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Lettore, etiam de te fabula narratur
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Resto stupito del furente equivoco in cui alcuni miei lettori sono caduti a proposito del mio articolo precedente. Vi hanno letto un attacco odioso a Gheddafi, altri un attacco immotivato a Berlusconi, uno scoppio di rabbia di pancia, un parteggiare per questo o per quello, contro questo o contro quello...

Provo vergogna per questa parte di lettori, dopo tanti anni che mi legge, e che non ha inteso il tema dell’articolo.

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Il tema era il seguente: la cecità di ogni uomo di potere davanti alla propria mortalità. E lo sbalordimenti che prova negli istanti della sua caduta, quando si scopre un fragile essere umano, una carne dolente, un nulla davanti alla Mietitrice.

Riprovo a spiegarmi. L’uomo di potere, specie se ha un potere assoluto che dura decenni, si abitua ad una condizione privilegiata e assolutamente insolita. Ogni sua volontà, ogni suo desiderio, viene esaudito all’istante. Ad un suo cenno, è pronta una lussuosa auto di servizio, con l’autista in livrea che lo aspetta; ha già i motori accesi un elicottero o un aereo che lo porta dove vuole. Capi di governi stranieri lo trattano da pari. Ambasciatori gli rendono omaggio. Rettori di università gli tributano lauree honoris causa. I ministri gli obbediscono, gli adulatori lo adulano, i faccendieri lo corteggiano. I giornali parlano continuamente di lui. Adoranti seguaci lo applaudono qualunque cosa dica, e ridono alle sue barzellette sconce e stantie. Se lo ordina, si muovono corpi d’armata. Ha al suo servizio camerieri, e cuochi che gli preparano in due minuti esattamente i piatti che vuole lui. Un maggiordomo gli veste la giacca perfettamente stirata, lo aiuta ad allacciarsi le scarpe; basta che schiocchi le dita, e si stendono sul suo letto bellissime puttane di lusso.

Tutto ciò ovviamente, con gli anni, distorce il suo senso della realtà, lo allontana e lo separa dalla condizione della società e dalle preoccupazioni del popolo che l’ha messo al potere, gli fa credere che può risolvere ogni problema con lo schiocco delle dita. Ma non è solo questo: specie se è di anima bassa (ed oggi, tutti gli uomini di potere lo sono) attribuisce a se stesso, a qualche sua qualità personale, quella quasi-onnipotenza che invece appartiene ai meccanismi dello Stato, alle sue potenti protesi di esercizio della forza.

Col tempo, nel tempo, si autoconvince di incarnare lui, nella sua mirabile personalità superiore, lo stato (« LEtat cest moi», di Luigi XIV). Tratta lo Stato come sua proprietà privata, perennemente al servizio suo e dei suoi figli. Coltiva di sè un’immagine grandiosa, una enorme autosoddisfazione, la convinzione suprema di non sbagliare mai, di essere un dio; e devo qui citare ancora il Re Sole, esempio ridicolo e primario di assolutismo: «Come mai Dio non mi aiuta, dopo tutto quello che ho fatto per lui?». In breve, si comporta come un bambino viziato di tre anni che, troppo vezzeggiato e protetto dai genitori, non s’è ancora scontrato con quel che Freud chiamava il «principio di realtà», ed è stato risparmiato dalle sue dure leggi. Temporaneamente però.

Solo al momento dell’inevitabile caduta scopre – senza alcun preavviso – di essere quel che realmente è: un essere umano, ossia un nulla nella macina tremenda della storia, un brandello di carne nelle fauci sanguinose del cannibale chiamato masse politicizzate, un essere votato all’impotenza davanti alla morte, come tutti noi.

La fatua osservazione di Berlusconi sulla morte di Gheddafi ha rivelato che anche lui è caduto nell’equivoco di credersi al riparo dalla realtà politica, che nel suo fondo (come insegnò Gianfranco Miglio) è assetata di sangue, del sangue di chi sbaglia.

Tutto qui. So che alcuni lettori molto, molto cristiani, si stupiscono che io qui non parli abbastanza di Cristo, che non abbia sempre sulla punta della penna Dio: non si accorgono che quasi tutto quello che scrivo è una meditazione cristiana. Economia, politica, potere e guerre di aggressione, le giudico tutte tenendo ben presente il detto: « Ave Crux, spes unica». Per il nulla che siamo, per le briciole agitate (e spesso agite da poteri che non possediamo, da opinioni che ci sono state instillate) che siamo, la Croce è non solo l’esito inevitabile delle nostre brevi vite, ma anche la sola speranza: e ciò è un salutare esercizio per tenersi attaccati al reale, e sapere che non fa sconti.

Quando ho visto faccia insanguinata di Gheddafi malmenato, ho visto la mia stessa faccia quando mi hanno annunciato: lei ha un cancro, lei ha l’aorta occlusa... Anch’io sbalordito, agghiacciato di non essere immortale, sulle prime; ma poi memore della faccia di Cristo insanguinata sulla croce, raggrumati i capelli, gli occhi divorati dalle mosche, e che grida « Padre, perchè mi abbandoni?».
Sì, Tu sei passato per primo, sei risorto, ci hai aperto la via della resurrezione; Tu ci hai mostrato che la malattia mortale è la vera medicina, che il supplizio capitale è la autentica speranza. Sia fatta la Tua volontà.



Ora, pensavo che questa parte di miei lettori, che non ha alcun potere, nè maggiordomi, nè piloti ai loro ordini, non avesse difficoltà a comprendere il senso del mio discorso. Invece no: ecco che si dividono in pro-gheddafiani, in pro-berlusconiani, e che mi accusano di essere anti-gheddafiano, anti-berlusconiano, di avere rabbie di pancia... sono loro che vivono di pancia.

Sono stupefatto di quanto siano attaccati a questa « aiuola che ci fa tanto feroci». Vogliono vincere; e per vincere in modo immaginario – non hanno alcun potere – si preoccupano anzitutto che il Blondet non dica la verità su Gheddafi (o su Berlusconi). Vogliono reprimere, censurare, come fossero dittatori anche loro.

Ma che credono, che uno a cui è stato diagnosticato il microcitoma polmonare non cerchi di dire la verità, solo la verità? Che li voglia ingannare, ingannare le masse e le folle immaginarie che immaginariamente mi leggono?

Allora lo devo dire esplicitamente, a questa parte di cari lettori: anche di loro fabula narratur. Riacquistino la chiara coscienza di essere quaggiù per poco, di essere briciole, e allora capiranno una o due cose essenziali della politica e del potere.

Una è questa: denunciare come criminale l’aggressione della Libia da parte della NATO, e tributare onore ai militari libici che hanno ben combattutto a difesa del regime contro forze schiaccianti occidentali, non comporta necessariamente l’obbligo di adorare il defunto colonnello come un dio, infallibile ed amato.

Abbiamo visto le folle di Tripoli che lo inneggiavano? D’accordo. Quando uno è al potere da decenni, si forma sempre una massa sociale che gli è favorevole, che ha avuto da lui benefici, che approva le sue opere pubbliche; e inevitabilmente c’è un’altra parte che lo detesta, che è stata danneggiata, che è stata repressa e perseguitata. Gheddafi ha represso violentemente la minoranza berbera, ha inviato squadre all’estero per assassinare dissidenti politici fuoriusciti, ha soppresso nel sangue un ammutinamento militare del suo esercito a Tobruk nel 1980, nonchè l’opposzione ad una impopolarissima guerra che scatenò in Ciad.

Insomma si è fatto dei nemici interni. È la cosa più frequente che si vede nella storia, con regimi autocratici che durano troppo. Non c’è nulla di strano e di inedito. Negarlo, sostenere che Gheddafi era amato totalitariamente dalla totalità, significa perdere volontariamente il senso della realtà.

Magari i ribelli erano una minoranza? Una minoranza così esigua che non avrebbero potuto far nulla contro il Rais, senza il possente sostegno della NATO? Dato e non concesso, resta da spiegare come mai il dittatore libico abbia potuto essere aggredito senza che nessun capo di Paese islamico alzasse la voce nelle sedi internazionali. Il fatto è che Gheddafi, con la sua politica, s’era reso inviso a tutti i regimi circonvicini, dal Marocco al popoloso Egitto, dall’Arabia Saudita al Sudan, dal regime algerino alla Tunisia, dagli sciiti fino a tutti i membri dell’OPEC. E tutti hanno avuto buone ragioni per tirare un sospiro di sollievo alla sua caduta.

In politica, non si cade mai per colpa del nemico e delle sue forze preponderanti; si cade sempre per un proprio errore fatale, che per lo più si configura come un atto di stupidità. In questo senso Talleyrand diceva di certi atti di governo: «Cest pire qun crime, cest une betise», ossia «È peggio di un crimine, è una scemenza». Perchè in politica la betise, la scemenza, è più dannosa dei delitti, e quando l’autocrate è sconfitto, tutte le sue scemenze gli sono imputate a crimini dai vincitori. Questo vale per Napoleone, per Hitler, figurarsi per Gheddafi.

Qual è stata la sua scemenza fatale?

L’amico Paolo Sensini, che ha scritto un libro ben informato a favore del regime libico aggredito (Libia 2011, Jaca Book) tace un po’ troppo su questo punto. Ci sono stati lunghi anni in cui Gheddafi ha operato per un sogno megalomane e narcisistico: creare l’unità di tutti i popoli arabi « da Marrakesh al Bahrein», o una «Federazione di repubbliche arabe», o una «Unione Araba Socialista», segnatamente con l’Egitto (80 milioni di abitanti) di cui naturalmente pensava se stesso (a capo di un popolo di 7 milioni di arretrati libici) il genio e la guida suprema.

Nel ‘71 offrì di fondere la Libia con il Sudan; ma poi si arrabbiò quando il capo sudanese Nimeiry lasciò cadere la proposta accordandosi invece con la minoranza cristiana sudanese; e allora organizzò una Legione Islamica paramilitare che mandò ad attizzare l’odio tribale-religioso nella vasta area africana dal Sudan al Ciad, e a intromettersi nelle questioni di Siria e di Libano.

Nel ‘72, ci riprovò con l’Egitto, e convinse (petrodollari aiutando) l’egiziano Anwar Sadat ad una parziale unione con la Libia. Ma Gheddafi voleva fondere la Libia con l’Egitto, assegnando a se stesso la posizione di ministro della Difesa della nuova entità. Quando Sadat prese tempo e infine rifiutò, il colonnello se la prese, e operò tante provocazioni, da rovinare i rapporto col Cairo. Anzi nel ‘77 scatenò la breve guerra, inviando oltre il confine egiziano le proprie forze armate, che furono ovviamente ricacciate indietro dall’armata egiziana in poche ore. Nell’81, quando Sadat fu ucciso nel tragico attentato degli islamisti che lo accusavano di aver fatto pace con Israele, Gheddafi dichiarò il giorno del delitto festa nazionale in Libia.

Nel 1974, Gheddafi ci riprova con la Tunisia, offrendo al capo Burghiba la solita fusione con la vasta ma spopolata Libia (assai impopolare in Tunisia) e offendendosi a morte dopo il rifiuto. Un altro trattato con il re del Marocco Hassan II, Gheddafi lo ruppe quando il re ricevette l’israeliano Shimon Peres; e quando Gheddafi rompe i trattati, il Paese-bersaglio deve aspettarsi vendette, ritorsioni e colpi bassi.

Nel 1978, fa sparire il rispettato imam sciita palestinese Musa al-Sadr, in visita in Libia, perchè non ne approva gli intenti di pacificazione del Libano, guadagnandosi l’odio inestinguibile di Hezbollah. Nel 1975, fu con il sostegno di Gheddafi che il terrorista Carlos e la sua banda presero ostaggi molti ministri di Paesi dell’OPEC a Vienna. Figurarsi con quanta gioia dei sauditi, il cui re sostiene che Gheddafi ha recentemente attentato alla sua vita. Quando l’OLP aderì alle trattative con Israele, Gheddafi espulse 30 mila palestiensi a cui aveva dato asilo in Libia, del tutto incolpevoli.

Il mio giudizio resta dunque questo: Gheddafi era un megalomane, che per di più – deluso dal suo sogno delirante di aver tutti i Paesi arabi fusi col suo sotto la sua guida – ha condotto una politica da losco ambiguo mascalzone, operando fra l’altro come sabotatore della Lega Araba.

Nel 2003 (ho già raccontato questa storia) quando Saddam Hussein era pronto a trattare le proprie dimissioni con la mediazione araba e di elementi europei – rendendo così impossibile a Bush jr. l’aggressione dell’Iraq – fu Gheddafi a mandare a monte il progetto. E lo fece, credo, non per ingraziarsi gli americani – e ottenendo da loro contropartite, come avrebbe fatto un politico cinico ma abile – bensì per invidia e odio personale contro tutti questi capi islamici che non gli volevano obbedire.

Ciò non toglie che, quando alla fine degli anni ‘90 volle tornare all’onore del mondo (occidentale) egli collaborò con la CIA e i servizi britannici, che gli mandavano in Libia dei terroristi veri o presunti da torturare, nell’ambito del programma di extraordinary renditions.

È per questo che Gheddafi ha fatto del suo Paese una preda ricca e indifesa, senza uno straccio di alleato, a parte lo Zimbabwe, il Mali e il Niger, il cui peso sulla scena internazionale è meno che zero. Forse per questo da ultimo firmò il trattato di pace eterna e di alleanza militare con l’Italia: Paese celebre nella storia per la fermezza nelle sue alleanze.

Che altro?

Il suo megalomane progetto di palingenesi sociale, la Jamahiryya, è fallito. Per ammissione dello stesso Paolo Sensini, « lutopia del colonnello non è riuscita a incarnarsi in una credibile, autentica e originale alternativa di sistema», finendo invece per costituirsi come «clientelismo, burocrazia ipertrofica e un patto sociale basato sulla distribuzione» dell’introito petrolifero. Il che non significa che sempre più libici lo rimpiangeranno.

A spiegarlo, basta una nota che pone a pagine 59 del suo agile saggio: il 75% dei libici era impiegato nel settore pubblico. Il petrolio lo permetteva. Ora, il settore pubblico non esiste più, tramutato in un cumulo di macerie dalle bombe liberatrici; gli stipendi della maggior parte della popolazione adulta non vengono più pagati da mesi, e non lo saranno fino a quando la produzione petrolifera potrà riprendere.

La data è incerta. Certa è invece la guerra civile che sta per scoppiare fra le tribù cirenaiche, che vogliono tenersi tutto il petrolio, e le tripolitane, i misrati, i warfalla, i berberi, i tuareg... tutti fornitisi di armi dai depositi spaccati dell’esercito libico. Certo è che quel popolo non avrà più la stessa qualità di vita di prima, istruzione e sanità gratis, acqua potabile in casa, la gratifica statale che il Rais donava a ogni coppia di nuovi sposi... Certo, è un crimine enorme quello che ha commesso la NATO, e speriamo che un giorno ne dovrà rispondere.

Ma le « betises» di Gheddafi gliel’hanno permesso.



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