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La Guerra di Elena
Enrico ed Eloisa Accenti
15 Novembre 2010
Dopo le ultime elezioni americane lo sguardo degli osservatori si è concentrato principalmente sulla Casa Bianca e sul Congresso. Ricapitolando quello che è successo, gli elettori hanno sancito la pesante riduzione della maggioranza democratica al Senato (51 democratici, 2 indipendenti e 47 repubblicani), la conquista repubblicana della Camera e diversi cambiamenti tra i governatori (18 democratici, 29 repubblicani, 1 indipendente). Qualsiasi sia il significato di questi risultati – i commentatori si stanno sbizzarrendo – è chiaro che i prossimi due anni vedranno diverse interessanti battaglie politiche che raggiungeranno il culmine con le elezioni del 2012. La macchina elettorale, tra un Tea Party e l’altro, è già ripartita. Sarà quindi opportuno valutare il comportamento dell’unico dei tre rami governativi americani che non richiede il parere dell’elettorato: la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America.
Pochi mesi fa Elena Kagan si è aggiunta agli altri otto membri a vita della Corte Suprema statunitense. Già stipendiata da Goldman Sach’s, il suo ingresso nell’Olimpo della giustizia americana è stato facilitato dalla sua capacità di piegare gli eventi in favore di dubbie ideologie. La sua storia ne parla a sufficienza fornendoci anche indizi sul perchè è tanto amata da certi poteri.
In una giornata del maggio 1997 le nuvole fecero da testimoni ad una delle sessioni parlamentari più significative della storia americana. I lavori finali su un disegno di legge, conosciuto come HR 1122, cominciarono come di consueto di prima mattina. Sia a Capitol Hill che alla Casa Bianca si era consci che il destino politico di molte persone a Washington DC sarebbe cambiato irrimediabilmente. Con esso, anche il destino di molte donne e bambini. Diversi mesi erano passati dall’introduzione del disegno di legge che avrebbe proibito, senza mezzi termini, l’aborto a nascita parziale - ovvero la possibilità di abortire fino a 1 minuto del parto attraverso l’aspirazione del cervello del bambino. Poche parole, meno di mille, avrebbero potuto non solo salvare diverse vite ma mandare un segnale sociale e politico piuttosto virulento. La democrazia avrebbe potuto dare il meglio di sè, dimostrarando una certa capacità di auto-aggiustarsi.
Il senatore democratico del Sud Dakota Tom Daschle era sicuramente tra quelli che capirono l’importanza del voto in questione. Con lui vi erano anche il senatore ed ex candidato alle primarie presidenziali Ted Kennedy, nonchè il famigerato Joe Lieberman del Connecticut. In un Senato ostile in quanto in mano ai repubblicani sarebbe stato molto difficile far uscire a testa alta le volontà espresse dall’amministrazione Clinton su una questione così scottante. Troppo era in ballo. Daschle decise quindi di introdurre un semplice emendamento che avrebbe fortemente limitato, ma non proibito come originariamente scritto nel disegno legge, l’aborto a nascita parziale. Quella che si potrebbe definire una larga intesa era in realtà mirata a far cambiare il significato della legge in modo da salvare la faccia di Clinton. Il compromesso, in realtà inaccettabile per due cattolici come Daschle e Kennedy, avrebbe concesso l’aborto a nascita parziale solo in caso di pericolo per la salute della madre (si badi bene, si parla genericamente di salute e non di vita). In sostanza il senatore cercò di salvare capra e cavoli.
Nelle stanze del Domestic Policy Office, l’ufficio creato da Bush senior ed adibito allo studio nonchè alla supervisione della politica interna vi si trovava l’allora semi-sconosciuta Elena Kagan con il ruolo assegnatole di suggeritrice sulle questioni legali per l’Amministrazione. Nei giorni del dibattito sull’HR1122 venne incaricata proprio lei, insieme al suo capo Bruce Reed, di fornire suggerimenti per il comportamento dell’esecutivo. Bruce Reed, su cui occorre aprire una parentesi, è al momento a capo del Democratic Leadership Council (DLC), un think tank di matrice democratica e dedicato alla ricerca di nuove prospettive politiche. E’ importante sapere che il DLC, malgrado certe posizioni centriste, è assolutamente contrario a proibire l’aborto in qualsiasi momento della gravidanza. Nel 2006 Reed scrisse un libro con l’ex capo dello staff della Casa Bianca di Obama, il potentissimo Rahm Emanuel, intitolato The Plan, in cui traspare un certo collettivismo che forse può ricordare ai più cinici gli scenari descritti da Ayn Rand. Può The Plan essere considerato una versione leggera del New American Century? Seppur meno potente è molto probabile che vi sia un’influenza diretta sui piani dell’amministrazione Obama.
Come detto in precedenza, Kagan si occupò di suggerire a Bill Clinton quale comportamento tenere verso l’Emendamento Daschle. In una nota alquanto controversa e rilasciata alla stampa Kagan arriva non solo a suggerire al presidente di supportare l’emendamento (non per questioni morali ma per credibilità politica), ma addirittura di non curarsi dell’incostituzionalità rilevata dal suo stesso ufficio legale facente capo al Dipartimento della Giustizia. Può sembrare ironico che una persona nominata ad essere Giudice della Corte Suprema sostenga che per ragioni puramente politiche si possa soprassedere sulla Costituzione e sulle previe sentenze della Corte Suprema. Invece, è proprio questa la specialità di Elena Kagan: cambiare meticolositamente la realtà.
Così, Kagan si accorse che per avere successo sarebbe stato necessario avere il supporto di un’autorità considerata imparaziale. Il futuro giudice della Corte Suprema decise quindi di sentire il parere dell’ACOG, l’American College of Obstetricians and Gynecologists. Si può solo immaginare l’espressione sulla sua faccia quando lesse la bozza del testo che l’ACOG avrebbe pubblicato da lì a breve.
L’informazione è contenuta in un memorandum della stessa Kagan: «In the vast majority of cases, selection of the partial birth procedure is not necessary to avert serious adverse consequences to a woman’s health», ovvero, «Nella vasta maggioranza dei casi, la scelta della procedura di nascita parziale non è necessaria per evitare serie conseguenze avverse alla salute di una donna». Un colpo mortale per la legislazione tanto desiderata dalla Casa Bianca. Non sapendo cosa fare decise di scrivere una lettera a membri dell’esecutivo per sottolineare che se il parere dell’ACOG fosse risultato pubblico «Questo, ovviamente, avrebbe potrebbe essere un disastro - non di meno perchè (di fatto, ancor di più) l’ACOG continua ad opporsi alla legislazione» («This, of course, would be disaster – not the less so (in fact, the more so) because ACOG continues to oppose the legislation»).
Già ad una prima analisi risulta evidente che per Elena Kagan il parere scientifico da lei stessa richesto di un’associazione è qualcosa che si può definire persino un disastro se visto per fini politici. E’ chiaro che non importa quale sia il giudizio di chi è chiamato a darlo: se non corrisponde al suo fine allora qualsiasi considerazione legale, morale e scientifica passa in secondo piano. Con ogni probabilità i capi di Elena Kagan, forse lo stesso Bruce Reed, diedero a lei il compito di risolvere il problema che ella stessa aveva creato una volta richiesto il parere dell’ACOG. Dopo un periodo di lavoro Kagan dimostrò di essere un avvocato di grido con capacità retoriche non indifferenti. In un colpo solo riuscì a condizionare il parere dell’ACOG e a dare la spinta finale per la legislazione che sarebbe stata proposta al Congresso.
La chiave? Ovviamente, il linguaggio. Kagan creò un documento interno alla Casa Bianca che venne poi faxato al direttore del dipartimento legale dell’ACOG. Questo documento conteneva quella che poi sarebbe diventata, per ragioni oscure, la dichiarazione ufficiale pubblica dell’ACOG: «Una D&X intatta, può essere la procedura migliore e più appropriata in una particolare circostanza per salvare la vita o preservare la salute di una donna» («An intact D&X, however, may be the best or most appropriate procedure in a particular circumstance to save the life or preserve the health of a woman»). Questa, signori, è arte. Con il cambio di sole poche righe Elena Kagan riuscì ad incastrare il Congresso. Come avrebbero potuto i moderati andare contro il parere scientifico? Tuttavia, la strategia non funzionò.
Il 15 maggio 1997 il Senato votò contro l’emendamento Daschle che, ripetiamolo, avrebbe creato eccezioni per il divieto dell’aborto fino al parto e votò in favore del divieto in maniera definitiva il 20 maggio. Dopo diversi mesi, precisamente l’8 ottobre 1997, il colpo di grazia arrivò dalla Camera che approvò in maniera definitiva il disegno legge con ben 296 favorevoli, 132 contrari e 6 astenuti. Ricapitolando, 8 ottobre 1997 l’aborto a nascita parziale, in ogni sua forma, venne proibito dal Congresso.
Il 10 ottobre, invece, Bill Clinton non ci pensò due volte: veto. In un messaggio inviato al Congresso il presidente si giustificò incolpando il Congresso stesso: «Ho chiesto ripetutamente al Congresso, per circa 2 anni, di inviarmi una legislazione che include un’eccezione limitata per il numero basso di casi in cui questa procedura è necessaria per evitare serie conseguenze sulla salute»(1). In altre parole, il fatto che migliaia di bambini moriranno nel grembo pochi giorni prima della nascita anche se non ci sono problemi per la salute della madre sarebbe colpa della mancanza di una clausola di eccezionalità per certi casi reputati numero piccolo sia da Clinton stesso che dall’ACOG. C’è da domandarsi cosa sarebbe successo se il presidente avesse sostenuto lo stesso ragionamento e avesse messo il veto ad una legge che proibisca di scarcerare i pedofili perchè non contiene delle eccezioni dall’effetto ritenuto molto limitato.
Se si può dire che il voto del Congresso non costituì un vero e proprio successo per Elena Kagan e Clinton, si può osservare come l’adeguato lavoro dietro le quinte sia stato necessario per giustificare il veto presidenziale grazie soprattutto alla modifica del parere scientifico dell’ACOG.
Finito il lavoro alla Casa Bianca, Elena Kagan non si sarebbe certamente fermata. Divenne quindi preside della facoltà di Giurisprudenza ad Harvard. In quella sede, portò avanti la sua guerra. Contrariamente a quello che è stato detto durante la fase di approvazione al Congresso, e su cui si è concentrata l’attenzione, l’azione più chiarificatrice sulla persona non fu la sua opposizione all’avere gli arruolatori militari per la politica governativa chiamata Don’t ask don’t tell (che proibisce agli omosessuali dichiarati di servire in un corpo militare) ma un documento intitolato Presidential Administration e pubblicato sull’Harvard Law Review (2) e contenente opinioni a dir poco particolari per un membro della Corte Suprema. In questo documento, come suggerisce il titolo, l’autrice traccia una storia legalistica dell’Amministrazione presidenziale alla luce della sua esperienza alla Casa Bianca. A costo di tediare un po’ il lettore è opportuno trascrivere ed analizzare alcuni dei passaggi più importanti. Per sua stessa ammissione «Le rivendicazioni del presidente Clinton sull’autorità direttiva dell’Amministazione, superiore all’affermazione del presidente Regan su un autorità generale di supervisione, crea serie questioni constituzionali» (3).
In parole più semplici, mentre Reagan pretendeva un semplice ruolo di supervisione, Clinton voleva di fatto dirigere l’Amministrazione e di conseguenza pilotare direttamente i vari dipartimenti. La questione è quindi capire fino a che punto il presidente degli Stati Uniti ha potere sui dipartimenti a lui delegati. La tesi sostenuta da Kagan è ovviamente corrispondente alla politica clintoniana, ovvero che «nel nostro clima politico e regolatorio, preoccupazioni riguardo le responsabilità e l’efficacia dell’azione governativa supportano un ruolo forte per il presidente nell’impostazione della direzione amministrativa» (4). Kagan quindi conferma che Clinton estese il suo potere (5) fino al punto di bypassare le stesse designazioni del Congresso, interferendo direttamente sull’operato dei capi dei dipartimenti e delle agenzie. Il testo poi discute diversi aspetti legali sottolineando come la Corte Suprema in realtà non abbia mai preso decisioni reali riguardo i limiti presidenziali sulle persone nominate dal Congresso alla direzione delle varie cellule componenti l’Amministrazione.
Kagan poi si dilunga nel descrivere le ragioni per cui l’Amministrazione presidenziale sarebbe superiore rispetto ad una maggiore divisioni dei poteri. Primo di tutti è la cosiddetta trasparenza (6) che è, tra gli altri, uno dei temi utilizzati da Obama nel 2008 per essere eletto. Secondo Kagan vi sarebbe poi una maggiore responsabilità per il presidente, il quale diventerebbe molto più potente ma la cui azione sarebbe in misura maggiore sotto i riflettori. Il lunghissimo articolo si conclude con una considerazione che è allo stesso momento un augurio: «un’era di Amministrazione presidenziale è arrivata» (7).
In sostanza, Elena Kagan rallegra i vari presidenti sostenendo che il loro potere dovrebbe essere drasticamente aumentato sfavorendo tra gli altri anche il Congresso. Ovviamente queste sue valutazioni la rendono perfetta per qualsiasi presidente: potranno dormire sonni tranquilli nel caso in cui la Corte Suprema debba decidere la costituzionalità di certi poteri e dei limiti della separazione dei poteri che al momento si trovano in zone non definite. Si può star certi che almeno su questo Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama concordano. E’ infatti risaputo che anche Bush cercò di estendere i suoi poteri fino a riuscire a far proporre leggi come il Patriot Act o a far intercettare illegalmente – e impunemente – le telefonate di migliaia di cittadini innocenti infischiandosene della Costituzione.
Elena Kagan dopo l’avventura ad Harvard divenne Avvocato Generale degli Stati Uniti d’America, ovvero la persona che rappresenta gli interessi della Casa Bianca davanti alla Corte Suprema. Anche in questo ruolo ha potuto dare il meglio di sè, questa volta intromettendosi nella ricerca della verità sugli attentati dell’11 settembre 2001. I parenti delle vittime iniziarono una causa legale con l’obiettivo di rimuovere l’immunità ad alcuni prìncipi sauditi in maniera tale da poter verificare se essi effettivamente avessero collaborato con Al Qaeda.
Ovviamente la questione raggiunse la Corte Suprema e nel maggio 2009, Elena Kagan affermò ufficialmente - tra lo stupore generale - che il governo degli Stati Uniti concordava nel sostenere che «i principi sono immuni» e la ragione era ancora una volta politica poichè bisognava tener conto delle «potenziali e significative conseguenze sulle relazioni internazionali di porre un altro Stato sovrano all’interno di una causa legale» (8). La verità, insomma, non è importante.
Con il Congresso diviso tra repubblicani e democratici (9) è chiara quindi l’importanza di aver messo Elena Kagan alla Corte Suprema. Basti solo ricordarsi cosa accadde nel 2000 quando la Corte Suprema dovette giudicare Bush v. Gore e decidere, per la prima volta nella storia statunitense, il vincitore delle elezioni presidenziali fermando il riconteggio delle schede elettorali come richiesto dell’allora governatore del Texas George W. Bush.
Enrico ed Eloisa Accenti, coniugi italo-americani, vivono e lavorano in Texas; lettori di EFFEDIEFFE, scrivono articoli riguardanti gli USA, il modo di vivere americano, le incongruenze e anche le realtà obiettivamente belle di questo Paese, nel tentativo di contrastare una quasi totale distorsione mediatica e ignoranza delle questioni che riguardano gli Stati Uniti.
1) «I have asked the Congress repeatedly, for almost 2 years, to send me legislation that includes a limited exception for the small number of compelling cases where use of this procedure is necessary to avoid serious health consequences». 2) Harvard Law Review, volume 114, pagine 2245-2385. 3) «President Clinton’s assertion of directive authority over administration, more than President Reagan’s assertion of a general supervisory autorithy, raises serious constitutional questions», Harvard Law Review, volume 114, pagina 2319. 4) «In our current political and regulatory climate, concerns relating to both the accountability and the effectiveness of government action support a strong role for the President in setting administrative direction», Harvard Law Review, volume 114, pagina 2319. 5) «This is essentially the question posed by Clinton’s use of directive authority - by his assumption, expressed in formal terms, that when Congress designates an agency official as a decisionmaker, the President himself may step into that official’s shoes», Harvard Law Review, volume 114, pagina 2322. 6) Harvard Law Review, volume 114, pagina 2331. 7) «An era of presidential administration has arrived», Harvard Law Review, volume 114, pagina 2385. 8) Eric Lichtblau, New York Times, 29 maggio 2009. 9) In realtà bisogna tener presente che anche il Senato rischia di bloccarsi in quanto per ragioni strutturali - che non discuteremo qui - bisogna avere almeno 60 senatori per poter riuscire a fare qualcosa di più complicato di aprire un ufficio postale.
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