Il Pentagono alle corde
Maurizio Blondet
09 Febbraio 2009
I Talebani hanno fatto saltare un ponte di ferro, lungo 30 metri, a una ventina di chilometri a nord-ovest di Peshawar; bloccata dunque ancora una volta la linea logistica che rifornisce l’80% dei materiali necessari alle truppe NATO e USA in Afghanistan. Il giorno dopo, onde ribadire il concetto, i guerriglieri hanno dato fuoco a dieci camion. Gli autisti e i padroncini (la ex-superpotenza affida i rifornimenti a civili a contratto) tendono a rifiutarsi di prendere la strada per il Khyber Pass, troppo pericolosa
(1).
Peshawar del resto è la capitale dei pashtun pakistani, e i Talebani sono pashtun. Sequestri di persona e decapitazioni (siano fatte da talebani o criminali comuni) fanno vivere la città nel terrore. Nella vicina provincia (meglio, agency) di Orakzai il potere dei Talebani ha indotto alla fuga la popolazione più laica. Il movimenti dei guerriglieri, Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) ha persino invitato dei giornalisti nella zona, per dimostrare il suo controllo del territorio. Il debole governo pakistano non può far nulla per contrastare questa inarrestabile presa di potere della guerriglia fondamentalista. Gli abitanti aspettano, in angoscia, una resa dei conti sanguinosa fra i jihadisti e le truppe governative (Abdul Saboor Khan, «Orakzai becomes a new haven for Taliban» Daily Times, 4 febbraio 2009).
Frattanto, il 3 febbraio, il governo della Kirghizia ha deciso di non rinnovare agli americani l’affitto della base aerea di Manas, una vecchia base ex-sovietica di cui il Pentagono si serviva per inoltrare in Afghanistan 15 mila uomini e 500 tonnellate di materiali ogni mese. Il «presidente» kirhizo Kurmanbek Bakiyev s’è lasciato convincere da un colloquio con il presidente russo Medvedev, che si è impegnato ad abbonare 180 milioni di dollari di debiti pregressi del piccolo Paese, più una donazione di 150 milioni di dollari, e prestiti di favore per 2 miliardi di dollari. Un buon prezzo per rinunciare ai soldi USA.
Ora, in Afghanistan, gli «occupanti» sono diventati «preoccupati». Lo dimostra la reazione americana a questo infarto delle linee logistiche, patetica se non incredibile: il generale americano John Craddock, capo supremo delle forze NATO in Afghanistan, ha fatto sapere che non si opporrà se «singole nazioni alleate», ossia altri membri NATO, per rifornire le proprie truppe, faranno accordi con l’Iran
(2).
Sì, proprio l’Iran, l’arcinemico pericolosissimo e motore immobile di tutti i terrorismi secondo la narrativa di Washington. Ma tant’è: il territorio iraniano sarebbe una più facile e sicura via di rifornimento, se Teheran desse l’autorizzazione alle navi occidentali di scaricare nel suo porto ad alto pescaggio di Chabahar sul Golfo Persico, e da lì instradare le forniture su camion lungo la rete stradale iraniana fino al posto di confine di Zaranj, e da lì prendere la superstrada nuovissima (e poco usata) che gli indiani hanno appena costruito per il regime afghano e che porta verso il centro dell’Afghanistan.
Ma perchè Teheran, minacciata ogni giorno da Us-raele, dovrebbe fare questo piacere a chi si autodichiara suo nemico? Il segretario generale della NATO, l’olandese Jaap de Hoop Scheffer, ha proclamato che sì, i membri della NATO e anche gli Stati Uniti dovrebbero impegnare l’Iran addirittura «a combattere i talebani in Afghanistan» (sic). Ma Robert Gates, segretario della Difesa USA, nella sua prima audizione al Congresso della nuova presidenza (Obama s’è tenuto al Pentagono il ministro di prima) ha aggredito verbalmente «l’interferenza e la doppiezza» di Teheran in Afghanistan, sottintendendo che il regime iraniano (sciita) soffierebbe sul fuoco dell’insorgenza (sunnita).
Insomma l’America alle corde, e bisognosa di aiuti in centro-Asia, continua a parlare il linguaggio arrogante delle superpotenza che fu. Ovviamente il ministro degli Esteri iraniano Mottaki, invece di correre (come un La Russa qualunque) ad arruolare soldati iraniani a fianco degli Stati Uniti in guerra, ha auspicato che gli USA, oltre che dall’Iraq come ha promesso Obama, dovrebbero ritirarsi anche dall’Afghanistan.
Identico l’atteggiamento americano verso Mosca. Da settimane portavoce americani dicono che faranno passare le forniture logistiche da nord, sul territorio russo fino all’Amu Daria e nei piccoli Stati centro-asiatici dell’ex URSS, dandolo per scontato: evidentemente convinti di avere in questa zona gli stessi lacchè a cui sono abituati in Europa. Mosca ha risposto convincendo il dittatore kirghizo a chiudere la base di Manas in faccia al Pentagono.
Non è che Putin non sia disposto ad aiutare. Il suo vice-ministro degli Esteri Grigory Karazin ha dichiarato: «Speriamo che noi e gli Stati Uniti si possa avere colloqui specifici e professionali a questo scopo (le strade di transito verso l’Afghanistan) nel prossimo futuro. Vedremo fino a che punto potremo efficacemente cooperare. USA, Asia Centrale, Cina... tutti noi abbiamo interesse al successo delle operazioni anti-terrorismo in Afghanistan».
Però il Cremlino si aspetta qualcosa in cambio; come minimo, la cancellazione del progetto di piazzamento di missili antimissile in Polonia e Cekia, che considera giustamente una minaccia al proprio territorio. Invece. al 45° vertice sulla Sicurezza tenutosi a Monaco, il vicepresidente Joe Biden ha chiarito che quel programma andrà avanti anche con Obama, perchè i missili in Polonia servono «contro la crescente minaccia dell’Iran». Ed ha aggiunto: «Gli Stati Uniti non riconosceranno Abkhazia e Sud-Ossetia come Stati indipendenti. Non riconosceremo una sfera d’influenza» della Russia nell’area. E ha aggiunto che le relazioni tra la Russia e «le democrazie» prendono «una piega pericolosa»
(3).
Insomma lo stesso linguaggio tracotante dell’epoca dell’unilateralismo aggressivo di Bush. E ciò, nonostante che Hoolbroke, il pleni potenziario di Obama per l’Afghanistam abbia confessato a Monaco: «Non ho mai visto un pasticcio grosso come quello che abbiamo ereditato» in Afghanistan, «E’ un problema come nessun altro. Sarà molto più dura che in Iraq».
Anzi, non solo il linguaggio, ma i fatti. Gli USA hanno firmato da poco un accordo con il Kazakhstan, secondo cui questo Paese dispiegherebbe truppe in Afghanistan, e in cambio il Pentagono acquisterebbe «una parte significativa dei suoi rifornimenti» per l’occupazione in Kazakhstan. Ora, questo Paese è membro dello CSTO, «Collective Security Treaty Organization», ossia un alleato di Mosca (e Pechino) nel trattato militare concepito proprio per tenere alla larga gli occidentali dall’area.
Come risposta, il giornale moscovita Nezavisimaya Gaseta ha fatto sapere che Mosca intende riaprire la vecchia base aerea sovietica di Bombora, che si trova in Abkhazia, sul Mar Nero; e la Russia ha firmato un accordo con la Bielorussia per installare un sistema difensivo antimissile integrato in quel Paese. Nello stesso tempo il presidente, Medvedev, ha scelto proprio la riunione del CSTO per reiterare la sua disponibilità a collaborare con gli americani nella «lotta al terrorismo» afghano.
E’ da vedere se gli USA possono ancora permettersi - con la loro economia che è calata di quasi il 4 % nell’ultimo trimestre del 2008, il calo più forte degli ultimi 26 anni - questa pericolosa politica di superpotenza in casa d’altri.
Nella sua prima audizione davanti alla commissione senatoriale sulle forze armate, il ministro della Guerra Robert Gates ha detto chiaro che «il rubinetto dei soldi aperto al massimo dopo l’11 settembre si chiude. Con due campagne in corso, la crisi economica e le conseguenti pressioni sul bilancio ci forzeranno a fare scelte dure». Ed ha aggiunto: «Secondo me, gli sforzi di mettere la burocrazia sul piede di guerra hanno rivelato falle rispetto alle priorità, alle preferenze culturali e alle strutture di ricompensa dell’establishment della difesa USA. Sto parlando di un gruppo di istituzioni intese a concepire future guerre, per preparare a una guerra lunga, ma non adatte a una guerra di lunga durata».
Con questo frasario burocratico-sibillino, Gates ha di mira il modo in cui sono state finanziate negli ultimi otto anni le avventure militari: con «stanziamenti d’emergenza» via via strappati da Bush a un Congresso servile o intimidito.
Nella pratica, la burocrazia del Pentagono si è abituata a pescare dal vaso della marmellata tutto quanto voleva; e ha usato quella sua facoltà illimitata per accrescere enormemente la spesa per nuove armi e nuovi gadget, senza curarsi di coerenti decisioni di lungo periodo. Con una preferenza per armamenti da terza guerra mondiale (supermissili, supercaccia, super-satelliti, super-elettronica e super-bombardieri) prodotti e promossi dalle grandi fabbriche del sistema militare industriale, ma di nessuna utilità nella guerriglia e nei conflitti di bassa intensità che gli USA stanno affrontando sul terreno.
Ora, Obama ha ordinato al Pentagono un bilancio per il 2010 che contempli una riduzione delle spese del 10% - ossia 55 miliardi di dollari. Carl Levin, il presidente della commissione forze armate, ha precisato: non possiamo fare tagli al personale (quello operativo è già all’osso), dunque si deve rinunciare a qualcosa negli armamenti di maggior costo. Secondo lo stesso Levin, i tagli più opportuni sarebbero nel famoso sistema antimissile da installare in Europa, che tanto inquieta Mosca. Tanto da ventilare «un programma antimissile congiunto con la Russia, per contrastare la minaccia che l’Iran può porre con missili a testata nucleare».
Questa speranza, come s’è visto, è stata seppellita da Joe Biden al vertice di Monaco. Il che riporta alla domanda: l’America ha i mezzi per le sue ambizioni smisurate?
Sembra di no.
Il General Accounting Office (GAO, l’ente della Contabilità Generale) ha pubblicato il 27 gennaio 2009 un rapporto in cui getta l’allarme: la US Air Force non è in grado di svolgere il suo compito primario, la sorveglianza aerea difensiva del suolo nazionale.
Il rapporto è intitolato «Homeland Defense - Action needed to improve management of Air Sovereignty Alert Operations to protect US Airpsace».
La difesa dello spazio aereo è affidata soprattutto alla flotta di F-15. Gran numero di questi caccia sono stati ritirati negli ultimi anni per invecchiamento precoce; altri sono operativi ma con serie restrizioni della durata dei voli. Si calcola che il 15% della flotta aerea sia soggetta a tali restrizioni, che ne riducono del 50% la capacità ASA (Air Sovereignty Alert) ossia la capacità di garantire l’integrità della nazione, fondamentale imperativo sovrano. Gli aerei bene o male operativi sono attualmente 2.325. Nel 2020, saranno calati a 1.175. Nel 2025, ce ne saranno solo 1.100. Ciò perchè, accusa il GAO, la «Air Force è concentrata sulle operazioni militari all’estero», fino al punto da trascurare la pianificazione, l’addestramento, l’organizzazione e il finanziamento delle missioni di sorveglianza aerea in patria, che sono «in corso in modo continuo e indefinito». Come conseguenza, «se entro il 2020 gli aerei non vengono sostituiti, 11 dei 18 siti di sorveglianza saranno senza squadriglie».
Insomma per obbedire a Bush le forze USA (non solo aeree) si sono concentrate nel settore di «offesa», di proiezione intercontinentale delle forze e di smisurati aiuti militari a Israele
(4), tralasciando la difesa sovrana fino a un punto da fare del territorio americani, fra un decennio, un ventre molle.
Per scatenare una serie di guerre contro pericoli inesistenti e nemici di fantasia, Bush ha sguarnito il compito primario della difesa, garantire la sovranità e inviolabilità della patria. Con tanti saluti al «patriottismo» dell’amministrazione Bush
(5).
Ma questo vale anche per l’Italia: anche da noi le nostre poche truppe d’elite e i nostri miseri armamenti in effcienza sono sparsi nel mondo, al seguito dei dementi americani, mentre non ne abbiamo a difesa del territorio.
Forse è il caso di seguire alla svelta il consiglio che il generale Craddock ha dato ai «Paesi membri» della NATO: fare alla svelta un accordo con l’Iran per poter utilizzare le loro strade, in caso di bisogno, onde esfiltrare le nostre truppe in Afghanistan. Perchè se le cose si mettono male in Afghanistan (e si stanno mettendo malissimo) per «i nostri ragazzi» non ci saranno posti sugli elicotteri che gli americani faranno atterrare sui tetti per portar via i loro.
1) Tom Burghardt, «America’s new Asia quagmire», GlobalResearch, 8 febbraio 2009.
2) M.K. Bhadrakumar, «Moscow, Teheran force the Us’s hand», Asia Times, 6 febbraio 2009.
3) Helene Cooper, «U.S. rejects ‘sphere of influence’ for Russia», International Herald Tribune, 7 febbraio 2009.
4) Israele sta per ricevere da Washington due nuovissimi mezzi navali, «Littoral Combat Ships», intesi per operazioni di sbarco e di infltrazione dal mare in fiumi o acque basse litorali, evidentemente concepiti contro l’Iran. I due mezzi, fabbricati di Lockheed Martin e General Dynamics, costano 500 milioni di dollari l’uno. Israele si sta facendo pagare dagli USA l’intero programma di ulteriore rafforzamento del suo settore militare, un piano quinquennale da 60 miliardi di dollari.
5) E si noti che Dick Cheney, ormai ex vicepresidente, ha dichiarato che se Obama vieta la tortura negli interrogatori dei sospetti e la sorveglianza telefonica senza limiti decretate da Bush, sarà responsabile di «un evento tipo 11 settembre che può portare alla morte di centinaia di migliaia di americani». Persino Keith Olberman, l’anchorman della NSBC, ha reagito con inaudita durezza all’indirizzo di Cheney: «Con queste condannabili affermazioni lei non protegge un solo americano, lei non difende un solo americano, e anzi aiuta coloro che vogliono distruggere la nazione, da fuori o da dentro. E’ tempo che Cheney lasci questo Paese. Se ne vada». (MSNBC, trasmissione «Countdown», 5 febbraio 2009).
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