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Il rischio dei populisti: sprecare l’occasione
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Sotto la guida di Marine Le Pen, il Front National sembra aver sfondato il soffitto di vetro che ne limitava la crescita. Nelle recenti cantonali di Brignole ha sfiorato il 40%. Che vada verso una notevole affermazione elettorale è convinzione comune in Francia, e lo conferma la decisione concertata dei grandi media (legati ovviamente ai poteri forti) di attaccare Marine: «È tempo di smontare settore per settore, tema per tema, per mostrare che niente (o poco) si regge nell’ipotetico programma del Front National», ingiungeva un recente commento di Marianne firmato Maurice Szafran (J?). Lo Huffington Post edizione francese ha fatto scendere di 9 punti Marine nel suo «barometro» dei politici. Ogni sua frase è studiata per scoprirvi motivi di demonizzazione.

Hanno ben motivo di temere. Dei due partiti istituzionali, europeisti, pro-euro e politicamente corretti, il PS è in rovina, col presidente Hollande al 15% del gradimento, un abisso storico. Ma l’UMP, ossia la galassia che ancora si definisce gollista, è forse in grado di sconfiggerlo? «Il 77% dei lettori del Figaro pensano che l’UMP non abbia un programma per governare», e il Figaro è il giornale moderato, dei potenziali elettori gollisti. Il 74% dei sondati pensa addirittura che l’UMP non farebbe meglio del PS.

Autoreferenziali, programmaticamente vuoti, fratturati all’interno, con personalità nulle o mancanti (l’UMP pensa di richiamare Sarkozy…), i due partiti maggiori soffrono palesemente della stessa patologia che in Italia colpisce il PD e il Polo di Berlusconi, di fronte ad una popolazione sempre più cosciente che l’euro e la sottomissione all’eurocrazia – che essi hanno voluto – sono la «via alla miseria ed alla schiavitù», per parafrasare Von Hayek. Il FN, al confronto, dopo una mutazione profonda, da partitello neofascista a partito «sociale», ha un programma politico, economico di alternativa alla cessione di sovranità e alla globalizzazione.

Il sociologo, storico ed economista Emmanuel Todd, nel denso volume che ha scritto con il collega Hervé Le Bras (Le mystère francais, Seuil) che è una vasta indagine sociale del territorio e di come è mutato riconosce che «il FN è divenuto, economicamente e territorialmente, il partito dei dominati, dei deboli che sono stati allontanati, per istruzione come per mestiere, dai centri urbani di potere e dei privilegi, e relegati nelle zone peri-urbane e rurali», e per certi versi copre lo spazio lasciato vuoto dal PCF (il partito comunista) e persino del cattolicesimo, se non fosse per «un vuoto religioso antico». Todd e il collega tuttavia concludono: sì, il FN conoscerà il trionfo, ma poi rischia la sparizione. Per il contraddizione tra le aspirazioni profonde delle classi popolari e il «fondo culturale d’estrema destra» del partito. (Todd et Le Bras expliquent la hausse du FN… et prévoient sa disparition !)

È un rischio insito, mi pare, nei populismi in genere, oggi in tumultuosa avanzata in Occidente, o almeno fra le classi «deboli e dominate» che sono sempre più numerose: aver dentro pulsioni di «sinistra» e di «destra», e contenerle insieme.

Come si fa? Interessante ed allarmante un sondaggio Ifop (lo stesso che ha stracciato l’UMP): il 78% dei francesi interpellati pensano che Marine Le Pen, all’Eliseo, non farebbe meglio che Hollande. (Sondage: l’UMP ou le FN ne ferait pas mieux que Hollande)

Altri sondaggi confermano che persino coloro che voteranno FN pensano che Marine Le Pen non sia «matura» per la presidenza. Com’è possibile? Qui non è più questione di indagare quali qualità mancano alla Le Pen, ma quali all’elettorato. La corruzione della politica che si auto-definisce «democrazia» (anche dopo aver consegnato la sovranità ad oligarchie sovrannazionali e incontrollabili) sembra divenuta così estrema da aver rotto ogni possibile elementare rapporto di fiducia «tra governanti e governati» che ha fatto la specifica civiltà dell’Europa, e il suo sviluppo intellettuale ed economico, in contrasto coi dispotismi arbitrari dell’Asia, dell’Oriente cinese o ottomano.

È una perdita fatale: un popolo che vuole leaders che gli restituiscano sovranità, nello stesso tempo continua a diffidare e sospettare ferocemente, massicciamente, pregiudizialmente di quei leaders. Con ciò, come già avvertì Ortega y Gasset, la massa toglie previamente ogni forza al suo capo, e lo condanna all’impotenza o alla menzogna di sopravvivenza, e peggio, a collusioni con poteri che possano sostenerlo con più costanza del suo incostante elettorato. Il che ovviamente parrà alla massa la conferma del suo cinismo: «Sono tutti eguali..».

«Un uomo politico», dice Ortega, «non è mai efficace per le sue qualità individuali, ma per l’energia sociale che la massa ha depositato in lui (...). È erroneo credere che l’entusiasmo della massa dipende dal valore degli uomini che la dirigono. È vero strettamente il contrario: il valore sociale dei dirigenti dipende dalla capacità di entusiasmo che pone in loro la massa».

Il rifiuto collettivo di «darsi» ad una impresa comune, di disciplina e di concordia, di ragionevole fiducia, da parte delle cittadinanze, è un fenomeno evidentissimo. Per Ortega è il segno tipico della decadenza, «quando una nazione si sgretola vittima dei suoi particolarismi; le masse non voglio essere masse, ciascun suo membro si crede personalità direttrice». In certe epoche «l’anima popolare pare congelarsi, si fa sordida, invidiosa, petulante»... ovviamente in «un Paese dove la massa è incapace di umiltà e adorazione per il superiore», dove «non è disposta alla umile attitudine ad ascoltare», essa selezionerà «i volgari e gli imbecilli». Per poi rigettarli. (Sto citando da Espana Invertebrada, 1922)

Ditemi voi se ciò non descrive, con quasi un secolo d’anticipo, gli attuali partiti e i loro elettorali anarchicamente rabbiosi, insubordinati e vocianti. I partiti dove non sono i capi a dirigere, ma sono diretti dalle loro masse: la direzione del PD subissata da tweets della «base» che imponeva questo o quel candidato, questa quella alleanza, pochi mesi fa’ è stato uno spettacolo triste e ridicolo. Sulle individualità «sordide, invidiose, petulanti» che imperversano nel corpo di parlamentari di Beppe Grilllo, lacerandosi fino all’impotenza, è un altro caso plateale. Naturalmente, la pochezza o nullità dei dirigenti sembra giustificare ad usura la diffidenza e l’insubordinazione delle «basi»; a patto di dimenticare che sono state le basi a dare la loro forza queste nullità, e non ad altri migliori.

È lo stesso fenomeno constatabile in provetta nella povera mente dell’ultimo Berlusconi – uomo-massa con tutti i vizi delle masse – ha scelto Alfano, poi ha detto che non ha il «quid», ed oggi dice che Alfano lo ha tradito. Ma se avesse avuto il quid, mai e poi mai avrebbe scelto Alfano come segretario e yes-man del suo cuore. Lo ha scelto precisamente perché, non avendo qualità, polso, carattere e nemmeno (di suo) un elettorato, non si sarebbe mai mostrato migliore di lui.

Ora, non ci vuole molto a capire che un progetto politico grande e duro, quale quello che la massa populista vuole da Marine Le Pen – uscita dall’euro, magari dalla UE, e lotta alla globalizzazione ultra-capitalista – richiede disciplina, costanza nella difficoltà collettiva che certo non mancherà (i poteri transnazionali la faranno pagare), spirito di sacrificio come in una guerra – e silenzio dei tweets e della chiacchiera sul web e sui media, perché sarebbe necessario prendere decisioni cruciali a sorpresa e in segreto. In Europa, solo la Francia può forse farlo, avendo gli economisti e le capacità intellettuali critiche, e come nota Todd, «una popolazione che contesta la globalizzazione». Ma qui sta il pericolo per il FN, e il rischio del suo crollo subito dopo il trionfo.

Ciò significa, per le masse insubordinate e incapaci di umiltà, restare sulla via della servitù e sotto il tallone dei poteri che sanno oppressori. Todd infatti nota che la popolazione francese sì: «contesta la globalizzazione, ma la ribellione ideologica non sbocca in alcuna rivolta seria», ossia rivoluzione.

Se sia consolante non so, ma qualcosa di simile coinvolge il populismo americano: immane crisi di sfiducia della popolazione nella Casa Bianca ma anche nel partito repubblicano, ormai in mano ai fanatici del Tea Party (in qualche modo simili ai grillini) e percepiti come folli ideologici dopo che hanno fatto rischiare al Paese la bancarotta, il governement shutdown con milioni di dipendenti pubblici senza stipendio; la rapidità con cui il populismo può cambiare leader ed orientamenti, è degna di attenzione. Per esempio: togliere il messaggio alla «destra» (Ron Paul ed i libertari estremisti, che in qualche modo egemonizzano i movimenti tipo «Occupy Wall Street») per passare alla «sinistra».

Elizabeth Warren
  Elizabeth Warren
Si introduca qui la figura della senatrice Elizabeth Warren. Interessante figura: docente di diritto fallimentare ad Harvard, eletta come democratica nel 2009, critica esplicita e incondizionata di Wall Street e della finanza, per qualche tempo ha annacquato il suo «sinistrismo» ed è sembrata volersi adeguare al Sistema: si tenga conto che il partito democratico, dalle masse insubordinate, oggi è percepito persino più pro-Establishment dei repubblicani, perché non ha al suo interno un Tea Party. Ma s’è presto accorta che al Congresso esiste una corrente «populista» di sinistra potenzialmente altrettanto forte; solo che mancava di leadership e di organizzazione; ed è saltata sull’occasione, con un crescendo di interventi contro le grandi banche d’affari, uniti – eh sì – da attacchi contro il presidente Obama, democratico. Il britannico di progressista Guardian (più precisamente il suo settimanale Observer) ha dedicato un compiaciuto servizio alla rimonta della Warren. Ne ha descritto una riunione di attivisti in una sala del Congresso, in cui «Warren comincia a narrare calma le cifre che possono trascinare anche dei bibliotecari a fare le barricate: il crack di Wall Street è costato all’economia USA 14 mila miliardi di dollari, dice, ma le grandi banche d’affari sono oggi il 30% più grosse di ieri, possiedono metà dei degli attivi bancari del paese, godono di un sussidio occulto di 83 miliardi l’anno in denaro dei contribuenti, perché sono ritenute troppo grandi per fallire. “Dobbiamo tornare a guidare questo Paese per le famiglie americane, non per le sue più grosse istituzioni finanziarie”, conclude la Warren non senza notare quanto poco ha fatto per questo il presidente Obama». (Elizabeth Warren: quiet revolutionary who could challenge Hillary Clinton in Democrats 2016 race)

Un suo seguace, David Collum (un docente di chimica alla Cornell University) dice che la propria convinta ideologia di liberismo di mercato l’ha portato dapprima ad appoggiare Ron Paul, il candidato libertario (destra repubblicana); ma adesso guarda alla Warren con simpatia «per il suo intelligente populismo che trascende gli schieramenti politici tradizionali». Damon Silvers, un altro dirigente della confederazione sindacale AFL-CIO, nota come la Warren sta recuperando l’immagine popolare dei democratici: «I tipi come Obama e Hillary Clinton, che potrebbe succedergli nella gara alla Casa Bianca, dipendono pesantemente dai contributi della finanza, hanno quindi evitato di opporsi, mentre i Repubblicani sono stati abili a sembrare gli sfidanti di Wall Street, anche se anch’essi sono totalmente comprati dalla casta speculativa».

Secondo il sindacalista, la Warren si situa in un vasto cambiamento d’umore e di campo dell’elettorato; lo stesso rivelato dalla vittoria a New York di Bill De Blasio, che con una campagna «di sinistra senza complessi» (il New York Post di Murdoch l’aveva liquidato come un comunista filo-cubano), fra la sorpresa dei commentatori più autorevoli e dei grandi media, ha preso il 73% dei voti. Nella metropoli stessa dove ha sede Wall Street ed abita il più alto numero di miliardari, De Blasio ha fatto campagna promettendo aumenti di tasse ai ricchi onde finanziare scuole pubbliche migliori, e di mettere fine agli abusi di poliziotti della Grande Mela contro i giovani di colore: i newyorkesi gli hanno dato la poltrona che era stata del miliardario, finanziere ed ebreo Bloomberg. Anche Boston ha eletto Marty Walsh, un democratico con forti striature progressiste e «sociali» (per quanto si possa in America...). Al Congresso, per il voto contro la guerra in Siria o nelle critiche laceranti allo spionaggio totale della NSA, il neo-populisti di sinistra si sono trovati dalla stessa parte dei neo-populisti «di destra» senza complessi. Le personalità come Warren e De Blasio, dice il sindacalista, «hanno successo. Stanno occupando il vuoto politico dove a vincere è l’autenticità in relazione ai temi della disparità sociale, e del potere degli interessi finanziari». Chi non appare sincero su questi, è oggi al tramonto. Al punto che non diventa impossibile, per le elezioni presidenziali del 2016, immaginare una gara dentro il partito democratico che veda la candidata-Sistema (Hillary Clinton) sfidata e forse sconfitta dalla neo-populista senatrice Warren; e specularmente, nel partito repubblicano, un Rand Paul populista (il figlio di Ron) che si oppone al tipico candidato Sistema, in questo caso il governatore Christie , il convenzionale repubblicano del New Jersey.

Come si vede, esponenti che sanno esercitare leadership, hanno audacia e senso dell’occasione (il kairos) possono, in questi momenti di crisi, cambiare molto; anche recuperare alla sinistra un movimento e delle pulsioni che si situavano a destra. Alla Warren basta riconcentrare il messaggio sul «nemico principale» per insidiare il seguito del Tea Party. Ed è questo, se vogliamo, un altro pericolo che può insidiare il Front National.

In Italia, riteniamo non ci sia alcun pericolo del genere: non c’è partito più pro-Sistema, che qui significa pro-euro e pro-eurocrazia e subalternità a Berlino, del PD. È il grigio partito dell’ordine costituito che ci sta portando a fondo. È il partito che avrebbe sostenuto un governo Monti bis e tris, e l’austerità più atroce, se Mario Monti non fosse stato così cretino di volersi guadagnare un suo seguito elettorale e si fosse accontentato di restare come fiduciario dei poteri forti, occulti e transnazionali. Un qualunque sospetto di «populismo» (ossia di realismo) nel PD suscita l’automatismo del vecchio apparato stalinista: morte ai deviazionisti e ai sabotatori interni. Lo sa Fassina, che per aver osato ammettere che «esiste una evasione di sopravvivenza» è stato censurato dalla Camusso. Lo sa Renzi, che l’apparato e la base, uniti, guardano con ringhiosa diffidenza ed odio; non aspettano che la prima occasione per sopprimerlo, intanto lo usurano – e sostengono Letta, che come Monti è un fiduciario dei poteri forti antipopolari per eccellenza, solo più intelligente.

Dall’altra parte, c’è da piangere. Un Berlusconi a fine corsa tiene (s)propositi anti-europeisti tanto per dire, perché rozzamente sente che l’aria tira da quella parte, ma sono vent’anni che ha accettato tutte le condizioni della UE e della BCE, tutte senza eccezioni: il Patto di Stabilità, l’obbligo di rientrare dal 130 al 50% del debito pubblico, a botte di mille miliardi in 20 anni; fino a Mario Monti, che Berlusconi ha sostenuto con le sue «riforme» una per una… E lo sosterrebbe ancora se un Napolitano gli potesse garantire un qualche salvacondotto personale.

Mi dicono che Gianni Alemanno adesso si vuol mettere a capo di una «nuova destra» che preconizza l’uscita dall’euro, il rifiuto del fiscal compact e chiama a questo «le masse che si sono rifugiate nel non voto». Le masse non verranno, Alemanno. Ti conoscono ed hanno visto come sei stato capace di «governare» il comune di Roma, riempiendolo di parenti ed amici stipendiati da noi contribuenti. Nella «casa» di Silvio stavi benissimo; ora che l’hai persa, improvvisi qualcosa di populista; anche tu senti l’aria che tira, ma la tua occasione l’hai già avuta. E l’hai sprecata.

Ora vedremo come la spreca Grillo, l’ultimo che di essere populista si vanta. Voti, ne raccoglie ancora. Ma vuol dire poco. Ha sacrificato tutto alla fedeltà (scema) alla sua utopia della democrazia totale e diretta via internet: non ci dev’essere leadership, è la Rete che decide programmi e candidati, da questa viene la leadership e vengono le idee. Manco s’è accorto del fatto elementare della politica: che quando un terzo dell’elettorato vota te, è te che vogliono come leader, ed è da te che si aspettano guida ed idee, mica da Crimi e Lombardi e dalle assemblea dei nulli invidiosi che si lacerano, che si credono individualità dirigenti e non sanno che litigare. Anche le nullità selezionate dalla Rete dei nulli gli chiedono di essere il leader. Lui: no, ma poi in pratica sì. Risultando, alla fine, un autoritario con paturnie momentanee ed inefficaci.

Ma questo è ancora il minor male, in confronto alla sua subalternità all’ideologo Casaleggio. Costui ha esposto la sua, di utopia, nel celebre «Prometeus – La rivoluzione dei media». La sapete. Secondo Casalé, «L’uomo è Dio» divenuto onnipotente grazie alla Rete, con la quale s’è aperta una rivoluzione politico-economica per l’umanità. Quale? Lo ha detto nell’altro video «Gaia, il futuro della politica»: dopo l’atto di adorazione alla Dea Terra, Casalé immagina un governo unico mondiale. Che si instaurerà dopo una guerra mondiale e inenarrabili massacri, che avranno lo scopo di ridurre il genere umano ad un solo miliardo di viventi, onde non turbino co i loro inquinamenti Gaia, la Madre. E quali saranno gli schieramenti in questa guerra? Casaleggio non ha dubbi: l’Occidente democratico da una parte, Russia Cina e «Medio Oriente» musulmano dalla parte opposta. Ovviamente Casaleggio sta con l’Occidente, che è la democrazia e il Bene. E che, vinti i nemici, grazie alla rete ci darà la nuova e terminale libertà: l’umanità, nel 2054, in cui a ciascuno verrà data un’identità «politica» nella Rete mondiale unificata. Chi è fuori, non sarà nessuno. Matrix, insomma.

Di grazia, in che cosa questo programma è diverso da quello delle oligarchie finanziarie internazionali? Questo è il mondialismo, il governo unico mondiale dei banchieri che i banchieri, le multinazionali tipo Monsanto e le altre, stanno realizzando: concretamente, a marce forzate, e senza bisogno di farsi aiutare da Casaleggio. L’unificazione dell’Europa oligarchica all’America nel mercato comune transatlantico è in via di realizzazione; dall’altra parte del mondo, l’America sta realizzando il partenariato transpacifico. Ed ha esattamente indicato i nemici: Russia, Cina, mondo islamico.

Con questo «populismo» italiano, il capitalismo globalista non ha niente da temere. Grillo è anti-euro, anche lui, anti-UE, anti-banche: come tutti ormai. Il punto è che la capacità, o anche solo l’intenzione, di attuare un programma del genere, è al difuori della portata sua, di Casalè, e delle nullità che ha portato in parlamento – esattamente come la secessione, e persino il federalismo, erano al disopra delle capacità di Bossi che li minacciava nelle osterie (un altro populismo sprecato)…

Per di più, invece di mantenere concentrato il fuoco politico sul «nemico principale», Grillo si sperde in cose come: votare decadenza di Berlusconi, votare la sfiducia alla Cancellieri, «Vendola si dimetta» (per l’Ilva), no all’inceneritore.... E in più, premuto da dietro dalla marea di «petulanti e invidiosi» che interloquiscono in Rete e dicono la loro, ciascuno credendosi «personalità direttrice» e dunque non disposta alla «umile attitudine ad ascoltare», e non parliamo di obbedire a un progetto, con disciplina, in silenzio e costanza. Una volta si diceva, fra gli insegnamenti ascetici, a coltivare il silenzio, perché «un uomo che chiacchiera perde forza dalla bocca». Che fare quando un popolo perde forza, polso, carattere e dignità a forza di tweet? Poi diremo che non avevamo leaders «all’altezza», e avremo persino ragione. Ma un giorno dovremo porre la domanda a noi stessi, come popolo. Siamo all’altezza, ormai?

Rischiamo di non capire nemmeno il senso della domanda. Dunque sarà utile rifarsi a Schumpeter (citato da Todd): «Il capitalismo», scrisse, «vive perfettamente in quanto sistema economico, ma è dipendente, per il suo inserimento e la sua sopravvivenza sociale e politica, dagli ‘strati protettivi’, insieme di costumi e di valori venuti dall’età feudale» – ossia, diciamo la parola, dalla Cristianità: onestà e decenza, pudore, senso dell’onore, coraggio, fedeltà ad una gerarchia e fiducia in essa, abnegazione, sacrificio. Il capitalismo terminale, per far trionfare la società dei consumi (ossia dell’indebitamento dei singoli senza risparmio) ha letteralmente «consumato» tutti questi valori: come ostacoli all’economia liberista e antiquati flatus vocis che non entrano nella contabilità, dunque non esistono, sono illusioni «spiritualiste».

Ora, senza più «strati protettivi», esso impazza, è diventato un mostro, e divora uomini e popoli trascinandoli nella schiavitù al suo profitto, comunque guadagnato, e nella sua corruzione della politica e della sovranità. La parte di umanità occidentale che i poteri forti bollano come «populista» avverte questa mostruosità e se ne vuole liberare. Ma è da chiedersi se, spogliata dei valori dell’età feudale alias fede cristiana (1), sia ancora in grado di lottare.

Per questo, non per modo di dire, mi pare he la sola cosa che può ancora salvarci, come popolo e nazione, è il Rosario. Un Rosario perpetuo, come quello con cui 500 mila austriaci, recitandolo giorno e notte, negli anni ’50 fecero cessare l’occupazione dell’Armata Rossa. Forse è questo il solo programma populista urgente.





1) L’ex arcivescovo di Canterbury, Lord Carey ha lanciato l’allarme: «La Chiesa anglicana è ad una generazione dall’estinzione», ha detto, cogliendo appunto il male di vivere che viene dalla privazione degli «starti protettivi» del cristianesimo: «C’è tanta violenza, tante famiglie divise, pochissima sicurezza del lavoro, troppi giovani che non hanno scopo nella vita». (Church of England 'will be extinct in one generation', warns ex-archbishop)


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