|
|
|
|
«Gli ordigni pronti ad esplodere che abbiamo in casa»
27 Maggio 2013
Il lettore Antonio M. A. mi invia la seguente lettera. È così sicuro della sua pubblicazione, da averle apposto persino il titolo: è quello che di buon grado adotto, e che avete potuto leggere sopra. Ecco la lettera:
Caro Direttore,
Tenuta in debita considerazione quanto da Lei riportato nel Suo articolo “Lo chiamano Amok”, non è altresì maggiormente rilevante la complicità di certi epigoni dell’integrazione senza discernimento?
Ricordo meravigliosi fiumi d’inchiostro, sgorgati dalla Sua penna, allorché magnificava l’integrazione romana, quella tesa a “fare qualcosa di grande insieme”; la stessa che, con Diocleziano, estese la cittadinanza a tutto l’Impero - che di lì a poco sarebbe “morto” e dalle cui ceneri risorto nella e con la Chiesa, continuatrice di quel modello poco meno che perfetto. A tal proposito Le domando se tale estensione non fosse in qualche modo obbligata, indice di una debolezza di un sistema che non riusciva oramai a far più fronte alle pressioni barbare, dato anche che il declino era oramai in atto da tempo ed il collasso imminente.
Quale che sia la verità, comunque, è sin troppo evidente che lo “spirito comunitario” odierno si muova su tutt’altri binari. È bene osservare che questa moltitudine delle più disparate etnie sono state letteralmente invitate da certi maître à penser post-illuministici, che le hanno accolte e ci hanno costretto ad accoglierle come detentrici di diritti prima di ogni altra cosa. La maggior parte di queste persone, che siano nigeriani, slavi o che provengano dal Bangladesh, è nella migliore delle ipotesi avulsa dal processo che si è consumato in Europa negli ultimi tre secoli. Arrivano qui senza conoscere non semplicemente la storia dei Paesi o dei popoli che, con scarsa convinzione peraltro, li ospitano, ma senza proprio avere idea di cosa sia la Storia.
Calati in un contesto radicalmente alieno come il nostro, non è anche solo concepibile chiedere loro di comprendere quale possa essere il loro posto in quel pianeta sul quale sono atterrati. Senza alcun manuale d’istruzioni, senza alcuna vaga indicazione di carattere generale (se non burocratica, proprio perché non se ne può fare a meno), viene detto a questa torma di gente di “fare come hanno sempre fatto”, senza curarsi di quelli che li osteggiano solo perché “extracomunitari” (sic).
Insomma, non vengono messi a conoscenza di una delle fondamentali acquisizioni della Civiltà, ossia che ad una serie di diritti corrisponda una serie di doveri. No, viene loro infarcita la testa di uguaglianza e di quello che il luogo su cui sono approdati deve a loro e non viceversa. Questi, da ignoranti del processo che ha condotto alla formazione dell’ordine (un tempo) civile, imparano che tutto gli è dovuto, che niente può e deve frapporsi fra loro e la soddisfazione dei propri bisogni/desideri. Realizzazione, se così possiamo definirla, che passa attraverso aspirazioni oggettivamente misere, perché al selvaggio non è stato insegnato quali ambizioni sono degne di essere coltivate.
Cosa avviene dunque? Ignari anche fosse del più macroscopico passaggio che ci ha condotto dove siamo ora, se qualcosa non va come a loro è stato caldamente consigliato di pretendere, approntano le misure che conoscono. Non intendo banalizzare il discorso facendone una questione di etnia, ma è evidente che ci sono popolazioni più o meno violente a seconda che tale soluzione sia ampiamente praticata/tollerata/promossa nelle zone da cui provengono. Ed allora succede questo: che il ghanese (per restare a Niguarda) si rende conto che il Paese dei Balocchi non è quello che li avevano descritto.
Incalzato dalla pubblicità, dal vestito di marca, dall’ultimo smartphone, dal SUV mastodontico, dai ristoranti raffinati, dai locali lussuosi, insomma, da tutte quelle cose che sa di non potere mai avere, letteralmente, impazzisce. Questo contribuisce a quell’assenso, drammaticamente umano, che certi personaggi danno a quella che lei, a dire di alcuni anacronisticamente, definisce possessione: la Chiesa era l’unica a sapere che l’uomo va tutelato anzitutto da sé stesso, perché naturalmente inclinato al Male, checché ne dicano Voltaire, Rousseau ed aborti intellettuali di siffatta risma.
Tornando alla condizione dello straniero senza Cultura che sbarca nel Vecchio mondo, ritengo ci si possa benissimo collegare alla nostra di situazione, a quella di coloro che sono nati e cresciuti nei rispettivi paesi europei di appartenenza. Ci vede a noi, caro Maurizio, arginare la minaccia barbara come coloro che erano a Maratona, o a Salamina o a Lepanto o non so dov’altro?
Tale provocazione infligge un colpo durissimo ai sostenitori del multiculturalismo coatto, dell’integrazione senza discernimento. Perché viene ancora una volta chiarito che il momento essenziale di ogni uomo, cattivo dalla nascita, è la Cultura. Un uomo, qualsiasi uomo, abbandonato a sé stesso è semplicemente un animale, il peggiore degli animali. Il più pericoloso, il più infimo, il più grottesco. Una bestia che non ha termini di paragone con tutte le altre specie, passate e presenti, perché essenzialmente dotato di auto-coscienza.
Anche noi, rifiutando non tanto la «nostra» storia, bensì la Storia, stiamo regredendo a quel feroce «stato di natura» al quale ci hanno costretto i cosiddetti lumi. Se noi non usciamo da casa con un machete in mano, ad affettare il primo che ci passa davanti, è solo perché stazioniamo in una fase intermedia che è più vigliaccheria che altro (...).
Lo evidenzia lei stesso, Direttore, con i suoi costanti e puntuali approfondimenti. Ma ad essere onesti, in tal senso non si sottraggono i TG e i giornali, che ogni giorno riportano notizie inerenti a un assassinio efferato o ad una strage condotta in qualche parte più o meno isolata della Penisola o del Continente. La verità, temo, è che siamo delle bombe ad orologeria pronte ad esplodere da un momento all’altro. Non c’è modo di sapere con inequivocabile esattezza quando avverrà il botto, ma la carica oramai è bella che piazzata ed il detonatore è in mano alle persone sbagliate.
A “confortarci” in tal senso sono gli innumerevoli episodi di omicidi in famiglia, o tra fidanzati, amici, colleghi, vicini di casa, giusto per citare i casi più eclatanti. Tutte cose che sono sempre esistite, senz’altro, ma che Dio solo sa da quanto tempo non si ripetevano con così reiterata frequenza. E mi domando, senza falsi intenti millenaristici, con tutta la freddezza di cui sono capace, quanto corretto sia auspicare l’avvento di quel «Punto 0» da cui tutto possa ripartire. Anche grazie a Lei, Maurizio, sappiamo quanto sia deleterio, o se non altro inutile, bramare l’approssimarsi del Mysterium iniquitatis, che non ha certo bisogno di noi per manifestarsi. Il punto è che talvolta si cede alla tentazione di sentirsi come quei russi che descrive Solženicyn in Arcipelago Gulag; quelli che avvertivano talmente logorante l’attesa di essere incriminati dal Partito, che quando si trovavano davanti la Čeka tiravano un sospiro di sollievo e si facevano accompagnare alla prigione di buon grado.
Con affetto
Antonio M. A.
Mentre meditavo se rispondere a questa lettera un tantinello verbosa, che ovviamente prendeva le mosse dai delitti «amok» di immigrati africani a Milano, Londra, Stoccolma e Parigi per negare – se ben capisco – di concedere a gente simile la cittadinanza, ecco che interviene il fatterello di Corigliano Calabro, dove un sedicenne ha pugnalato la fidanzatina quindicenne, poi è andato a casa a prendere della benzina, e l’ha bruciata: «Era ancora viva quando le ho dato fuoco», ha detto. Le amiche della morta, Fabiana di nome (un nome che non sentirà mai più), hanno raccontato che il bel giovinetto calabro era venuto a prendere la sua fanciulla a scuola, imperiosamente chiedendole un rapporto sessuale; che lei ha cercato di evitarlo; ma poi alla fine era salita sul motorino di lui. Che l’aveva portata in quella strada poderale, adatto alla sua premeditata volontà di ammazzarla.
Fabiana Luzzi
|
Come vede, cade proprio a pennello il titolo che lei ha suggerito, caro lettore: «Gli ordigni pronti ad esplodere che abbiamo in casa». Solo che non sono i negri, ma i nostri figli e nipoti, bianchi, italiani di cittadinanza per «ius sanguinis». Del nigeriano accoltellatore a Londra ha parlato la stampa internazionale; del sedicenne assassino calabrese, no: tanto per far notare la diversa percezione che accoglie fatti entrambi gravissimi. Eppure il secondo dovrebbe allarmare ancora di più, perché mostra come gli «extracomunitari», gli estranei ai valori della nostra civiltà, non solo li riceviamo dal terzo mondo, ma li generiamo noi. Li generiamo, li alleviamo, li coccoliamo: sono il risultato della nostra educazione, se vogliamo chiamarla così. Pronti ad esplodere, ordigni che abbiamo in casa. Sono numerosi i delitti dei sedicenni, e tutti «a sfondo sessuale», come dicono i vecchi cronisti di nera. In provincia di Novara, otto minorenni sono incriminati per aver indotto al suicidio una compagnuzza 14enne, e per il possesso di «materiale pedo-pornografico», ossia video-porno della medesima 14enne, che s’era lasciata riprendere da loro in una orgetta a cui aveva partecipato consenziente, per poi vergognarsi quando stata divulgata malignamente sul web. E le foto che la ragazzina ha fatto a se stessa sul telefonino, rese pubbliche dai tg per impietosirci sulla sua sorte, sono fin troppo eloquenti: la ragazzina si proponeva ed atteggiava da divetta del porno, con un narcisismo che avrei dei dubbi a dire innocente.
La 14enne Carolina Picchio
|
Fatti del genere sono frequenti. Mesi fa, nel novembre 2012, un quindicenne s’è impiccato a Roma perché i compagni di scuola avevano diffuso su facebook una foto di lui mascherato da donna, e scritte sui suoi pantaloni rosa: «frocio», scherni e derisioni. Interessante la dichiarazione della madre del piccolo suicida, che ha voluto indire persino una conferenza stampa e contava di difenderlo così: «L’identità sessuale di Andrea: da tempo era innamorato di una sua coetanea. Se fosse stato omosessuale non avrebbe avuto remore a dirmelo, io e mio marito abbiamo educato i nostri figli alla libertà e rispetto». Strano. Questa educazione sessuale di larghe vedute, mai repressiva; questi genitori che non controllano più se i loro figlio e figlie tredicenni commettono «atti impuri» perché ciò è cattolico e quindi sorpassato e se sì, sono pronti a comprendere ed aiutare: questa educazione doveva, secondo la pedagogia illuminista che la promuove, portare ad un più avanzato stadio di «liberazione», alla sessualità vissuta senza angosce né sensi di colpa «cattolici»: invece ha trasformato le nostre scuole medie e superiori in Cajenne, in Gulag dominati da piccoli kapò lubrichi e malvagi (i «bulli»), che tengono in schiavitù fanciulline ridotte a puttanelle, e terrorizzano ragazzini di sesso ancora incerto. Ragazzine che magari cominciano col fotografarsi sull’Iphone la loro passerina, perché «qualcuno» compra l’immagine in cambio di una ricarica da 10 euro sul medesimo iPhone; e che compiono «fellationes» sui loro coetanei, altrimenti vengono isolate e «non si fanno il fidanzato» e sono derise; e poi finiscono per gettarsi dal balcone quando le loro porno-immagini diventano di dominio pubblico nella scuola. Che «liberazione» è? Questo è dominio dell’uomo sull’uomo, servaggio sessuale (la schiavitù più umiliante, che sodomizza l’io) esercitato nelle scuole pubbliche sotto gli occhi dei pedagoghi, anime ancora informi sottoposte alla catena di angoscia, vergogna e dolori insopportabili da personalità deboli e incomplete, disprezzo nullificante dell’altro usato come strumento puro di momentaneo piacere, intercambiabile e disponibile (e carbonizzabile se si ribella). Esattamente l’esito previsto dalla morale antiquata. Che sapeva che il sesso non è una facile fonte di piacere pacificante («Fate l’amore non la guerra»), ma una forza oscura e temibile, una catena esistenziale; un mostro da tenere a freno se si vuol essere uomini e donne liberi. Insegnava, l’antica morale, che la sessualità andava repressa nei troppo giovani ed immaturi; e che la civiltà stessa, per non parlare dei vertici dell’eroismo, dell’abnegazione e della spiritualità, si costruiscono sulla sublimazione del sesso, sulla capacità di negarsene la soddisfazione immediata; che nelle società aduse a soddisfare il sesso immediatamente, la civiltà si affloscia e decade. E che questa capacità di sublimazione si può, si deve, sviluppare con l’educazione. Invece, la sempre maggior frequenza di questi delitti e suicidi a sfondo sessuale, non induce affatto a mettere in discussione il problema educativo. Al contrario, si sceglie la chiacchiera sul «femminicidio» e si proclamano leggi contro «l’omofobia»: tutti comodi alibi per non cambiare strada, per mantenere l’illuminismo devastatore egemone e il progressismo ideologico che non sa più trasmettere il progresso. L’educazione permissiva, rafforzata dall’ossessiva ed onnipresente propaganda anti-repressiva, di fatto hanno reso impossibile trasmettere ai figli i valori e le conquiste della civiltà occidentale, e persino i modi del vivere sociale decente. E ben presto, questi nostri figli ci ammazzeranno per strada con l’accetta – come i due negri di Londra – per prenderci i soldi o il telefonino. Crede che esageri? Attualmente, circolano fra noi 3 milioni di giovani italiani che «né studiano né lavorano»: come volete che si guadagneranno la vita, e i lussi consumistici cui li abbiamo abituati? Sono tre milioni di «negri» con cittadinanza, ma potenziali imitatori del ghanese che a Milano ha ucciso tre milanesi col piccone. Quanto poi al suddetto ghanese pluriomicida, lui è l’esecutore; ma i mandanti sono impuniti e restano non identificati. Il matto clandestino era stato notato da mesi, per il suo atteggiamento minaccioso, da agenti di polizia: ma gli agenti non hanno mai potuto farlo espellere, perché il violento disturbato aveva «chiesto asilo politico». Ora, non era certo stato lui ad avere l’idea, e nemmeno sapeva che la richiesta di asilo politico ferma, da noi, l’espulsione. L’idea gli è stata suggerita da qualche assistente sociale, «operatore pubblico», insomma da qualcuna di quelle centrali sorte col denaro pubblico «per l’integrazione dei clandestini»: dove operano, pagati da tutti noi, dei fanatici ideologici (di cui la Boldrini è un esemplare di vertice) che vogliono «tutti gli immigrati qui», pensando con ciò di vendicarsi di Bossi, di Maroni, di Berlusconi e di tutti gli elettori di destra che sono «contro la cittadinanza agli immigrati». Insomma, hanno insegnato al ghanese il trucco di chiedere l’asilo politico, come parte della loro guerra civile che conducono contro altri italiani. La domanda d’asilo era palesemente infondata, non risultando il Ghana un Paese da cui fuggire persecuzioni; ma i furbi «operatori sociali» italioti militanti l’hanno consigliata al pazzo, sapendo che la magistratura italiana – con le sue lungaggini – avrebbe fatto il resto: «Fai la domanda e starai qui quanto vuoi». Mentre i giudici, con comodo, studiano la fondatezza della richiesta. I morti milanesi sono stati uccisi dagli assistenti sociali che non è stato possibile identificare, perché lavorano «per l’integrazione» e dunque, sono sacri e guai a criticarli. Più generalmente, sono morti per la irresponsabilità con cui l’intero settore pubblico sgoverna l’Italia, celandosi sotto normative e procedure per esprimere la sua inimicizia verso la parte degli italiani che non sono loro. Tipiche le leggi sugli immigrati extracomunitari. Si legga il fatto che un lettore mi ha riferito: «Ieri ero a cena con un mio amico assessore in uno dei comuni della provincia di Brescia. Mi ha raccontato alcune cose per cui ci sarebbe da chiedere che il ministero dell’integrazione almeno cambiasse nome, potrebbe essere più corretto “ministero della presa per il culo”. Alcuni esempi, consuetudine tra extracomunitari, vengono a trovare i familiari con il solo biglietto di andata. Poi si presentano al comune e chiedono che gli venga acquistato il biglietto di ritorno. Naturalmente il comune deve farlo perchè altrimenti si trova un altro da assistere con i servizi sociali. Spesa extra del 2012 per contributi imposti dai tribunali a carico dei comuni: 300.000 euro. Per quel comune corrisponde alla possibilità di dare 200 euro al mese ad ogni italiano titolare di pensione sociale. Altro esempio: madre clandestina maltratta i figli: il tribunale dei minori dispone (spesa ovviamente a carico del comune) l’affido in comunità per i tre figli, costo 90.000 euro l’anno. Ultima perla, un comune limitrofo, governato dalla sinistra trova casa a quelli assistiti dai servizi sociali in altro comune governato dal centrodestra, paga le prime rate d’affitto, poi cambia la residenza e così li passa in carica all’altro comune. Complimenti per la furbizia. Ma soprattutto complimenti a quelli che ancora continuano a sostenere questo sistema». Capito? I pensionati minimi italiani potrebbero ricevere 200 euro in più ogni mese , ma quei soldi sono rubati da extracomunitari furbi. Perché furbi sono, e le nostre leggi – queste leggi sociali e umanitarie con cui ci siamo legati e imprigionati da soli – le conoscono bene. Anche perché imbeccati dagli «operatori sociali» addetti alla cura degli «immigrati». Mica occorre essere extracomunitari per approfittare: una mia donna delle pulizie romena, a Viterbo, faceva venire in Italia la vecchia mamma e sùbito la portava al pronto soccorso, dove «per legge» il Servizio Sanitario Nazionale le offriva gratis un intero check-up medico che a Bucarest sarebbe costato un migliaio di euro: per legge, perché guai a «discriminare gli immigrati». E cose del genere avvengono dovunque la sinistra impone la sua volontà integrazionista (più precisamente: per far dispetto a Bossi, agli elettori di destra): a Milano, il sindaco Pisapia ha dato 8 mila euro dei cittadini milanesi ad ogni famiglia rom (con quei soldi, 40 famiglie si sono comprati una cascina) traendo i soldi da un bilancio in rosso per 400 milioni. E adesso, noi non abbiamo di meglio che dividerci: jus sanguinis o jus solis? La solita falsa alternativa. Da ideologue ridotte ai minimi termini intellettuali. Non supponga in me, caro lettore, un favorevole allo «jus solis» in quanto ho esaltato la capacità integratrice di Roma come modello ed esempio. Come lei mi ripete, Roma fu sì «un grande processo di incorporazione» (così Mommsen) durato secoli; ma l’estensione della cittadinanza richiede «la chiamata di genti diverse a fare qualcosa di grande insieme» e all’Italia manca appunto questo: la volontà di fare «qualcosa di grande insieme». Tutta la nostra vita associata ci dice che, «assieme», non siamo capaci di fare neppure» piccole cose»: non ci troviamo mai d’accordo sulle minime e più evidenti misure da prendere per vivere meglio insieme. Non volendo fare assieme grandi cose, manca il fondamento per estendere la cittadinanza. Non sono per lo jus solis, dunque. Ma personalmente, nemmeno per lo jus sanguinis, questo ridicolo razzismo di rigurgito che suppone un problematico sangue italiano. Il sangue italiano, se esiste, non merita alcun privilegio. Produce sedicenni che ammazzano fidanzatine, cinquantenni che ammazzano amanti e mogli, e operatori sociali che scatenano ghanesi impazziti, si figuri... Ma per che cosa sono allora? Per quel che serve (ossia niente), glielo dirò. La mia società ideale non riconosce nessuno dei «diritti umani» vigenti e sanciti dalla carta dell’Onu, specie da quando fra questi «diritti» ci sono aborto, libertà sessuale, emancipazione degli figli, adozione da coppie omosessuali. Nella mia società ideale, è il lavoro che dà i diritti. Ne consegue che i tre milioni di giovanotti che né lavorano né studiano sarebbero – nel mio Stato ideale – privati della cittadinanza politica, ossia – come minimo – del diritto di voto. Nemmeno gli extracomunitari avrebbero diritto all’assistenza sanitaria gratuita, che serve a quelli che lavorano ed è da essi pagata, prima che abbiano lavorato nel nostro Paese, diciamo, per cinque anni senza addossarsi al servizio nazionali. Ovviamente, anche i bulletti sessuali che trasformano le nostre scuole in Cajenne, e le puttanelle tredicenni che vi si prestano per poi caderne vittime della «libertà sessuale» minorile, andrebbero considerati a tutti gli effetti extra-comunitari; e forzati a imparare col metodo duro (in scuole militari, in battaglioni di punizione magari in Afghanistan) i valori della nostra società – e della castità. S’intende che primaria fra tali valori, necessari per ottenere l’integrazione, va compresa l’obbedienza inflessibile al diritto, il che escluderebbe politici, magistrati, parassiti pubblici e privati, assistenti sociali e militanti ideologici che le leggi «interpretano per gli amici» mentre per i nemici «le applicano»... insomma, per concludere, non solo non estenderei la cittadinanza ai nati nel terzo mondo; la toglierei a quelli nati fra noi che la usano per fare i furbi, che ci si accomodano come su un cuscino morbido, come su un triclinio. Nello Stato ideale che vorrei, non ci sarebbe «diritto di cittadinanza»; ci sarebbe «dovere di cittadinanza», ossia di contribuire alla cittadinanza, non escluso fino all’estremo sacrificio quando fosse necessario difendere lo Stato in guerra. Mi dica lei se un simile ideale è, oggi, appena proponibile agli italiani. Quindi è inutile parlarne. Per il resto sono quasi in tutto d’accordo con lei. Solo una piccola correzione: la cittadinanza romana non fu estesa a tutti i viventi nell’impero da Diocleziano (284-305) ma dagli Antonini, ossia oltre mezzo secolo prima, in una fase di solida prosperità e felicitas imperiale. Qui di seguito, le riporto dal web un buon sunto di cosa fosse, per Roma, la «cittadinanza»:
«.. la costituzione Antoniniana del 212 d.C. estese la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero; ne vennero esclusi solo i cosiddetti “dediticii” cioè coloro che erano entrati a far parte dell’impero in seguito ad una conquista e non avevano stipulato alcun patto che regolasse la loro situazione con lo Stato romano. Prima di questa costituzione differenti ed articolate erano state le posizioni giuridiche degli abitanti dell’Impero romano che possiamo così classificare:
- cittadinanza di pieno diritto (civitas optimo iure): questa cittadinanza comprendeva un insieme di garanzie civili e giudiziarie che comportava altresì il diritto di matrimonio, di commercio, di voto, e di candidatura alle magistrature. Si trattava della cittadinanza romana piena, la più ambita;
- cittadinanza senza diritto di voto (civitas sine suffragio): questa cittadinanza aveva le stesse garanzie della civitas optimo iure soltanto che non era riconosciuto il diritto di voto, cioè non erano riconosciuti i diritti politici, perché si trattava di cittadini non sufficientemente romanizzati;
- cittadinanza di diritto latino (ius latinum): questi cittadini potevano esercitare il diritto di matrimonio, di commercio e di trasferimento con Roma ma non tra loro. Questi cittadini potevano acquistare la civitas optimo iure andando a risiedere a Roma;
- alleati del popolo romano (socii populi romani): questi soggetti potevano esercitare il diritto di matrimonio e commercio con Roma ma il diritto di trasferimento subiva limitazioni;
- stranieri senza cittadinanza (peregrini sine civitate): questi soggetti potevano esercitare il commercio con Roma secondo lo ius gentium ma non erano considerati soggetti di diritto (ma oggetti).
Dunque è da respingere la convinzione che in lei s’è formata, che a Roma «l’ estensione fosse in qualche modo obbligata, indice di una debolezza di un sistema che non riusciva oramai a far più fronte alle pressioni barbare, dato anche che il declino era oramai in atto da tempo ed il collasso imminente». Né ha fondamento trattare la questione con termini, abusivamente presi dal diritto romano, come «jus solis» e «jus sanguinis»; di ben altro si trattava. E no, Roma non era ancora in declino. Prima di scherzare su Roma, bisogna studiarla, caro lettore.
 |
L'associazione culturale editoriale EFFEDIEFFE, diffida dal copiare su altri siti, blog, forum e mailing list i suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il copyright. |
|
Nessun commento per questo articolo
Aggiungi commento
|
|
|
|
|
Libreria Ritorno al Reale
EFFEDIEFFESHOP.com
La libreria on-line di EFFEDIEFFE: una selezione di oltre 1300 testi, molti introvabili, in linea con lo spirito editoriale che ci contraddistingue.
|
|
|
|
|
|
Servizi online EFFEDIEFFE.com
|
Redazione : Conoscete tutti i collaboratori EFFEDIEFFE.com
|
Contatta EFFEDIEFFE : Come raggiungerci e come contattarci per telefono e email.
|
RSS : Rimani aggiornato con i nostri Web feeds
|
|
|
|
|
|
Il sito www.effedieffe.com.non è un "prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata", come richiede la legge numero 62 del 7 marzo 2001. Gli aggiornamenti vengono effettuati senza alcuna scadenza fissa e/o periodicità
|
|
|