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L’attentato di Bali: qualche novità sui depistaggi
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La polizia indonesiana sta braccando l’ennesimo presunto mandante dell’attentato di Bali; stavolta sarebbe tale Nurdin Mohammed Top, un militante islamico. I presunti mandanti sono stati, fino ad oggi, una mezza dozzina: nel numero spiccano tale Hambali, indicato come capo di Al Qaeda e contemporaneamente di Jamaa Islamya, l’imam Abu Bakar Bashir, capo spirituale della Jemaah Islamya, e finalmente - per autoconfessione - il celebre prigioniero di Guantanamo Khalid Shaikh Mohammed, detto per brevità KSM, il quale si è dichiarato colpevole degli attentati dell’11 settembre («dall’A alla Zeta», ha detto), dell’assassinio del giornalista Daniel Pearl, del fallito attentato a un aereo decollato da Parigi con passeggero dotato di scarpa esplosiva, di un tentativo di assassinio del presidente Bill Clinton nel 1994, di vari progetti di far saltare le Sears Towers di Chicago, diversi ponti a New York, di attentati falliti in USA, Israele, Australia, Giappone, India, Corea del Sud, Turchia e Filippine. E, appunto, del tragico attentato di Bali del 2002.

Non basta la confessione di questo prolifico criminale islamista e capo ultra-supremo di Al Qaeda? Evidentemente no. La polizia indonesiana continua a cercare.

Ci sarebbe da ridere, se l’evento alla base di questo non fosse stato tragico. Visto che abbiamo la memoria corta, ricordiamolo:

il 12 ottobre 2002 un’auto bomba esplode davanti ad una discoteca di Kuta Beach, Bali. L’esplosione è di potenza inaudita: 202 persone vengono uccise - in qualche caso addirittura incenerite - e 209 gravemente ferite (una piccola bomba esplose anche davanti al consolato USA a Denpasar, senza far danni). Il cratere è profondo dieci metri; la zona colpita è vastissima. Piloni di cemento armato sono stati troncati di netto.

bali_1.jpgIl 16 settembre 2002, meno di un mese prima dell’attentato, emissari del governo USA in un incontro segreto col presidente indonesiano, la signora Megawati Sukarnoputri, le avevano chiesto nei termini più pressanti la consegna dell’imam Abu Bakar Bashir, da loro ritenuto elemento di Al Qaeda. L’imam sarebbe stato sottoposto a rendition e «interrogato» da qualche parte del mondo (il particolare fu rivelato dall’interprete presente al colloquik Fred Burks). Megawati e il suo vicepresidente rifiutarono recisamente.

L’attentato era stato «previsto» dalla CIA, che in un rapporto riservato aveva elencato sei possibili bersagli di attentati a Bali, fra cui due night club vicinissimi a quelli colpiti.

Il 26 settembre 2002, l’ambasciata USA in Indonesia aveva emesso un allarme che diceva: «Americani e occidentali debbono evitare grandi assembramenti, e locali frequentati da una clintela occidentale, come certi bar, ristoranti o aree turistiche». I proprietari di tali locali a Bali, tuttavia, non avevano ricevuto alcun pre-allarme.

Poichè gli uccisi sono per lo più turisti occidentali, si precipitano a Bali decine di agenti dell’FBI,  poliziotti britannici e almeno 120 agenti australiani, poliziotti o dei servizi. Questo «gruppo investigativo» praticamente si sostituisce agli inquirenti indonesiani.

«La spiagga di Kuta era piena di spie», ricorda Robert Finnegan, direttore all’epoca del Jakarta Post, il quotidiano in lingua inglese.

«Non condividevano nessuna informazione con gli inquirenti indonesiani, e tutti eravamo sgomenti dal modo in cui distruggevano gli indizi».

Ci sono dispute sulla natura dell’esplosivo: dapprima i militari indonesiani accerteranno che si tratta di C-4 militare, ma in seguito si dirà che era un esplosivo fatto in casa con zolfo, ammoniaca ed altri comuni ingredienti.

Il 2 novembre 2002, solo tre settimane dopo l’attentato, gli investigatori australiani ed alcuni indonesiani  cominciano a far sgombrare dalle macerie e dai rottami la vasta area dell’attentato.

Dichiarano: «Abbiamo tutto quel che serve per inchiodare i colpevoli».

Arrestano un certo Amrozi, un meccanico semi-analfabeta, che confessa immediatamente di aver piazzato la bomba (con zolfo, ammoniaca ed ingredienti casalinghi). Immediatamente, tutti i resti e le macerie della zona del delitto vengono raccolti con bulldozer, caricati su camion e buttati in mare, e con essi tutte le possibili prove e indizi.

Sarcastico, Finnegan commenterà l’eccezionale rapidità con queste parole: «Straordinario lavoro, devono aver battuto un record mondiale nell’analisi forense sul luogo del delitto».

bali.jpg25 novembre 2002. Il New York Times riporta che in Indonesia «ci sono ancora importanti funzionari del controspionaggio convinti che la CIA sia dietro l’attentato». L’amministrazione Bush chiede perciò ufficialmente alla presidente Megawati di condannare pubblicamente tali teorie  complottiste. Megawati rifiuta, ed anzi condanna gli Stati Uniti definendola «Una superpotenza che ha obbligato il resto del mondo ad obbedire ai suoi voleri», aggiugendo: «Vediamo come l’ambizione di conquistare altre nazioni ha portato ad una situazione in cui non c’è più pace, a meno che il mondo intero non si pieghi alla volontà del solo potente e del solo forte» (New York Times, 11/25/2002).

29 novembre: compare un discorso audio di Bin Laden, dove il noto capo di Al Qaeda loda gli autori dell’attentato di Bali. Il «Dalle Molle Institute for Perceptual Artificial Intelligence», centro specializzato che ha sede in Svizzera, dopo averlo esaminato, decreta che l’audio è falso. L’11 dicembre l’International Crisis Group, un think tank internazionale, accusa alti ufficiali dell’armata indonesiana di essere affiliati di Al Qaeda.

Passano gli anni, con arresti, tentativo di incriminare l’imam detestato dagli americani, eccetera.

Nel marzo 2007, l’amico Wayne Madsen rivela quanto segue: nelle ore immediatamente precedenti l’attentato del 2002, un aereo DEHavilland «Dash-7» (un aereo civile poco usato, che ha capacità STOL: può decollare da una portaerei) è atterrato all’aeroporto Denpasar di Bali.

«Secondo la nostra fonte un gruppo militare israeliano si presentò all’ospedale di Denpasar dopo l’esplosione, reclamò i corpi di quattro uomini bianchi in mimetica militare, e li ha portati via da Bali con il Dash-7. L’aereo decollò un’ora dopo l’esplosione. Le nostre fonti dicono che l’aereo ha avuto il permesso di passaggio sopra Singapore per una destinazione ignota. Dopo l’attentato e la partenza dell’aereo, i registri della torre di controllo di Denpasar furono alterati in modo da non far apparire l’arrivo e partenza del Dash-7. Ma l’esistenza dell’aereo a Denpsara è rimasta registrata nei registri dell’area di stazionamento (dove l’aereo aveva fatto rifornimento)».

Notizia incredibile? Eh sì. Possibile che quattro soldati israeliani fossero implicati nell’attentato, e siano rimasti, per così dire, «sul lavoro»? O che quattro militari israeliani stessero ballando nella discoteca di Bali in tuta mimetica, così lontani dal loro piccolo Stato in pericolo nella sua stessa esistenza? Suvvia, chi ci crede?

Siamo ora in grado di rivelare la fonte: è Robert Finnegan, l’ex direttore del Jakarta Post in inglese. O più precisamente, di un suo bravissimo fotoreporter locale, Damaso Reyes, che il 13 ottobre 2002 andò all’aeroporto e riuscì ad ottenere copie delle registrazioni alterate della torre di controllo, e di quelle non alterate della stazione di servizio. Robert Finnegan, che non conosceva una parola di indonesiano, aveva sguinzagliato una quarantina di suoi studenti in giornalismo che gli portavano notizie ghiotte come questa. Il Jakarta Post, in quei giorni, faceva le pulci alle indagini del «gruppo di investigatori internazionali».

Finnegan, troppo bravo, fu immediatamente licenziato dal suo editore, Raymon Toruan. E’ stato zitto tutti questi anni, perchè minacciato (la minaccia si estendeva ai suoi studenti-investigatori).

Ora, malato, s’è deciso a parlare. La prima parte della sua rivelazione si può leggere in Southeastasia Independent Media, dell’australiano Glen Clancy, al sito http://seanews.110mb.com/index.html

Per una completa cronologia degli eventi, consultare «History Commons», http://www.historycommons.org/ , e digitare nel motore di ricerca la parola «Bali».



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