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Santa Francesca Saverio Cabrini celeste patrona dei migranti
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Il problema migratorio è davvero tale, oppure è un’invenzione della politica? E’ usato dai più per allarmare la popolazione italiana? Mi sorge, altresì, un altro quesito: ma quando si parla di fenomeno migratorio (perché di fenomeno si parla; vieppiù di un fenomeno che trova ampi esempi nella storia) lo si fa con cognizione di causa? E perché non si parla mai del problema che porta con sè? Ossia quello religioso? E perché non parliamo mai della Patrona dei migranti? E chi è?

Beh è presto detto: la Patrona dei migranti è Santa Francesca Saverio Cabrini. E in questa mia riflessione voglio parlare di lei. Di questa piccola (di statura) grande (in amore e carità) donna. Una grande donna che ha saputo donare tutta se stessa a Dio per fare del bene ai bisognosi. E nell’epoca in cui ella ha vissuto il bisognoso, anzitutto, era il migrante italiano in terra d’America.

I migranti italiani e madre Cabrini


In Italia, siamo abituati, ormai da alcuni decenni, a essere un Paese d’immigrazione. Le nostre coste – ma anche i nostri confini terrestri – sono state prese d’assalto dalle carrette del mare: sicché l’Italia, oggi ha una percentuale d’immigrazione stabile e regolare pari a quasi il 7% dell’intera popolazione, che supera di gran lunga i sessanta milioni di abitanti. Ma nelle epoche storiche precedenti, prima che l’Italia vivesse la sua rivoluzione industriale, la Penisola è stata terra d’emigrazione. E i nostri connazionali hanno invaso il mondo intero. E non sempre erano trattati come esseri umani.

Ad esempio, in una biografia di Madre Cabrini si leggono testualmente queste parole: «In quellOttocento americano, madri e nonne, volendo intimorire il proprio frugolino troppo irrequieto, invece di nominare lorco, gridavano: ‘Ecco un italiano! E subito il bimbo correva a cercare riparo nel loro grembo».

Sembra un’annotazione di colore, ma sono tra le righe più tristi che siano state scritte sulle tragiche vicende dei nostri emigrati, tra la fine del secolo scorso e i primi decenni di questo secolo. E’ l’epoca in cui i bar delle città americane esponevano cartelli per avvertire che l’ingresso era vietato a negri e a italiani, giacché questi ultimi erano considerati come negri bianchi.

Tra il 1876 e il 1914 (alle soglie della Prima Guerra Mondiale) emigrarono circa quattordici milioni d’italiani, dicono le nostre statistiche. E l’intera popolazione italiana non superava allora i trenta milioni. Nei testi di storia si parla delle grandi migrazioni dei popoli e dei tempi in cui intere popolazioni erano ridotte in schiavitù, ma si sorvola sul fatto che in tutto simile fu allora la storia dei nostri emigrati. Italo Balbo ha scritto che tutti quei nostri connazionali – inghiottiti nelle miniere di carbone, nelle imprese di sterramento per le strade ferrate, nei pozzi di petrolio, nelle officine dell’industria siderurgica, nei capannoni dell’industria tessile, nei cantieri per la costruzione dei porti, nelle piantagioni di cotone e di tabacco – erano «lItalia di nessuno, un popolo anonimo di schiavi bianchi, materiale umano mercanteggiato a migliaia di capi». Si calcola che nelle miniere il numero degli italiani superasse, a un certo punto, quello di tutti gli altri immigrati messi assieme. Giungevano a centinaia di migliaia l’anno, insidiati già alla partenza e all’arrivo da loschi procacciatori che ne sfruttavano l’ignoranza e il bisogno, privi di ogni protezione, disponibili a tutto; e diventavano letteralmente il materiale umano su cui – come su detriti necessari, ma senza valore – si costruiva la potenza economica americana.

Vivevano in condizioni d’incredibile degrado, affollati in alveari umani (fino a ottocento persone stipate in un piccolo edificio di cinque piani), in condizioni di abbrutimento fisico e spesso anche morale. Con il loro genere di vita sembravano accreditare l’idea dell’italiano come di un semi-selvaggio, pronto alla rissa e alla violenza. Vivevano senza scuole, senza ospedali, senza chiese, chiusi nelle loro piccole Italie: quartieri che proliferavano ai margini delle grandi città. E quasi sempre non erano nemmeno uniti perché i vari campanilismi frazionavano e mettevano rissosamente i vari gruppi regionali gli uni contro gli altri. I ragazzi crescevano sulle e nelle strade. Un destino di strilloni o lustrascarpe attendeva i bambini (quando non diventavano procacciatori e guide di clienti ai vari bordelli) e spesso un destino ancora più equivoco attendeva le ragazzine. Quand’anche qualcuno li avesse voluti aiutare, l’impossibile comunicazione (quasi tutti erano analfabeti e si esprimevano solo in stretto dialetto) rendeva vano ogni tentativo di solidarietà.

Quelli che riuscivano a far fortuna (e molti cominciarono con negozi di frutta e verdura o organizzandosi in cosche malavitose) si guardavano bene dal mescolarsi con i propri disprezzati connazionali, cercando piuttosto di far dimenticare la comune origine.

Un giorno del 1879 un deputato osò leggere al parlamento italiano la lettera di un colono veneto: «Siamo qui come bestie: viviamo e moriamo senza preti, senza maestri, senza medici». I politici italiani chiudevano però gli occhi. Affrontavano il problema dell’emigrazione dal punto di vista dell’ordine pubblico, con qualche provvedimento di Polizia, ma senza nessuna intelligenza volta a immaginare forme di tutela economica e sociale.

Alcuni anni dopo – quando Madre Cabrini avrà fatto da sola, per amore di Cristo, quello che l’intero governo non aveva mai saputo fare – i politici, guardando indietro ai loro pseudo-provvedimenti legislativi, confesseranno: «Abbiamo sbagliato tutto». Nemmeno la Chiesa cattolica d’America poteva fare qualcosa. Allora in tutta New York non vi erano più di venti preti che capissero un po’ d’italiano. E, ad aggravare le cose, i nostri emigrati trovarono un costume, a essi estraneo, che legava la frequenza alla chiesa con l’obbligo, già all’entrata, di contribuire economicamente al sostegno delle attività parrocchiali. Erano già poveri e un simile costume sembrava loro ingiusto (chiamavano quell’elemosina: la dogana). Per non dire poi che le sole organizzazioni italiane attive sul posto erano i circoli Giordano Bruno, che avevano come unica preoccupazione quella di diffondere e mantenere un acceso anticlericalismo. Così finivano per non andare più in chiesa e per perdere anche gli ultimi brandelli di dignità spirituale e morale.

In Italia il problema era avvertito dal Papa Leone XIII (che affrontava il problema anche nella celebre enciclica Rerum Novarum) e dal vescovo di Piacenza, il beato Scalabrini, che aveva fondato una congregazione per la cura dei migranti. Suor Francesca Cabrini era una lodigiana che aveva desiderato fin da bambina la vita missionaria, sognando ad occhi aperti quando in casa il papà leggeva ai figli, nelle lunghe sere, gli Annali della Propagazione della Fede. La piccola sognava allora la Cina misteriosa. Aveva perfino cominciato a non mangiare più dolci, quando s’era convinta che in Cina non ce ne fossero, e doveva dunque prepararsi. Era divenuta, dopo numerose traversie, fondatrice di una piccola congregazione religiosa con finalità missionarie, un progetto allora strano per un istituto femminile, e si sentiva pronta per dare inizio al suo antico sogno di fanciulla.

Incontrò il vescovo Scalabrini di Piacenza, che cercò di farle cambiare idea descrivendole la condizione miseranda degli emigrati in America. Confusa, Francesca decise di rimettere la decisione al Papa Leone XIII, che l’ascoltò a lungo, poi le disse con decisione: «Non in Oriente, Cabrini, ma in Occidente!». Fu per lei la parola stessa di Dio che le indicava la Sua volontà. Aveva 39 anni, era malata ai polmoni e i medici le avevano pronosticato non più di due anni di vita. Partì con sette compagne; sulla nave, su cui compì il primo viaggio, c’erano in terza classe 900 emigranti.

La vita di madre Cabrini


Il calendario liturgico ricorda madre Cabrini il 22 dicembre. La data in cui morì una donna che negli Stati Uniti sarebbe diventata la più pia delle migranti italiane, costantemente dedita all’apostolato tra i più umili lavoratori sbarcati sul molo di New York.

Francesca Cabrini nacque a Sant’Angelo Lodigiano il 15 luglio del 1850, decima figlia (su undici) di Agostino Cabrini e Stella Oldini, in una famiglia segnata dalla grande devozione cristiana. Di origini umili (nonostante il cugino di Agostino fosse Agostino Depretis, futuro presidente del Consiglio dell’Italia unita), Francesca superò insieme alla famiglia molti lutti e privazioni ed ebbe nella sorella Rosa la prima educatrice e maestra. Per Francesca la sorella Rosa rappresentò un vero e proprio modello educativo tanto da incoraggiarla a intraprendere gli stessi studi. La lettura serale degli Annali della Propagazione della Fede l’appassionò alla storia dei missionari che pian piano iniziò a fare breccia nei suoi progetti.

Diplomatasi maestra elementare nel 1868 tornò a Sant’Angelo dove compì la sua prima esperienza di insegnamento elementare a Castiraga Vidardo, dove ebbe modo di farsi amare e dove conobbe don Antonio Serrati, il futuro prevosto di Codogno, che avrebbe dato una svolta alla vita di Francesca. Tra il 1870 e il 1872 la ragazza conobbe gli anni più difficili della sua gioventù. La morte quasi contemporanea del padre Agostino e della madre Stella e una terribile epidemia di vaiolo (che colpì anche lei) segnarono profondamente i progetti di Francesca. Ripresasi senza tangibili segni dal vaiolo, Francesca decise di consacrare la sua vita all’apostolato e trasferitasi a Codogno visse i suoi anni di avvicinamento alla vita religiosa.

Dopo un turbolento periodo legato alla nascita di un’istituzione collegiale, Francesca fondò insieme a sette consorelle l’istituto delle Missionarie del Sacro Cuore: la religiosa aveva solo trent’anni ma una volontà da trasformare in realtà: ossia il sogno di vivere l’apostolato missionario in Cina. Papa Leone XIII, però, decise per lei la sede di New York e nella metropoli americana incontrò l’arcivescovo Michael Corrigan che le permise di aprire un orfanatrofio per bambini emigranti italiani in West Park (quell’orfanatrofio oggi è conosciuto come Casa di Santa Cabrini). Dopo pochi mesi, nel 1890 madre Cabrini fondò a due ore di auto da New York un noviziato trasferendovi anche l’orfanatrofio.

Nel 1891 madre Francesca arrivò in Nicaragua, invitata da Elena Arellaro, nobile e pia signora, e accettò la donazione di una sua casa per fondarvi un collegio religioso. In quello stesso anno Francesca intraprese un viaggio via terra verso gli Stati Uniti, e incontrò numerosi indigeni. A New Orleans però visse da vicino una della pagine più cupe dell’emigrazione italiana: il linciaggio di 11 connazionali. Il dolore e lo sdegno furono sostituiti presto dalla forza di volontà e nel giro di pochi mesi la religiosa aprì un’altra casa apostolica per accogliervi gli emigranti italiani e i neri che vivevano in condizioni disumane.

Fondatrice del Columbus Hospital (aperto il 17 ottobre 1892) di New York, si spostò a Panama e a Buenos Aires per aprire nuovi istituti. Barcellona, Parigi, Londra, Chicago, Scranton (Pennsylvania) Newark (New Jersey) Madrid, Bilbao, Rosario (Argentina), Liverpool vedranno negli anni la presenza di Madre Francesca Cabrini e la nascita di scuole e istituti mentre nel 1902 fu invitata dal Vescovo di Denver a fondare in quella città del Colorado una missione fra i nostri emigrati.

Fu accolta come una benedizione dal vescovo, monsignor Matz e dalla colonia italiana e la scuola aperta presso la parrocchia di Palmer Avenue, fu subito invasa da un numero sempre crescente di bimbi. L’esperienza in Colorado rappresentò un’altra tappa fondamentale della vita di Santa Francesca Cabrini. Sono questi gli anni in cui la missionaria iniziò l’apostolato tra i minatori, scendendo nei pozzi e portando la sua parola di conforto a uomini che vivevano in continuo pericolo di rimanere sepolti in quelle tombe in cui lavoravano.

Dopo aver aperto altri orfanotrofi e ospedali a New York e a Chicago, la missionaria italiana si spostò a Seattle, sulle rive del Pacifico per fondare un nuovo orfanatrofio e poi spostarsi nuovamente a Rio de Janeiro, nel 1909. Qui combatté la sua seconda battaglia contro il vaiolo, salvando molte alunne e suore dal terribile contagio.

Minata nella salute, suor Francesca tornò per l’ultima volta in Europa nel 1912 e viaggiando come cittadina americana (ricevette infatti la cittadinanza americana nel 1909). Ultima tappa del suo pellegrinare apostolico fu il Columbus Hospital di Chicago dove morì il 22 dicembre 1917, a 67 anni di età. Soltanto il giorno prima stava confezionando i dolci per i bambini della scuola: il suo ultimo atto d’amore. Lasciava in eredità 67 fondazioni tra l’Europa e l’America e circa 1.300 suore missionarie. Nel 1926 sei suore cabriniane raggiunsero la lontana Cina e nel 1927 fondarono la prima missione proprio per realizzare il sogno di madre Cabrini.

Tumulata in West Park-New York il suo corpo fu riesumato nel 1931 e custodito in una cassa di vetro nell’altare del Saint Francesca Cabrini Reliquario, di Fort Washington, a nord di Manhattan. La strada che conduce al reliquario fu ribattezzata in suo onore, Cabrini Boulevard, testimone delle lunghe processioni giornaliere di fedeli che si recano a pregare la Santa degli italiani.

Madre Cabrini fu beatificata il 13 novembre 1938 da papa Pio XI e canonizzata da Papa Pio XII il 7 luglio 1946; nel 1950 lo stesso Pontefice la proclamò «Celeste patrona di tutti gli emigranti».







La spiritualità semplice di Santa Cabrini


Madre Cabrini non la ricordiamo per le sue opere teologiche o per grandi rivelazioni e miracoli. Niente di tutto questo. La ricordiamo per la sua santità semplice, umile, fatta non di tante ore di preghiera, ma per tutte le ore delle giornate, di tutta la sua vita, passate a lavorare, sudare, faticare per Dio, per la sua gloria, per farlo conoscere ed amare. Una santità fatta non di rapimenti o di rivelazioni mistiche, ma di grande impegno sociale per Dio. Consumò la vita lavorando per lo stesso Dio: con gioia e umiltà.

Un giorno, infatti, fermò una suora che era sul punto di imbarcarsi per andare nelle missioni, solo perché salutando parenti e amici, aveva affermato che faceva volentieri il sacrificio. Sembrava che per lei si trattasse di una rinuncia da fare, che le mancasse la gioia di partire e lavorare per Dio. Madre Cabrini la fermò dicendole: «Iddio non vuole importi sacrifici così gravi». Il Papa Pio XI esaltava il suo nome come un «poema di attività, un poema di intelligenza, un poema soprattutto di carità». E prima ancora era stato lo stesso Leone XIII che già nel 1898, affermava di lei: «E una santa vera, ma così vicina a noi che diventa la testimone della santità possibile a tutti».

Una santità accostevole imitabile da tutti, perché consiste nel fare bene e per amore di Dio quelli che sono i nostri doveri. Questo richiama la famosa frase e programma di santità consigliato da don Bosco a Domenico Savio, smanioso di farsi santo a forza di penitenze: bastava l’esatto adempimento dei propri doveri quotidiani.

La santità e «la spiritualità intensa di madre Cabrini si realizzò soprattutto nelle opere, nella sua continua attività finalizzata ad opporre del bene al male. La preghiera stava nei fatti, non nelle parole. La sua vita è segnata da una perpetua attività» (L. Scaraffia).

Fatta tutta per Dio e per correre dietro al Cristo. Diceva: «Con la tua grazia, amatissimo Gesù, io correrò dietro a Te sino alla fine della corsa, e ciò per sempre, per sempre. Aiutami o Gesù, perché voglio fare ciò ardentemente, velocemente». Lavorare per Dio nella gioia (anche quando si pensa di avere diritto a tutt’altro). Non amava lamentarsi nelle difficoltà e raccomandava alle sue figlie non solo tanto lavoro ma anche il coraggio.

La Stazione Centrale di Milano intitolata alla Cabrini


Con grande gioia la Stazione Centrale di Milano porterà il nome di Santa Francesca Saverio Cabrini. Dal prossimo 13 novembre, giorno dell’anniversario della beatificazione e memoria liturgica della Santa, sarà il giorno in cui ufficialmente sarà intitolata, con una cerimonia solenne, lo scalo principale della capitale economica d’Italia alla grande Santa dei migranti. La decisione era nell’aria, ma ha trovato l’opinione pubblica e i fedeli impreparati all’annuncio, vista la celerità dell’iter che ha portato il sindaco di Milano, Letizia Moratti, a prendere la decisione. Infatti, in molti speravano di veder tornare il nome della Santa in pole position per l’intitolazione dell’aeroporto di Milano Malpensa. Ipotesi a cui le istituzioni locali lavoravano da tempo. Però il nome della Cabrini è stato accantonato per far posto a Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio.

L’intitolazione del principale scalo della città meneghina e primo in tutto il nord è davvero motivo di orgoglio per i santangiolini e per i lodigiani in primis. Ma non dobbiamo scordarci che non è da tutti i giorni trovare un sindaco di una metropoli internazionale come Milano disposto ad intitolare una stazione ad una santa e per di più donna. E che donna… Da oggi in poi, chiunque arriverà a Milano in treno, arriverà alla Stazione Santa Francesca Saverio Cabrini.

Emanuele Maestri




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