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La nuova Famiglia demoCristiana
Elisabetta Frezza
10 Febbraio 2015
Ci voleva la Nuova Alleanza Cattolica per congegnare il colpo di grazia perfetto alla famiglia italiana (vedere qui e qui). Perché l’imboscata tesa col testo unico sulle convivenze non riguarda (soltanto) la famiglia fondata sul sacramento matrimoniale indissolubile (quella che Kasper, con i suoi seguaci sub- e sovra-ordinati, sta nel frattempo prodigandosi a disintegrare per via sinodale tramite il pretesto della pastoralità); riguarda la famiglia nel suo significato laico, quella rimasta gravemente ferita dall’introduzione del divorzio, ma che ancora formalmente sopravvive come «società naturale fondata sul matrimonio» ex art. 29 della Costituzione. E la Costituzione, legge suprema nella gerarchia delle fonti, informa tutte le norme ordinarie, di diritto civile e penale, che vanno lette, interpretate e applicate in conformità a quanto essa dispone.
Ci volevano proprio Introvigne e compagni per assestare con tanta capziosa maestria una carica esplosiva così potente sotto ciò che resta della famiglia.
È evidente che l’inusitata sicumera con cui procedono nella operazione tradisce la consapevolezza di avere quantomeno le spalle coperte. E infatti, di concerto con lo spirito cattoprogressista che aleggia in Vaticano e nell’episcopato di punta – quello con facoltà di parola – soffia impetuoso il vento di tramontana quirinalizio se, dopo il comunista che decretò l’uccisione per fame e per sete di una innocente indifesa, arriva ora il fiero dossettiano a promettere subito, nel suo discorso di insediamento, di voler garantire a tutti quella libertà che si esplica tramite «il pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale ed economica, nella sfera personale ed affettiva» (scatenando, manco a dirlo, l’esultanza del presidente di Equality Italia, Aurelio Mancuso).
E il cerchio si chiude.
Accompagna il tutto il coro unanime della stampa di regime, riscopertasi ammiratrice tardiva ma finalmente convinta del cristianesimo, nella versione sbiadita che esce filtrata dalla lente magica dell’amore che tutto tiene e della misericordia che tutto permette. Corroborato, quel coro, pure da qualche nuova voce in controtendenza apparente, arrivata ad adiuvandum a cantare a squarciagola sotto l’egida della Croce democristiana, sempre lei. Lo scudocrociato, risorto dalle sue ceneri, vive oggi un nuovo momento di gloria. Tra applausi ecumenici. Non per nulla il portavoce vaticano in seconda, Eugenio Scalfari, profetizza estasiato che «Mattarella farà dell’Italia quello che papa Francesco sta facendo nella Chiesa». E probabilmente ci piglia.
L’ordine impartito da “qualcuno” che sta più in alto degli Alleati va dunque nel senso di dissolvere la famiglia fondando, per la gioia di chierici e laici, la sua controfigura: è ormai all’orizzonte la “Nuova Famiglia Cristiana”.
Qualcuno ci aveva già provato in passato, in tono minore e sotto varie etichette. L’onorevole Bindi si prodigò tanto per i famosi Dico e, cicero pro domo sua, girò l’Italia in lungo e in largo per promuoverne le sorti, e fece breccia sulla chiesa aggiornata. Ma all’epoca in Vaticano sventolava ancora la bandiera dei princìpi non negoziabili poi ammainata nel fulmineo spazio di un buonasera, e i documenti magisteriali non erano oscurati dalla cortina fumogena delle parole in libertà. La Congregazione per la dottrina della Fede parlava chiaro e forte di coppie e di omosessualità, con nitore e preveggenza, con la sapienza propria di chi vede oltre perché guarda in profondità, nel cuore della legge divina immutabile in cui è scolpita l'umana natura.
In teoria, quel magistero vige tuttora, ma è travolto da quello posticcio a presa rapida come il cemento. Vige, ma i suoi custodi lo hanno silenziato nel silenzio di tutti gli altri. Adesso, il silenzio complice viene addirittura sostituito da un’operosa demolizione pubblica condotta senza vergogna. Appena coperta dalla foglia di fico di qualche slogan capace di carpire la benevolenza dell’uditorio cattolico (tipo: il matrimonio è solo tra un uomo e una donna, un bambino ha diritto di crescere con un papà e una mamma, che monsieur de Lapalisse è un dilettante), a perfezionare l’«abuso della credulità popolare».
Ma prima di vedere fino a che punto si sono spinti gli estensori cattolicissimi del cattolicissimo testo unico sulle convivenze, è bene ripetere, una volta di più, l’assunto fondamentale che non bisogna mai scordare, e cioè che tutti i tentativi di fornire una regolamentazione giuridica alle c.d. coppie di fatto hanno – oggi come ieri, in Italia come all’estero – un solo e preciso obiettivo: quello di ufficializzare le unioni omosessuali per portare a compimento il processo di normalizzazione dei rapporti contro natura, fino alla appropriazione da parte delle coppie dello stesso sesso di un grottesco quadretto “famigliare” che contempla, oltre alla torta in forno e le tendine alle finestre, oltre alla parodistica cerimonia nuziale, anche la prole fabbricata alla bisogna. E qui si appalesa senza più veli il disprezzo assoluto e oramai fuori controllo per la vita di quei bambini ridotti a mero soprammobile o, al più, a cagnolini da compagnia.
Una coppia uomo-donna perché sceglie di convivere (o di protrarre la convivenza) anziché sposarsi? Proprio perché, quali che siano i motivi contingenti, non desidera formalizzare il proprio legame di fronte ai consociati, assumersi l’impegno pubblico che il matrimonio comporta: in una libera valutazione costi-benefici, opta cioè per la rinuncia (peraltro sempre reversibile) alle prerogative e agli obblighi da esso derivanti ex lege, in cambio della libertà di un commodus discessus. È pur vero che, da quando il divorzio ha snaturato il vincolo sponsale privandolo dell’elemento coessenziale della indissolubilità, i contorni dell’istituzione matrimoniale si sono fatti sfocati, perché era la stabilità a renderla unica e irripetibile potenziandone al massimo grado la funzione etica, sociale ed educativa. La sopravvenuta precarietà legalizzata – sotto la spinta del moderno nichilismo, connesso allo sfilacciamento del tessuto morale e religioso – ha favorito l’indistinzione tra le fattispecie, sicché, nella notte in cui tutte le vacche sono nere, matrimonio e convivenza tendono quasi ad assimilarsi nell’immaginario collettivo.
Ma l’ordinamento continua pur sempre – almeno per il momento – a riconoscere la famiglia vera quale cellula base della società, costituzionalmente consacrata. E se il codice civile ne stabilisce la disciplina interna regolando i rapporti patrimoniali e successori, il codice penale offre una tutela rafforzata in ragione di quel grumo di valori fondanti che resta indissolubilmente connesso ai legami di coniugio e di sangue e ai rapporti di parentela.
Chiaro che, se passa l’idea per cui la convivenza di per sé è titolo per reclamare una regolamentazione giuridica ad hoc in virtù dell’afflato affettivo vantato da due (o più?) persone, ciò va a vantaggio esclusivo degli omosessuali (gli unici, come detto, a cui ciò può davvero importare) perché a quel punto il principio di uguaglianza imporrà che, a parità di condizioni (comunanza di vita sentimentale), si estenda ad essi il medesimo trattamento.
Si corona così la marcia trionfale del fenomeno omosessuale, che in un batter di ciglia – attraverso rivendicazioni politiche sapientemente orchestrate, anche e soprattutto sotto il profilo mediatico – da vizio privato assurge a pubblica virtù. E in questa sfolgorante carriera, giunge sino a scardinare il significato e la funzione dell’istituzione famigliare provocando uno smottamento di tutti i valori di riferimento di una intera società.
Snaturata la famiglia quale culla e palestra di vita, va da sé che all’infanzia reificata e indifesa debba essere insegnato a scuola il fascino del mondo invertito e la bellezza dell’omoerotismo. Così, visto che il sesso è diventato una variazione sul tema-genere e l’amore è sempre l’amore (dai baci Perugina fino ai documenti ecclesiali), la gente è obbligata a pensare che i sodalizi sodomitici siano non solo normali ma anche buoni e giusti, al punto da attingere – sempre attraverso l’amore – nientemeno che alla grazia cristiana (col conforto delle relazioni sinodali).
E la famiglia? La famiglia rimane un pezzo da museo conservato in una teca per qualche nostalgico un po’ fuori dal tempo e dallo spazio, una sorta di riserva indiana; in omaggio al pluralismo dei fatti e delle idee, mantiene sì diritto di cittadinanza nel meeting pot arcobaleno, ma con l’etichetta di «tradizionale» apposta a segnalarne la peculiarità. Nel frattempo, come sottoinsieme della già residuale famiglia tradizionale si sono aggiunte – abbiamo appreso – anche le conigliere.
È su questo sfondo che irrompe la proposta di legge di testo unico sulle convivenze presentata dal cartello introvigniano «Sì alla famiglia» (che si scopre evidentemente intesa in senso lato, e tanto varrebbe allora che si chiamasse direttamente «Sì alle famiglie»). Esso interviene a confezionare una veste giuridica “cattolica” a tutte queste belle novità di cui dobbiamo bene o male prendere atto, in nome di un sano pragmatismo. Inutile ostinarsi a resistere al nuovo che avanza, meglio dimostrarsi aperti e anzi stupire una volta di più i presunti avversari (Scalfarotto incluso) con una sorpresa imprevista.
Ecco quindi che, a scanso di equivoci, viene subito chiarito come la convivenza more uxorio tra persone dello stesso sesso sia da considerare ontologicamente equivalente a quella tra persone di sesso opposto, dandosi così per scontato che l’omosessualità sia una normale variante della sessualità.
A conferire rilievo giuridico alla realtà di fatto della convivenza – a renderla cioè uno status giuridico autonomo – stanno da un lato la sussistenza di un legame affettivo, dall’altro il suo carattere di stabilità. L’uno e l’altro elemento costitutivo sono oggetto di autocertificazione nel momento in cui si procede all’iscrizione nell’apposito registro, e sfuggono ad ogni possibilità di verifica oggettiva oltre che, invero, a qualsiasi logica: come si combini infatti la pretesa stabilità con la reversibilità ad nutum del rapporto, non è dato sapere. E infatti si stabilisce espressamente un curioso criterio di valutazione, che è un po’ come il cane che si morde la coda: «non è individuato il tempo minimo di coabitazione idoneo a qualificare la convivenza come “stabile”, poiché ci si affida all’accertamento che è chiamato a svolgere ciascun Comune sulla base di elementi di fatto, il cui apprezzamento non è preventivabile in modo eguale per tutti». La qual capriola non richiede commento, perché anch’essa si autocertifica.
La portata eversiva del testo, tuttavia, si coglie soprattutto laddove si pretende di far passare quatta quatta la manomissione delle norme del codice penale che definiscono i contorni della famiglia ai sensi della legge penale (capo 6, artt. da 21 a 26). Perché, al di là degli interessi contingenti che sono oggetto della disciplina civilistica, qui si incide direttamente sui valori portanti che compongono il tessuto etico-morale della società, i quali – proprio in virtù della loro oggettiva rilevanza ai fini della sua conservazione – vengono ritenuti meritevoli di una tutela rafforzata ed elevati al rango di beni giuridici penalmente protetti. Le norme di diritto penale affondano nella morale collettiva di un popolo e ognuna di esse va letta e interpretata alla luce del bene giuridico che vi è sotteso oltre che nella logica interna del sistema, di reciproca interdipendenza.
Ora, le disposizioni penali che investono in qualche modo la famiglia la presuppongono intesa come nucleo stretto insieme dal vincolo di coniugio e di parentela, ossia fondato sul legame di sangue o su quello che verosimilmente tale legame origina (il coniugio, appunto). Questi legami, proprio in quanto affondano nella generazione e nella carne, giustificano trattamenti particolari relativamente a condizioni di non punibilità, circostanze aggravanti o attenuanti e via dicendo. Sono loro infatti che, infungibilmente, qualificano il gruppo famigliare e ne fondano l’identità. Indicativo il fatto che nella nozione – tassativa – di «prossimi congiunti» agli effetti della legge penale vigente, secondo l’art. 307 comma 4 c.p., si comprendano gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti; mentre non si comprendano gli affini allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole, e nemmeno, significativamente, l’adottante e l’adottato; quando invece rientra evidentemente nella categoria, ad esempio, il fratello o il nipote che risiedano stabilmente dall’altra parte del pianeta.
Pretendere di parificare surrettiziamente i conviventi quali che siano ai prossimi congiunti ai sensi della legge penale – e quindi dare rilievo giuspenalistico a dati fluidi e inconsistenti quali la stabilità della frequentazione e il rapporto sentimentale – significa sovvertire la ratio che sorregge l’intero complesso normativo e, con esso, i suoi valori di riferimento. Si tratta di una negazione radicale del senso profondo dei rapporti famigliari, della mortificazione del valore intrinseco e atavico della famiglia naturale. Il che si può toccare emblematicamente con mano nell’attribuzione al convivente anziché ai parenti di sangue di decisioni estreme, come ad esempio quella relativa all’espianto degli organi.
Chiaro che una fuga in avanti di tale portata è foriera di effetti tali da entrare in rotta di collisione con lo stesso dettato costituzionale, il cui orizzonte resta (per il momento) la famiglia monogamica fondata sul matrimonio. A meno che non si preveda che anche l’articolo 29 della Carta sia in predicato di essere rottamato perché ormai un tantino ingombrante, come in effetti il discorso di insediamento del nuovo Capo dello Stato – fino a ieri giudice in carica di quella Corte Costituzionale sempre a pronto servizio dello Zeitgeist, cioè del famoso diritto vivente – lascia ragionevolmente ipotizzare.
Intanto, in Vaticano, Bergoglio riceve in udienza il transessuale con la fidanzata. Dove – come osserva giustamente Antonio Socci – «l’aspetto più importante è la presenza della fidanzata, cioè l’udienza alla coppia, che suona come sdoganamento oggettivo delle «nuove unioni»».
E si ritorna al punto di partenza. La convergenza armonica e sincrona di tutte le voci del coro verso un’unica direzione: la demolizione dell’identità della famiglia. Anzi, la demolizione dell’identità tout court: sessuale, religiosa, culturale.
C’è qualcuno o qualcosa che ha determinato un cambio di passo tanto univoco, se un Introvigne che fino a poco tempo fa si sgolava per ribadire che c’è un unico modello plausibile di famiglia, e polemizzava con Renzi in questi termini: «a chi ci racconta che la civil partnership è un’alternativa al “matrimonio” omosessuale che salva insieme la capra delle esigenze politiche del PD e i cavoli del disagio cattolico contro le unioni gay, rispondiamo che “’cca nisciuno è fesso”»; se questa medesima persona – si diceva – ora si dissocia talmente da se stessa da partorire e propagandare un’iniziativa dirompente che contraddice completamente le sue posizioni pregresse, si è evidentemente frapposto un evento capace di invertire la rotta.
Forse è l’autore stesso a fornirci l’interpretazione autentica della propria metamorfosi quando, nella relazione introduttiva del convegno milanese in cui è tracciata la sua base ideale, tiene a dire con fiera certezza di identificarsi «con la famosa battuta di Papa Francesco “chi sono io per giudicare le persone omosessuali?”» e prosegue con un’appendice originale indubbiamente illuminante:
«Come cattolico so che le persone non vanno mai giudicate in quanto persone».
In effetti, quella risposta papale data ad alta quota in forma di domanda epperò evasiva della domanda originaria proveniente dalla giornalista Ilze Scamparini (la quale – lo si ricordi – si era riferita specificamente a monsignor Ricca ed alla «sua intimità», e chiedeva come si intendesse affrontare la delicata questione che lo riguarda, ha offerto un vero e proprio manifesto di relativismo mascherato da dottrina cristiana, nell’evidente intento di sottrarre il fenomeno omosessuale dalla sfera del peccato (ciò che ha consentito, infatti, a monsignor Ricca di mantenere ben saldo il suo posto nella amministrazione vaticana, nonostante tutto).
Di più: di abolire una volta per tutte, insieme al giudizio, il criterio per giudicare, e quindi la stessa distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male.
Molto ci sarebbe da dire su quella frase rivelatasi epocale e sul suo significato, che investe vari piani speculativi scuotendoli tutti dalle fondamenta. Basti qui constatare come il nuovo comandamento aereo abbia folgorato atei e credenti e abbia finito per issare gli uni e gli altri in sella al medesimo cavallo di battaglia lanciato ora a tutta velocità contro la famiglia, ossia contro uno degli ultimissimi baluardi, fatto di carne ed ossa, anima e sangue, rimasto a resistere alla dittatura evanescente ed inafferrabile di un’ideologia tanto suggestiva e penetrante quanto terribilmente disumana.
Elisabetta Frezza
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