Ma Obama vuol perdere?
14 Maggio 2008
E’ uscita sul magazine The Atlantic l’ultima intervista al candidato Barak Obama
(1). Una intervista molto difensiva, dove Obama si profonde in atti d’amore per Israele. Se la cava così così. Finchè il giornalista-interrogatore, a nome Jeff Goldberg, gli pone la domanda: «Lei ritiene che Israele sia una palla al piede per la reputazione americana nel mondo?».
Ed ecco l’incredibile risposta del candidato: «No, no, no. Ma ciò che penso è che questa ferita sempre aperta, questa piaga costante, infetta tutta la nostra politica estera. La mancata soluzione di questo problema dà il pretesto a militanti islamisti anti-americani di commettere atti inescusabili, sicchè abbiamo un interesse di sicurezza nazionale per risolvere questo... E anche Israele, credo, ha un interesse di sicurezza a risolvere questo, perchè ritengo che lo status quo sia insostenibile. Sono assolutamente convinto di questo, e certe tensioni che possono nascere tra me e alcuni degli elementi più falchi nella comunità ebraica degli USA può venire dal fatto che io non aderirò ciecamente alla più estrema delle posizioni solo perchè mi copre le spalle politicamente».
E tutto ciò, poche ore dopo che da Gaza, la dirigenza di Hamas aveva espresso pubblicamente l’augurio che il prossimo presidente USA sia Obama. Ovviamente, è stato l’inizio di bordate neocon capaci di colare a picco una portaerei.
«Obama ha detto che Israele è una piaga costante», strilla Clarice Feldman su «American Thinker»
(2). Naturalmente è una menzogna: è chiaro dal contesto che la «piaga costante» è, per Obama, l’irrisolta situazione palestinese. Ma sarà questa la versione che avrà piede nella ufficialità, e ne abbiamo un noto esempio precedente: la famosa frase di Ahmadinejad, interpretata come «cancelliamo Israele dalla carta geografica».
Come pochi sanno, Ahmadinejad aveva detto, citando Khomeini, che Israele un giorno sparirà dalla carta geografica (perchè la sua politica è «insostenibile», come ritiene Obama). Ma la versione falsa, che consente di definire Ahmadinejad «il nuovo Hitler», è quella accettata da tutte le diplomazie occidentali. Questa la prima cannonata.
Poi ha sparato David Frumm, portavoce della Casa Bianca e neocon hassidico (è l’inventore del concetto di «asse del male»): Frumm analizza parola per parola la risposta del candidato e ne decifra i seguenti «messaggi sottintesi»:
«L’altezzosa assunzione che quella che chiama la posizione ‘da falchi’ nella disputa arabo-israeliana è ‘cieca’, e viene adottata dai politici USA solo per coprirsi le spalle politicamente; l’atteggiamento, tipico del sinistrume democratico, che la vera amicizia verso Israele consiste nello spingere il governo israeliano a fare cose che la maggior parte degli israeliani ritiene pericolose; l’accettazione della falsità che sono gli ‘insediamenti’ la causa della disputa arabo-israeliana; l’enorme e non spiegata fiducia che lui può risolvere un problema con il suo personale intervento». (L’accusa più grave è ovviamente l’ultima: Obama deve circondarsi di consiglieri e ministri neocon, non pretendere di fare di testa sua).
Poi è arrivato il siluro di Jennifer Rubin, sulla rivista ebraica Commentary. La Rubin aggiunge un’altra risposta incriminante di Obama. La domanda era: «Si sente irritato dall’appoggio (che ha ricevuto da) Hamas?». Ci voleva così poco a dare la risposta giusta: sì, non solo sono irritato, ma rigetto con sdegno questo appoggio malefico di terroristi che vogliono indurre i miei amici ebrei a dubitare della mia devozione...
Invece ecco cosa risponde Obama: «Non sono irritato. Penso che (l’appoggio di Hamas) abbia lo stesso motivo per cui ci sono sospetti verso di me nella comunità ebraica. Vedi, noi non sappiamo vedere le sfumatore in politica, e specialmente nella politica medio-orientale; vediamo il bianco e il nero, mai il grigio. E’ concepibile che nel mondo arabo ci siano quelli che dicono a se stessi: questo (Obama) è un tizio che ha passato del tempo nel mondo islamico (in Indonesia, ndt.), che ha come secondo nome Hussein, che ha più uso di mondo ed ha fatto appello al dialogo, sicchè non si lancerà in politiche da cowboy come quelle di George Bush. Penso che sia una percezione del tutto legittima, fintanto che non si facciano illusioni sul mio ferreo sostegno alla sicurezza di Israele».
Risposta sbagliata, Barak. La Rubin non si lascia incantare dalla tua ultima frasetta. Punta il dito accusatore: Vedete? Per Obama «nessuno ha ragione o torto, tutto è ‘grigio’, e lui è quello che può insegnare agli altri. Ma ciò che veramente indigna è la pretesa che Hamas possa ammirarlo per il suo ‘uso di mondo’. Ecco cosa cercava Hamas: uno con uso di mondo. E notate l’ambiguità del suo alludere al ‘dialogo’, per sfuggire a confessare l’evidenza: che Hamas è entusiasta perchè lui ha offerto di intavolare colloqui diretti con il loro sponsor, e negazionista dell’olocausto, Ahmadinejad».
Edward Luttwak sul New York Times
(3), dopo aver ricordato (l’ennesima volta) che Obama «è nato musulmano da padre musulmano» anche se «converted to christianity», proprio per questo sarà considerato dai musulmani «un apostata», e gli USA non possono permettersi un presidente che il mondo islamico considererà un apostata, sarebbe un’altra complicazione... Sic. Leggere per credere. Si sta dicendo di tutto sui media americani.
Per esempio, si dà un gran rilievo ad un certo «reverendo» David Manning, negro, che ha rivelato che Barak Obama è «un omosessuale occulto», e che questa «è la sola ragione per cui è stato per vent’anni nella Trinity of Hell» (la «chiesa» del pastore Wright, che ha messo in imbarazzo Obama con le sue prediche «anti-americane»). Di fatto, Obama «aveva una relazione omosessuale col suo ministro»
(4).
A giudicare dalle curve e dal passo di tigre della bella moglie, Obama pare guarito. Ma come si vede, quando Sion vuole distruggere un nemico, non risparmia i mezzi più alti e nobili. E tuttavia sorgono domande: Obama ha praticamente la nomination in tasca, ha il numero di delegati che gli servono. Perchè dice queste cose? Vuol farsi liquidare?
Apparentemente, il candidato nero e democratico ha due difetti imperdonabili in politica: non ha l’abito della menzogna, ed è troppo profondo. Ne ha già dato prova qualche settimana fa, in Pennsylvania. Quando, di fronte alla domanda: gli operai bianchi, benchè ridotti alla miseria dalle politiche sociali repubblicane, non la voteranno mai, replicò: «Non mi sorprende; più si inaspriscono, più si aggrappano alle loro pistole, alla religione, o all’antipatia verso la gente che non è come loro, al sentimento anti-immigrati o anti-libero-commercio, come mezzi per razionalizzare la loro frustrazione». La pura verità.
«Ha insultato la classe lavoratrice! Ha insultato i poveri!», ha strillato tutto l’apparato propagandistico di repubblicani (che per i poveri tanto hanno fatto) e anche, naturalmente, Hillary Clinton. «Ha la puzza al naso! E’ un elitista!». E i grandi media, col New York Times in testa, si sono messi a pontificare su quanto quella uscita avesse «danneggiato» Obama. Danni gliene avrà fatti, l’uscita.
E’ difficile che l’America profonda possa tollerare un candidato che mostri di saper delineare un’analisi sulla «classe lavoratrice di destra» in termini di mentalità, di aver probabilmente riflettuto sul saggio di Walt e Mearsheimer «The Israeli lobby», e inoltre - fatto veramente imperdonabile - di non nascondere una certa intelligenza e cultura. Le verità che dice sono in dosi omeopatiche: ma l’America può sopportare la verità?
Però resta un’altra ipotesi. Che ad Obama queste asserzioni non siano sfuggite, ma che le abbia pronunciate deliberatamente. Che non siano «gaffes», ma il risultato di un calcolo politico forse arrischiato ma sottile.
Sui voti dei bianchi di bassa classe - per lo più «cristiani rinati», razzisti e millenaristi, che vogliono aiutare Israele ad accelerare il secondo avvento di Cristo, a cui seguirà la sparizione degli ebrei e la conversione del loro piccolo resto nel cristianesimo della Southern Baptist Church - Obama sa che non potrà mai contare. Sa anche che l’elettorato che ha sostenuto Hillary Clinton non lo voterà solo perchè anche lui è democratico; è un elettorato che ha seguito Hillary anche perchè ha promesso di «obliterare» l’Iran.
Non gli resta che cercare di intercettare gli umori di un elettorato diverso: quello che voterebbe chiunque promette di non fare più guerre; e siccome McCain e Hillary hanno promesso nuove guerre, l’offerta di candidati alternativi, a questo punto, si riduce a lui solo.
E’ una scommessa: che esista un elettorato tanto cosciente delle menzogne decennali di Bush, da desiderare di sapere la verità sullo stato internazionale e morale dell’America; così nauseato dal rovinoso settarismo di quelli che vedono solo il bianco o il nero, da accogliere come benvenuto uno che sa valutare le sfumature del grigio
(5). E la scommessa che un tale elettorato non sia una minoranza marginale, ma numeroso abbastanza da rovesciare le sorti del suo duello finale con McCain.
E’ una scommessa rischiosa: questo elettorato pullula su internet, ha portato Ron Paul ben addentro alle primarie; ma è abbastanza numeroso, o è un’illusione ottica? Vedremo.
Ma le scomposte reazioni dei neocon Goldberg, Rubin, Frumm, Luttwak hanno il sapore del panico. Quelli sono sull’orlo di una crisi di nervi. Forse anch’essi temono che quell’elettorato introvabile, quell’America che vuole la verità e non si lascia guidare cieca da loro, ci sia davvero.
1) Jeff Goldberg, «Obama on Zionism and Hamas», The Atlantic, 12 maggio 2008.
2) Clarice Feldman, «Obama: Israel a ‘constant sore’ that infects foreign policy», American Thinker, 12 maggio 2008.
3) Edward Luttwak, «President apostate?», New York Times, 12 magggio 2008.
4) Larry Sinclair, «Barak Obama is a closet homosexual: listen to the reverend James David Manning», Larrysinclair.blogspot, 12 maggio 2008.
5) Si veda l’analisi di William Pfaff, «The Democrats and Iraq withdrawal», 12 maggio 2008. «Many anti-war Democrats are furious because they have wanted a renewed commitment by their candidate to end the war. Instead, Hillary Clinton has made increasingly belligerent statements about how America will never surrender, and that she would never legitimate and strengthen America’s enemies (read: Iran, Hamas, Hezbollah) by talking with them. On the other hand, she asserts that she would never have voted in favor of the war had she had known then what she knows now. But that’s Barack Obama has been less blatantly devious (…) . He differs with Clinton by saying that if talking with enemies was good enough for Harry Truman, Richard Nixon and Ronald Reagan, it’s good enough for him. Who else would you talk with if you want to end a war? His Republican opponents gleefully call this stand his ‘Achille’s heel’ veryone’s alibi. The taboo on talking with enemies (other than to accept their surrender) is absurd in the extreme, defying common sense. It might be dismissed as an American superstition, but actually comes from the Arab-Israeli conflict, where it has a practical purpose. For 40 years the Israelis have said that they would never negotiate with terrorists because that would only encourage terrorism. George W. Bush picked it up from them (as had previous U.S. administrations). It has no utility in the American case. The United States, as the more powerful actor, with the most to offer its opponents, can only gain from negotiations with weaker parties able to unlock stalemates. The utility of it in the Israeli case is as a tactic to avoid negotiation at all. Despite Israeli popular opinion, which for years has expressed majority support for negotiated settlement with the Palestinians, successive Israeli governments have done all they decently could to avoid negotiations with Palestinians because to negotiate with them would legitimate Palestinian claims (otherwise why is Israel negotiating), and risk forcing Israeli concessions on colonies, territories and the practices of the Israeli military occupation. All Israeli governments are politically blackmailed by the settlement lobby and the extreme Zionism camp that actually wants territorial expansion and intensified measures to compel Palestinians to abandon their country».
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