Italiani in Afghanistan
Maurizio Blondet
29 Marzo 2009
Come stanno i 2.800 soldati italiani in Afghanistan? «Virtualmente accerchiati», risponde Pepe Escobar, inviato internazionale che lavora tra l’altro per Asia Times, in un allarmante reportage dal Paese
(1). Che i Larussa, i Berlusconi e i Frattini farebbero bene a leggere.
Nell’Afghanistan occidentale (zona di Herat) ci sono tre basi militari, esordisce Escobar. Una è americana. Un’altra afghana (due fortini «in mezzo al nulla», con non più di 100 uomini). La terza e più importante, il comando regionale NATO-ISAF – è sotto comando italiano.
«Solo nei primi due mesi del 2009 in questa zona “italiana” attorno a Herat sono aumentati del 50% gli atti ostili contro gli occidentali, essenzialmente auto-bombe ed ordigni esplosivi a lato strada (IED). Qui, il generale Paolo Serra comanda una forza multinazionale di soli 3 mila uomini, la metà italiani, che ha il compito di controllare un’area grande come il Nord-Italia».
Di fatto, solo 600 uomini (italiani e spagnoli) sono effettivamente militari combattenti. Anche se le forze totali presenti nell’area sono sulla carta 10 mila (ma compresi mille poliziotti afghani, soldati dell’«esercito» di Karzai notoriamente inaffidabili, e americani che non obbediscono all’ISAF).
In compenso, l’area ha le migliori strade dell’Afghanistan, grazie ad investimenti iraniani. L’Iran è vicino (il posto di confine, Eslam Qaleh, è a soli 40 minuti di macchina da Herat), e considera la zona altamente strategica per i propri interessi nazionali. Da una parte, vuole farne un transito per il commercio centro-asiatico (dal Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan) in modo che le merci affluiscano ai suoi porti, anziche ai porti pakistani. Dall’altra, ha (come la Russia) ogni interesse a ostacolare la costruzione dell’oleodotto da 7,6 miliardi di dollari, voluto dagli americani (e il cui progetto fu la vera causa dell’invasione nel 2001) che dovrebbe portare il greggio del Turkmenistan passando nella provincia di Herat per raggiungere – attraverso il sud afghano in mano ai Talebani – il Pakistan, e più precisamente la sediziosa provincia del Balucistan, dove l’eversione americana rinfocola il secessionismo della minoranza etnica locale.
«Sicchè», dice Escobar, «non c’è da stupire che i servizi segreti iraniani siano assolutamente onnipresenti» nell’area affidata agli italiani. «E il loro miglior alleato nella regione è il leggendario signore della guerra anti-sovietico Ishmail Khan», ostilissimo a Karzai; ossia al governo cui dovremmo fare da scudo, in attesa che gli americani (come vogliono) lo eliminino per sostituirlo con gente più a loro gusto.
Escobar descrive alcuni fortini degli italiani. Una piccola base remotissima, Bala Murghab, villaggio a ridosso del confine turkmeno, in territorio ormai controllato dai Talebani: qui, «il perimetro di sicurezza per gli italiani varia tra 1,5 chilometri e 500 metri. Finchè stanno dentro, sono protetti dal villaggio, controllato da un ex mujahid (e da chi, se no?). Se si avventurano fuori, sono alla mercè dei ‘leoni’, come nel Colosseo ai tempi dell’impero romano».
Un’altra nostra minuscola base è a Farah, a sud di Herat. E giusto a sud di Farah, si concentrano i gruppi di Talebani che fuggono dale incursioni aeree americane. A nord di Herat dominano invece i contrabbandieri d’oppio, pro-Talebani. E a Guzara, a metà strada fra Herat e la frontiera iraniana, «c’è un nuovo nemico pubblico numero uno per gli occidentali, il grandioso Qulum Yahya Sia Shoon». Che sarebbe un ex-sindaco di Herat che, avendo perso il posto politico, è diventato un «crime boss». Non sta veramente coi Talebani, ma nemmeno con il governo di Karzai, lontano e condannato. Era un alleato di Ishmail Khan (il filo-iraniano), ma oggi ha rotto anche con lui. Si è fornito di una sua milizia e fa la sua propria politica; di cui la sola cosa chiara è che non vuole che gli stranieri si impiccino. Sfugge continuamente alla cattura, ancorchè «tutti nella regione sappiano dove si nasconde», e ciò è materia di «incessante stupore per il generale Paolo Serra».
Di fatto, un brulicante nido di vipere, villaggi controllati da capi-clan, reti tribali, consigli tribali (shura) legati da matrimoni, signori della guerra locali in ottimi rapporti coi Talebani, «un territorio controllato in stile mafia» non troppo diverso dalla «Sicilia o da Napoli controllata dalla camorra», ma molto più estraneo e pericoloso.
La cosiddetta «economia locale» consiste nella produzione e spaccio di oppio ed eroina, prodotti di Helmand e Nimruz, che devono passare per Herat onde raggiungere l’Iran e da lì i mercati occidentali. Dunque la guerriglia islamista, talebana o di «Al Qaeda» (militanti sunniti fanatici) si intreccia e si alimenta con il business; contrabbandieri armati, le milizie criminali, quelle dei signorotti locali in «affari» oppiacei, oggi in guerra tra loro e domani alleati a sorpresa. Come da trent’anni, come da sempre.
Il fatto è, spiega Escobar, che un milite talebano «vale» 5 dollari al giorno. Per cui chiunque abbia i soldi dell’oppio può mettere insieme un esercito privato, e chiunque abbia buone connessioni tribali ha davanti una lucrosa carriera: da capo tribale a signore della droga e della guerra.
Per contro, «Roma spende mille euro al minuto per le sue 2.800 truppe in Afghanistan». E adesso che Berlusconi e Frattini hanno promesso un aumento di truppe ad Obama, non possono fornirne più di ulteriori 200, «è questione di bilancio». E gli italiani, ci informa Escobar, stanno trovando il modo di risparmiare un pochino. Mettendo insieme più «coaches» ma facendo più economia. Nel gergo della NATO, «coach» è un drappello di 10 (dieci) uomini, che possono chiedere per radio l’appoggio aereo dei 4 (quattro) Tornado italiani e dei 13 elicotteri d’assalto Mangusta. L’accorgimento sarebbe di porre i Tornado di base a Herat anzichè dove sono ora, la lontana Mazar i-Sharif, facendo così economia di carburante, e di aumentare i Mangusta a 16, ma con meno ore di volo. Il tutto aggiungendo un fortino avanzato, 4 (quattro) invece di tre.
Si rinverdisce una solida tradizione italiana, la guerra coi fichi secchi e le scarpe di cartone. Interessante coincidenza, proprio quando Silvio Berlusconi proclama la creazione del «partito-nazione», ossia adotta per la TV un po’ del linguaggio ducesco dismesso (da tempo) da Kippà Fini. Siccome la storia tende a ripetersi sotto forma di farsa, Berlusconi potrebbe scoprire prima del previsto come i rovesci militari consumino in un lampo il carisma del «capo», e rovescino il favore del popolo-Mediaset in detestazione.
Le sciagure delle campagne mussoliniane in Albania e in Grecia possono replicarsi ad Herat: dove ai nostri soldati sfuggirà, si capisce, l’aspetto farsesco. Il rischio è imminente, visto che Obama ha annunciato che «Al Qaeda sta progettando attentati nel territorio degli Stati Uniti», ossia ha controfirmato la menzogna che è la causa di tutti i disastri dell’ultimo decennio. Magari ci sarà un altro «attentato di Al Qaeda» in USA, in modo da convincere i disoccupati americani ad ottenere vitto, alloggio ed equipaggiamento dal Pentagono e andare in Afghanistan a «disorganizzare, smantellare e sconfiggere Al Qaeda».
Obama ha anche annunciato l’invio di 4 mila uomini, oltre ai 17 mila già destinati all’Afghanistan sulla carta. Secondo i ben informati, il piano è, più modestamente, di guadagnare tempo, comprare qualche tribù e tenerne a bada qualche altra, in modo che l’inviato speciale Richard Holbrooke possa arrivare a un governo misto Karzai-talebano «moderato».
Ma vi s’intravvede un altro disegno: inchiodare a quel terreno gli «alleati» europei ben consci che l’Afghanistan è perduto, metterli davanti al fatto compiuto, costringerli a vincere o morire.
Funzionerà? A Simon Jenkins del Guardian
(2), la Kabul di questi giorni ricorda molto Saigon degli ultimi giorni: uffici con aria condizionata strapieni di personale militare e assistenti di ONG che mandano i prezzi di tutti gli scarsi generei locali (diventati inarrivabili per la gente), e che non osano avventurarsi fuori dalla capitale. E in una sinistra replica del Vietnam, elementi della CIA autonomi e irriducibili conducono la «loro» guerra coi «loro» metodi, mandando i loro droni Predator a destabilizzare il Pakistan per colpire i santuari talebani, esattamente come un’altra generazione della CIA fece colpi di mano nei «santuari» della Cambogia, e si mise ad autofinanziare queste iniziative autonome aiutando i Meo del Triangolo d’Oro a spacciare l’oppio sugli elicotteri della US Army.
«Militanti della CIA hanno espresso l’intenzione di bombardare la città pakistana di Quetta in Balucistan», scrive Jenkins: «L’incapacità di Obama o del suo generale nell’area, David Petraeus, di bloccare le iniziative di questi subordinati è uno degli sviluppi di peggior malaugurio».
Come in Vietnam, il risultato di questi americanismi è rendere più ingestibile il caos e più ampio il fronte dei nemici, destabilizzando ulteriormente il Pakistan.
Il primo ministro pakistano Yusuf Raza Gilano s’è chiesto ad alta voce se «negli alti comandi di Washington non ci sia infiltrato un genio di Al Qaeda».
Berlusconi è d’accordo con «l’amico Obama» come lo fu con «l’amico Bush»; forse ignaro che tra la campagna afghana e l’«Isola dei Famosi» c’è qualche differenza.
Il solo elemento a favore delle nostre truppe circondate è la vicinanza, a 40 minuti di auto, con il confine iraniano; da lì potremmo esfiltrare, e i nostri rapporti con Teheran sono tradizionalmente decenti.
Senonchè, a Washington la nota lobby non riposa. Un nutrito gruppo di importanti senatori e deputati democratici ha scritto una lettera ad Obama, in cui lo incita a intraprendere «azioni urgenti» per «impedire all’Iran di darsi la bomba atomica»: non basta il nido di vipere afghano, non basta l’esplosivo Pakistan, Israele pretende che venga aperto anche il fronte iraniano – dalla cui buona volontà dipendono, in fondo, anche le truppe USA nei due Paesi così malamente occupati. La lobby chiuderebbe così l’estrema via di ritirata ai nostri soldati.
Speriamo che ci siano abbastanza elicotteri a cui aggrapparsi da un tetto di Herat, come già a Saigon.
1) Pepe Escobar, «Obama’s Afghnan spaghetti western», Asia Times, 28 marzo 2009.
2) Simon Jenkins, «This war is Vietnam for slow learners», Guardian, 25 marzo 2009.
3) Eric Fingerhut, «Top Dems want ‘urgent action’ on Iran», Telegraph, 27 marzo 2009. «Some top House Democrats are calling on President Obama to take "urgent action" to stop Iran from possessing a nuclear weapon. In a letter to the president, they back Obama's engagement with the Iranian regime but say it "cannot be open-ended" and that talks must begin as soon as possible. They offer further ideas for sanctions if the talks are fruitless, as well as suggest measures that U.S. allies should prepare to take in order to pressure the Iranian regime. The signatories include some hugely important House Dems, including House Majority Leader Rep. Steny Hoyer (Md.), House Foreign Affairs Committee Chairman Howard Berman (Calif.), House Intelligence Committee Chairman Rep. Silvestre Reyes (Texas), House Armed Service Committee Chairman Rep. Ike Skelton (Mo.), House Energy and Commerce Committee Chairman Rep. Henry Waxman (Calif.), House Foreign Affairs Middle East and South Asia subcommittee Chairman Gary Ackerman (N.Y.) and Rep. Robert Wexler (Fla.), a close Obama ally and chairman of the House Foreign Affairs subcommittee on Europe».
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