissimo. Forse che le classi politiche successive alla perdita di sovranità sono migliori, più competenti, riflessive, capaci ed oneste? Ciascuno può giudicare da sé. Anche questo ripugnante peggioramento è una conseguenza della riforma monetaria, e dell’irresponsabilità che ha regalato ai politici e ai Governi. «Privata della possibilità di influire positivamente sulla società – scrive Galloni – con le emissioni monetarie volte ad investimenti di innovazione, la classe politica (quella scampata alla purga di Mani Pulite) si è dedicata a quello che le rimaneva: le nomine e l’occupazione delle posizioni disponibili». La classe politica, proprio perché sovrastata da altre «sovranità» globali o europee, non sente più alcuna responsabilità di esporsi all’elettorato proponendo un qualche progetto per il Paese; tutto ciò che fa è «rimanere a galla in una situazione di difesa di privilegi trascurando la funzione di servizio alla società e allo Stato che dovrebbe esser precipua della politica». Naturalmente per imporre il nuovo corso sono stati necessari atti di forza, tradimenti e soprusi impuniti. Come ho già ricordato, il governatore di Bankitalia Paolo Baffi non era troppo favorevole ad una perdita della sovranità monetaria a tappe forzate. Nel 1976 aveva chiuso i mercati valutari per tre mesi, onde contrastare un attacco speculativo di grande potenza sulla lira: ciò spiacque ai «mercati internazionali», perché li limitava nel saccheggio. Bisognava sbarazzarsi del personaggio. Nel marzo 1979 due magistrati italiani, il giudice istruttore Antonio Alibrandi e il sostituto procuratore di Roma Luciano Infelisi, incriminano Baffi e il direttore della Banca Centrale, il suo fido Mario Sarcinelli, di favoreggiamento e interesse privato in atti d’ufficio. Sarcinelli viene sbattuto in galera preventiva (un’anteprima dei metodi delle nostre procure al servizio di più alti interessi); a Baffi l’umiliazione è risparmiata solo per la sua età. Ovviamente è un’accusa inesistente. I due saranno prosciolti già prima del processo: ma nel 1981. Troppo tardi, il divorzio tra Bankitalia e Tesoro era già avvenuto. I congiurati hanno ottenuto la vittoria irreversibile. Sono Andreatta, Ciampi, De Mita, Giuliano Amato e Guido Carli, Cossiga e Prodi, democristiani vari come Goria. Draghi era ancora un ministeriale del Tesoro, ma destinato ad alti destini, per aver ben operato dietro le quinte (l’incontro a bordo del Britannia (2), lo yacht della regina, dove si vendettero le imprese pubbliche). Molto indicativa la posizione tenuta dal PCI di Berlinguer in questa tempesta: adesione totale «a tutto ciò che viene spacciato per ineludibile» dai poteri forti internazionali occidentali. Sì ai tagli alla spesa pubblica, sì alla erosione della sovranità dello Stato a favore dei grandi gruppi privati, soprattutto bancari… «sì persino all’abbandono della scala mobile ossia della difesa dei salari... mancata difesa degli interessi nazionali», accusa Galloni. Il quale, essendo allora un grand commis ministeriale, ricorda un preciso episodio: il Cespe, valido uffici-studi dell’allora PCI, inizia una ricerca sui pro e i contro della grande riforma in atto sul piano monetario. Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia, telefona a Berlinguer per bloccare il timido tentativo. E subito, Berlinguer obbedisce. «Il governatore ottiene il risultato e le future posizioni del CESPE si allontaneranno parecchio – non solo da quelle di Federico Caffé, fortemente contrario a un ‘divorzio’ praticato in modo estremo, ma anche da quelle di tanti economisti di estrazione marxista». È per questo che il PCI viene graziato, unico, da Mani Pulite. È certo che il PCI resta per decenni privo non si dice di una ideologia, ma anche di una sola idea alternativa. È alla catena di Padoa Schioppa e Mario Monti, di Letta, si propone di eseguire, al Governo, i programmi della Merkel, di Barroso, di Draghi, dei poteri forti internazionali e dell’«europeismo» che li ispira, quello della BCE: fare i compiti a casa eccetera. Bersani non ha avuto altre idee che quelle di Monti (e stiamo freschi), e si lamenta che ha perso? Almeno Renzi ha posto fine a questa finzione che il PCI sia un partito dei lavoratori. Ho rievocato questi dati perché – ora che Napolitano se ne va dal posto in cui l’hanno messo lorsignori – si aprono le candidature al Colle. E ovviamente, Draghi è il candidato da tutti desiderato. Da tutti i poteri forti, da Goldman Sachs ad Angela Merkel (3), ed ovviamente i loro serventi italioti. A questa elezione avrà una parte anche il movimento Cinque Stelle. Quello che ascolta la «Rete» – e se vi ricordate, se l’altra volta avesse vinto questa «Rete», avremmo al Quirinale Stefano Rodotà o la Gabaneli. Voglio dire: Beppe Grillo tenga a freno la sua Rete. Ricordi che è quello che ha detto cose come: «Per i Paesi dell’Eurozona è arrivato il momento di “cedere sovranità” all’Europa». Si capisca che a mettere Draghi al Colle, si accetta la totale perdita di sovranità dell’Italia, la sua definitiva resa all’euro, a Juncker, a Goldman Sachs, ai paradisi fiscali eurocratici. Lo capirà Grillo? E i grillini?
1) Nino Galloni, Chi ha tradito l’economia italiana?, Editori Riuniti 2014. 2) «Il 2 giugno 1992, a pochi giorni dall'assassinio del giudice Giovanni Falcone, (...) Il «Britannia», lo yacht della corona inglese, gettava l'ancora presso le nostre coste con a bordo alcuni nomi illustri del mondo finanziario e bancario inglese: dai rappresentanti della BZW, la ditta di brockeraggio della Barclay's, a quelli della Baring & Co. e della S.G. Warburg. Erano venuti per ricevere alcuni esponenti di maggior conto del mondo imprenditoriale e bancario italiano: rappresentanti dell'ENI, dell'AGIP, Riccardo Gallo dell'IRI, Giovanni Bazoli dell'Ambroveneto, Antonio Pedone della Crediop, esponenti della Banca Commerciale e delle Generali, ed altri della Società Autostrade. C’era anche Mario Draghi, allora funzionario del Tesoro. Si discussero i preparativi per liquidare, cedere a interessi privati multinazionali, alcuni dei patrimoni industriali e bancari più prestigiosi del nostro paese. Draghi avrebbe detto agli ospiti inglesi: "Stiamo per passare dalle parole ai fatti". Da parte loro gli inglesi hanno osservato che le dimensioni del mercato borsistico italiano sono troppo minuscole per poter assorbire le grandi somme provenienti da queste privatizzazioni. Ergo: dovete venire a Londra, dove c'è il capitale necessario. Fu poi affidato ai mass media, ed al nuovo governo Amato, il compito di trovare gli argomenti, parlare dell'urgente necessità di privatizzare per ridurre l'enorme deficit del bilancio. (Movisol, «Documentazione riepilogativa sul complotto del Britannia», 14 gennaio 1993.). «Quando Amato divenne presidente del Consiglio qualche giorno dopo l’incontro sul panfilo, con il decreto 333 dell’11 luglio trasformò in SpA le aziende di Stato IRI, ENEL, INA ed ENI e mise in liquidazione l’Egam. In quell’anno, quando Amato dovette far fronte alla speculazione contro la Lira di Soros, utilizzò 48 milioni di dollari delle riserve della Banca d’Italia, dopo avere operato un prelievo forzoso dell’8 per mille dai conti correnti degli italiani. Sempre in quell’anno mise in liquidazione l’Efim, le cui controllate passarono all’IRI e trasformò le FS in SpA. Sempre nel 1992 Draghi, Direttore del Tesoro preparò la Legge Draghi che entrerà in vigore nel 1998 con il governo Prodi e si predispose una legge per permettere la trattativa privata nella cessione dei beni pubblici qualora fosse in gioco «l’interesse nazionale»…Prodi, che dal 1990 al 1993 fu consulente della Unilever e della Goldman Sachs, quando nel maggio del 1993 ritornò a capo dell’IRI riuscì a svendere la Cirio Bertolli alla Unilever al quarto del suo prezzo e a collocare le azioni che le tre banche pubbliche, BNL (diventata della BNP Paribas), Credito italiano e Comit detenevano in Banca d’Italia, privatizzando il 95% della stessa. Indovinate chi scelse come "Advisor"?...Uomini della Goldman, nel senso che vi hanno lavorato sono, oltre a Costamagna e Prodi, Monti (catapultato alla carica di Commissario), Letta, Tononi e naturalmente Draghi. Molti nostri uomini politici se non lavorano per la Goldman, lavorano per l'FMI, come Padoa Schioppa, presidente della BEI, Banca europea per gli Investimenti (Nicoletta Forcheri, 12 settembre 2008). 3) Così se lo toglie d’attorno alla BCE dove metterà un suo tedesco, e Draghi al Quirinale farà da badante a Renzi (come ha scritto Bechis su Libero), ché non faccia scappare l’Italia dall’euro e dall’egemonia germanica. È meno fidato di Bersani...
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