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Teniamoci forte, Pechino «riforma»
Maurizio Blondet
29 Maggio 2013
Anche se l’economia cinese rallenta, probabilmente stavolta non ci sarà il solito «stimolo» di Stato all’economia sotto forma di denaro facile. Saranno sempre più «le forze del mercato» a determinare i tassi d’interesse, e sia pur gradualmente si vuole «promuovere l’entrata effettiva di capitale privato nei settori finanziari, dell’energia, delle ferrovie, delle telecomunicazioni ed altri». Porte aperte agli investimenti esteri in settori come la logistica, la sanità e la finanza. Ci sarà più competizione fra ditte private. Una tassa sarà estesa sulle materie prime, eccetera. In una parola, le grandi riforme. Anzi, la Riforma, come l’ha chiamata il nuovo e giovane vice-primo ministro Li Keqiang in un discorso ai quadri del partito, che hanno ascoltato il discorso più liberista che abbia mai colpito le loro orecchie: il governo, si sono sentiti dire, vuol ridurre il ruolo della mano pubblica nell’economia, allo scopo di liberare le energie creative della società, migliorare le condizioni di vita della classe media, assicurare un utilizzo più efficiente di risorse e materie prime (a questo proposito è stata annunciata una tassazione sulle risorse naturali nel paese più inquinato del mondo). «La domanda interna sostituirà l’export come motore principale dell’economia» ha detto Li, e tale domanda verrà «specialmente da una urbanizzazione senza precedenti». È stata annunciata anche una dura lotta contro il super-inquinamento che ha reso l’aria di Pechino, ufficialmente e ridicolmente, «sconsigliabile per la respirazione» (sic). Insomma, la Riforma. Quella che «tutta la società attende ardentemente», si legge nella apposita direttiva auto-celebrativa emanata dal vicepremier. Secondo gli analisti, i vertici del partito fanno sul serio: liberalizzano l’economia dall’alto, per decreto. «Il rallentamento dell’economia mette i capi alle strette: i limiti dello sviluppo forzato dallo Stato e basato sugli investimenti produttivi (senza consumi) diventano sempre più evidenti», dice Stephen Green, economista alla Standard Chartered Bank. Concorda Huang Yiping, economista capo per l’Asia alla barclays: «Capiscono che se continuano a ritardare le riforme, l’economia si troverà in grave crisi». Un progetto audace, quello di lanciare davvero le industrie cinesi nel libero mare del «mercato e competizione» a nuotare da sé, senza il salvagente pubblico. Quanto realizzabile, è da vedere. Non si è potuto sollevare l’immenso Paese dalla povertà da terzo mondo fino allo status di seconda economia del pianeta in soli trent’anni, senza un immenso stampaggio di moneta, denaro prestato a interessi negativi e «stimolazione» gigantesca della Banca Centrale. Questo ha creato distorsioni evidenti, bolle finanziarie (città intere disabitate e nuovissime), prezzi immobiliari assurdi, inquinamento mostruoso, diseconomie – e soprattutto, gli immani ed indebiti arricchimenti dei caporioni comunisti e loro familiari, trasformatisi in «businessmen» (e businesswomen e busines-figli e nipoti) grazie al loro approvvigionamento privilegiato alla fonte del denaro pubblico: un regalo continuo che li ha esentati da preoccupazioni di «efficienza e concorrenza» nelle loro imprese. Per lasciarsi convincere dai capi a lanciarsi senza rete sul «mercato», questa avida nomenklatura ha avuto bisogno di un repulisti contro gli esponenti dell’ala «marxista» liquidati con le accuse di corruzione e delitti, facili sicuramente da provare; ma deve anche aver sentito sopra di sé un pericolo maggiore dei guadagni comunque già accumulati e messi al sicuro. Forse nei piani alti si è valutato che la Cina oggi si trova nella situazione del Giappone anni ’80, quando passò dal miracolo economico fatto di export alla deflazione permanente a cominciare dall’affloscio della bolla immobiliare (si calcolò il palazzo imperiale di Tokio valeva al metro quadro, all’epoca, quanto l’intero territorio della California). Una lunga depressione che la Cina non può permettersi: ci sono ancora 500 milioni di cinesi che non hanno gustato le felicità promesse dalla esplosiva crescita economica, che premono per entrare, e che paiono condividere il rabbioso sentimento contro «la corruzione» (leggi: il partito) delle decine di milioni di lavoratori che del miracolo hanno visto le briciole, che sono urbanizzati e non vogliono né possono tornare alle campagne. Sicché i caporioni sembrano aver deciso: liberalizzare l’economia liberandola dai resti fossili di comunismo, e sostituire la dirigistica forzatura all’export con una vitale economia interna. Non occorre notare che questa è esattamente la ricetta americana, quella (alquanto interessata) che le centrali ideologiche del liberismo Usa suggeriscono da tempo a Pechino: più consumi interni, più «mercato». Si vede così confermata la subordinazione culturale che il potere cinese ha intimamente coltivato verso il grande cliente americano, di cui finanzia i consumi e le importazioni del Made in Cina. Non è solo che un milione di ricche famiglie cinesi della nomenklatura hanno chiesto ed ottenuto la residenza permanente in Usa, aderendo alla condizione richiesta – ossia depositando nelle banche americane almeno un milione di dollari. È una più profonda collaborazione per far durare il sistema di mercato globale nonostante la crisi epocale in corso. Non è affatto un caso che il neo-presidente Xi Jinping, che la prossima settimana incontrerà Obama in California, s’è fatto precedere dall’annuncio che egli vuol esplorare «un nuovo tipo di relazione fra grandi potenze», ossia un’alleanza di fatto per il sistema globale; e istruzioni sono state date ai capi militari di Pechino perché superino «la mutua diffidenza» fra le due armate più potenti del pianeta. (Chinese President to Seek New Relationship With U.S. in Talks) Al fondo di questa alleanza c’è un passo avanti al «governo globale» e alla moneta globale, come teme il sito Daily Bell? (Japan's Turbulence a Glitch in Globalist Plans?) Certo è che nella mano tesa c’è anche una implicita preghiera a Washington che non disturbi, anzi sostenga e comprenda l’enorme Riforma annunciata per riconfigurare quello che in Usa definiscono «un modello di crescita più sostenibile»; una richiesta di silenziare i rispettivi falchi che vedono il Nemico dove non c’è, mentre il potere tenta il nuovo Grande Balzo in Avanti nella società dei consumi per il suo miliardo e mezzo di sudditi. Perché la scommessa è difficile: si può riconfigurare la gigantesca economia drogata, abbandonarla ai tassi d’interesse dettati dai mercati finanziari, in un periodo che è di depressione globale dell’Occidente (i clienti della Cina) e di recessione anche secondo le misure cinesi? La crescita del Pil è stata del 7,8% nel 2010, la più lenta dal 1999. Durante la sua visita in Germania, il nuovo premier Li Keqiang ha spiegato che Pechino «ha davanti una grande sfida in quanto punta ad una crescita annua del 7%, in ribasso rispetto al 10% e più dell’ultimo decennio». Una minor crescita significa minore possibilità di assorbire la manodopera cinese che ancora preme per entrare nel miracolo, e meno per gli aumenti salariali che le basi operaie chiedono sempre più rabbiosamente. Il rischio politico è evidente. Ma «la crescita economica deve essere reale», ha detto Li Keqiang in una delle riunioni di partito che stanno mettendo a punto le riforme. Delicata allusione, forse, alle statistiche economiche ufficiali cinesi, notoriamente manipolate. L’esempio più comico viene dalla comparazione dei dati fra Cina e Hong Kong, che ancora avviene computata come una entità estera. Le esportazioni che la Cina dichiara di inviare ad Hong Kong sono molto superiori alle importazioni che Hong Kong dichiara di ricevere dalla Cina. C’è qualcosa che ovviamente puzza: per definizione, le esportazioni di Cina devono essere pari alle importazioni di HK. Una volta corrette questa ed altre falsificazioni, la crescita del Pil cinese, ufficialmente del 7,7 % nel primo trimestre dell’anno, risulta invece del 5,5%: il più basso risultato degli ultimi vent’anni, e indice di un rapidissimo sgonfiamento del «miracolo» cinese. (China's Data Manipulation In One Chart) Altra conferma: il crollo dei prezzi di metalli come il rame, che la Cina industriale ha consumato insaziabilmente per anni. Anzi: dei venti partners economici principali della Cina ben 14 – ossia il 70% – hanno visto calare le loro esportazioni in Cina: in media quasi del 5%. La sperata locomotiva del commercio globale si sta fermando in fretta, con danni evidenti anche per noi. Se si guarda la seguente tabella di Bloomberg, si vede che l’export italiano verso i cinesi è il peggiore fra tutti, negativo da due anni.
Ma anche Germania, Francia ed Olanda non se la passano tanto bene come esportatori in Cina. La liberalizzazione interna cinese peggiorerà questa situazione: meno Ferrari, Mercedes e Champagne e più prodotti di massa per la classe media cinese, che il Paese fabbrica da sé a iosa. La riforma cinese, e l’alleanza con gli Usa, fanno dell’Europa l’ovvio nano politico e ventre molle chiamato a pagare le spese del grande balzo? Sembra proprio così.
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