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Imparare facendo
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Perchè il mio bambino, quando gli racconto una favola, non vuole che cambi la storia? Perchè pretende che io la ripeta come l’ha sentita la prima volta? Alla radio, questa domanda viene rivolta a una cosiddetta «psicologa dell’età evolutiva». La quale lascia cadere dall’alto: il bambino ha bisogno di «sicurezza».

Non è solo una banalità (vale la pena aver superato tanti esami universitari?) ma naturalmente qualcosa di peggio: il presupposto che nei bambini esista una psicologia, che negli esseri umani sia importante la psicologia, e che esista addirittura una «scienza» della psicologia. Dell’età evolutiva, per di più. Una delle più tipiche superstizioni scientiste del nostro mondo, che o è inconcludente e banale (come ogni pseudo-scienza) oppure guasta e deforma le personalità. Perchè la personalità non è «psicologia», bensì volontà, carattere, cultura diventata carne...

Ma torniamo alla domanda: perchè i bambini vogliono sentire sempre la stessa versione di Cappuccetto Rosso, e non tollerano cambiamenti? Tento una risposta non psicologica: perchè il bambino, oscuramente, sente nella favola un «mito». E nella recitazione di un mito – per il bambino come per il primitivo, il quale è anzitutto un metafisico – riconosce un «rito».

I riti non si variano, pena la loro nullità. I bambini probabilmente capiscono ciò che sfugge a teologi «scientifici» e vescovi professionali, che hanno rotto i ponti con la propria tradizione; che ogni aggiunta arbitraria al rito attenua o nullifica la sua efficacia, per così dire, sacramentale. La capacità di imprimere nell’anima un «fattore spiritualizzante»; «carattere» indelebile, anche se solo potenziale, che un giorno sboccerà, sostenendo la realizzazione spirituale.

Questo vale per la liturgia (teologia «agita», recitata) ma è sempre valso per molte altre cose, giocose: dal canto gregoriano (cui l’autore aggiungeva, in punti determinati, il comando «ne varietur» – non ci si prenda libertà coloristiche o sentimentali proprio qui) ai giochi antichi come la campana o «il mondo», alle favole trasmesse da millenni.

Ma come farlo capire, oggi? Ci provo con un esempio: cambiare qualcosa in Cappuccetto Rosso è arbitrario come cambiare una regola degli scacchi. Mettiamo che i due giocatori s’accordino, per esempio, a che il cavallo, così rampante, faccia la mossa dell’alfiere. Il gioco nella sua interezza diventa non solo caotico, ma insignificante. Solo se lo si gioca «ne varietur» il gioco degli scacchi rivela il suo carattere d’iniziazione.

C’è da stupirsi che oggi i più  possano guardare una scacchiera senza timore: quei quadrati bianchi e neri sono i tuoi giorni e le tue nere notti; essi sono contati. Attento a come muovi, perchè alla fine, la sconfitta o la vittoria la vedrai dipendere  totalmente dagli errori che hai fatto, anche da uno solo, quando hai mosso alla leggera un pedone; magari all’inizio, quando avevi davanti a te l’illusione di poter fare quel che volevi, la vertiginosa «libertà» del possibile. E non potrai lamentare la tua mala sorte nè affidarti alla fortuna, o invocare la grazia, perchè il gioco degli scacchi esclude la sorte fortuita e, come nella vita dai giorni contati, non c’è «grazia» che soccorra chi ha giocato male. Quello degli scacchi è il severo gioco del karma, e da millenni insegna: ogni tua azione porta una conseguenza, le conseguenze si accumulano, e saranno alla fine il tuo giudice.

Come forse intuite, sto cercando di introdurre  il tema – a cui mi hanno incoraggiato i lettori – di come si imparava in Europa, anzi di come l’umanità acquistava la sua cultura, quando la tradizione era trasmissione della saggezza dalle vecchie alle nuove generazioni. Alcuni lettori hanno già anticipato la domanda: anzitutto attraverso la liturgia, e dalle pitture in chiesa, la «biblia pauperum».

C’è poco da aggiungere, in fondo. Col solo fatto di andare a Messa, ascoltare la recitazione delle Scritture, generazioni di contadini analfabeti si appropriavano di una porzione alta, per nulla popolare, della cultura. Gli ignoranti di oggi non s’immaginano nemmeno quanto sapessero quegli ignoranti di ieri; quegli «umili» che non si ritenevano in diritto di avere «opinioni» come qualunque ignorante di oggi, ossia delle teorie generali su come le cose (per esempio la politica) devono essere. Al posto di opinioni, essi avevano invece credenze e tradizioni, esperienze e  proverbi: spesso piccole pietre preziose tratte dai Vangeli o dalle impareggiabili favole di Tobia, di Davide, di Salomone, sentite raccontare infinite volte.

E non sono raccontate, ma anche viste: la Chiesa copriva le cattedrali di affreschi e di vetrate non per scopi ornamentali, ma pedagogici. Le pitture erano «la scrittura dei poveri», e di quale livello: la Chiesa non badava a spese, le commissionava ai più eccelsi artisti di ogni epoca (1).

Apro una parentesi, per sottolineare quale tipo di «estetica» assorbissero senza saperlo i poveri senza-cultura, e come fosse radicalmente diversa dall’estetica odierna. Non era la tendenza alla «esteriorità carezzevole», qualcosa intesa a suscitare «emozioni» – dunque qualcosa che tende alla pornografia, limite e morte dell’estetica contemporanea per il volgo con opinioni – ma l’estetica come «rigore» e armonia, perfezione. Per usare un detto di Gurdjeff che mi pare felice, come «fantasia conforme alla verità», che non tollera intromissioni arbitrarie, esattamente come la liturgia e il rito – o la favola (Gurdjeff dà quella sua definizione per «Le Mille e una Notte», evocando come bambini e adulti le ascoltassero insaziabilmente dai cantori a volte professionali ma più spesso spontanei, come suo padre, là fra il Caspio e la Georgia dell’ultimo Ottocento).

A forza di vedere la rigorosa perfezione delle pitture, di recitare il Credo fra la perfezione armoniosa delle navate e dei pilastri, quel senso del bello come rigore entrava nella carne dei contadini. E’ per questo che quando si costruivano poi la loro casa, la loro architettura spontanea faceva case che oggi i geometri (per non parlare degli architetti) sono incapaci di riprodurre – ammesso che ne abbiano la voglia (2). Basta ricordare se siete passati per caso davanti ad una vecchia masseria siciliana, delle poche che restano nell’interno dove la speculazione edilizia trova improduttivo invadere. Il patriarca che la fece costruire, chiaramente, non aveva soldi da buttare; la masseria siciliana non ha davanzali nè balconi, nè aggetti ornati, e quasi nemmeno finestre, ma feritoie; eppure  ha una potenza espressiva che soggioga, perchè si intuisce che «così dev’essere», in quel clima dal sole schiacciante, su quella terra, in quel preciso paesaggio, la casa che il patriarca fece fare pensando alle generazioni dei nipoti e dei bisnipoti. E che invecchia così bene, al contrario delle orrende cose che si fabbricano i siciliani adesso che hanno più soldi, veri e propri arbitrii, offese al paesaggio prima ancora che lacerazioni della cultura.

«Ne varietur», è la scritta invisibile sopra la masseria siciliana. Lo stesso dicono i casali della Tuscia da dove scrivo; benchè più vari nella forma, essi sono, tutt’al più, variazioni all’interno di un tema, che è «come dev’essere», par essere un prodotto di quel paesaggio (là i fichi d’india, qui i castagni e le querce) e di quella «cultura», intesa nel senso più ampio, che comprende la prima di tutte: l’agri-coltura.

Il guaio è che ai più, le villette brutte e abusive piacciono, come piacciono e si fanno i brutti film, la brutta musica, e più gravemente, fra i giovanissimi, le brutte azioni, come bruciare un immigrato sulla panchina. Tutte queste cose discendono dalla stessa «estetica» ripugnante – che anzichè preparare alle azioni belle come l’antica, prepara a quelle malvagie.

Non si vive impunemente circondati di cose brutte. Si finisce per non vederle più, ma fanno ammalare: l’anima e persino i corpi. In più, siamo affollati di analfabeti della bellezza, gente che non sa più «vedere» nemmeno il Partenone o il Pantheon. E per questa cecità i nostri giovani sono divorati dalla noia: del resto, se estetica è «emozione», e serve come «distrazione», guardare un quadro è un’emozione annacquata; andiamo direttamente al punto, spariamoci una dose di coca o un videoporno. Nessun’arte può competere – e così nessuno la fa nemmeno più.

Giotto era assillato dai fiorentini che, dal basso, gli dicevano come costruire il campanile; Wagner e Beethoven suscitavano ancora partiti di pro e di contro. Oggi è un deserto con sbadigli.

Temo che molta di questa ignoranza maligna sia l’esito finale, terminale, dell’istruzione di massa. Che per forza di cose ha dovuto insegnare sui libri, e ha innestato in tutti il concetto che la cultura si impara dai libri, ed è libresca. Invece la cultura si apprende essenzialmente «sentendo raccontare», «vedendo fare» chi fa, e «facendo» (3).

I ragazzini imparavano dagli adulti. Quando andavo in Toscana, ricordo con che avidità, specie le ragazzine, ascoltavano i grandi che parlavano tra loro; smettevano persino di giocare. Io mi irritavo perchè, bambino di città, sapevo che «non è educato ascoltare»; ora intravedo che le contadinelle apprendevano una quantità di nozioni sui rapporti sociali – dalle parentele ai fatti memorabili di famiglia, ai pettegolezzi e alle dicerie – del loro ambiente, quello in cui sarebbero diventate adulte, per loro essenziali, e che a me mancano. La mia conoscenza del parentado non va oltre i gradi più stretti, già le cuginanze non mi dicono nulla. Ma il parentado di una volta era una vasta rete inestricabile di sostegno, oltrechè si capisce di odii invecchiati e tramandati, interessantissime «storie», comunque. Il mondo vivo delle contadine era più complesso del mio. Senza dire che, ascoltando i grandi, imparavano il linguaggio: che per loro fortuna, essendo toscane, era «la» lingua.

I ragazzi e le ragazze accompagnavano i genitori nel lavoro, sui campi o con le bestie. Imparavano così, facendo, una quantità di cose inimmaginabili ai bambini di periferia. Anzi, quasi impalpabili, impossibili da scrivere su un libro. Bisogna vedere e provare come si munge la vacca, vedere un suo parto per imparare ad aiutarla; apprendere facendo come si fa un innesto, come riconoscere una malattia della vite; bisogna sentir raccontare dei tempi propizii per la semina, e l’azione della luna, e i segni del tempo, e i termini tecnici, rigorosamente precisi (ne varietur) di queste attività «umili».

E non s’impara così solo la sapienza contadinesca. La musica non s’impara leggendo il pentagramma; bisogna anzitutto «accendersi» a suonarla, e ascoltare chi la suona, e sentirne parlare i competenti. Così gli apprendisti imparavano affiancando i mastri artigiani, e non solo i mastri d’ascia o i fabbri; anche Leonardo imparò a bottega (del Verrocchio) a pestare e a mescolare i colori. Anche l’alta cultura comincia con un «fare» e un «affiancare». I libri vengono dopo, come perfezionamento, come teorie del fare. Ci sono temi della cultura che non si possono apprendere che sui libri, per la loro stessa astrattezza, come la matematica e la filosofia; eppure anch’essi richiedono il «parlato», il «veder fare» del pensiero in atto, dalla cattedra o – come anticamente in Ellade – dalla bocca di Socrate, di Platone, dal conversare di Aristotile.

Si imparava più piacevolmente che a scuola, immagino. Il che non vuol dire «facilmente»: la facilitazione – che è precisamente il motivo che  rende così noiose le nostre scuole, così vuoto, sommario e scolorito  quel che vi si impara, da togliere al voglia di saperne di più – era esclusa per principio. Già i bifolchi si tenevano all’idea di «non» facilitare i figli ragazzini: che impari il peso della vanga e del forcone, il gelo alla raccolta delle olive, la sete della fienagione. Impari il rigore e i rigori del lavoro.

Specialmente i dotati, i privilegiati, devono essere posti davanti fin da subito alle cose difficili, che li sfidino e li accendano. Nel dottor Faustus di Mann, si troverà quanto il giovane Adrian, il futuro musicista, deve a un irruente, appassionato e balbuziente maestro di nome Kretzschmar, che espone al piano l’arte del contrappunto e della fuga, e gridando per sottolineare i passi e i «trucchi» e le «trovate» del grande Beethoven al culmine del suo percorso artistico. Impareggiabile il commento delle ultime cinque sonate di Beethoven, dove Kretzschmar, urlando e suonando allo stesso tempo, fa capire come il più originale e soggettivo degli artisti, alla fine delle sua vita, ri-adotta «le convenzionalità», le formule, la retorica della musica: segno di «un abbandono dell’io» di fronte alla morte, che «sopravvanza di gran lunga ogni ardimento personale»: perchè «quando grandezza e morte s’incontrano, nasce un’oggettività che riacquista la convenzione» come «entrata nel regno del mito, della collettività».

Qui viene spiegata una cosa difficilissima: come nel grande artista, alla fine della sua parabola, l’originalità si compie e si acquieta nell’adesione alla tradizione come «vicinanza all’origine»; la tradizione rivissuta in proprio, profondamente rinunciando ad ogni pretesa dell’ «io». «Sentite», urla l’appassionato pestando sulla tastiera, «sentite come qui la lingua non è più liberata dalla retorica... ma è la retorica liberata dall’apparenza... Infine è eliminata la parvenza dell’arte... L’arte elimina sempre la parvenza dell’arte».

Se ciò vi risulta difficile, avete ragione: è la difficoltà di spiegare in uno scritto cose – cose dell’anima e della cultura più alta – che s’imparano solo nel suonare e nel cantare. Si rimpiange di non aver ascoltato personalmente Kretzschmar, la sua voce mentre spiegava e cantava e suonava: l’arte scrittoria di Thomas Mann arriva a farci sentire questo rimpianto, di più non può. Si sente che, se avessimo ascoltato quelle lezioni impetuose ed entusiaste, saremmo anche noi musicisti, avremmo voluto imparare il contrappunto e la fuga...

Torniamo al livello più modesto, la trasmissione della cultura fra i contadini. Oggi, il babbo non può portare il ragazzino sul lavoro, in banca, all’ufficio pubblico o in fabbrica. Tutto un insieme di conoscenze che bisogna «veder fare» è precluso – e del resto è da chiedersi quali competenze potrebbe comunicare l’impiegato del Comune o la mamma del call-center. Le competenze, qui, sono infinitamente più povere e vuote di quelle che si trasmettevano nella stalla o fra i solchi.

Manca ai ragazzini d’oggi anche l’insieme di conoscenze che venivano dalla mistura delle età; bambini, giovani mamme, zie zitelle, nonni vivevano insieme; le ragazzine apprendevano a trattare un neonato e a cambiarlo vedendolo fare, le anziane sapevano cosa consigliare alle neo-mamme. Oggi le mamme mono-nucleari sono lasciate all’angoscia solitaria con il loro infante strillante, al complesso di colpa di non saper interpretare, di non trovarsi dentro un presunto «istitinto» materno.

E ben altro. Della mia infanzia in Toscana ricordo un lontano parente, zi’ Menco (sarebbe zio Domenico), gran raccontatore. Non tutti i contadini adulti sapevano raccontare; e anche loro ascoltavano zi’ Menco, uomo allegro e mai arrabbiato e poco propenso all’osteria, quando – nelle sere d’agosto, per il gran caldo ci si sdraiava sull’aia, sulla paglia dei pagliai – raccontava storie. Si cominciava guardando le stelle pullulanti; poi, una cosa tira l’altra, zi’ Menco aveva sempre un motivo per raccontare qualcosa. Conosceva a memoria l’intera Gerusalemme Liberata, parecchio Orlando Furioso, alcuni canti dell’Inferno, e ce li declamava. Cose che a sua volta aveva imparato da altri, da vive voci ormai scomparse; certo non leggendo. Ma non si poteva fare a meno di ascoltarlo a bocca aperta anche quando parlava serio di cose della caccia (anche se poi, quando partiva prima dell’alba con lo schioppo, tornava al massimo con tre passerotti impallinati) o della cura delle viti; o ridendo, di certe burle e furbizie di gente di sua conoscenza – che scoprii solo molto più tardi essere quelle stesse che Boccaccio attribuisce a Bruno e Buffalmacco.

Noi bambini, in mezzo agli adulti, imparavano – o meglio assorbivamo – il linguaggio, i suoi precisi termini tecnici, le sue finezze ed espressività comiche, drammatiche o umoristiche (nelle altre regioni imparavano questa finezza nel dialetto). Oggi i bambini, quando non parcheggiati davanti alla scatola, stanno tra altri bambini all’asilo nido: non possono insegnarsi l’un l’altro che la rozza lingua bambinesca. E magari, i nonni quando li hanno in casa, li «facilitano» adottando un linguaggio lezioso da infanti.

Il risultato è, come sappiamo, che questi bambini non hanno poi abbastanza parole nemmeno per capire le nozioni elementari delle scuole elementari; perchè per imparare a leggere bisogna aver già imparato le parole a viva voce. Restano analfabeti «istruiti», mostri della modernità organizzata e facilitata. Con «opinioni», per giunta.

Bisognerebbe ricostruire la mistura delle età nello stesso ambiente; o forse, basterebbe che gli insegnanti «parlassero» di più, portassero i piccoli a veder fare dei competenti? O che mandassimo i piccoli mascalzoni e i bulli a raccogliere le olive? 

Basta immaginarsi le proteste civiche degli insegnanti-burocrati, dei media progressisti, delle «mamme organizzate», dei sindacati, dei cosiddetti psicologi della cosiddetta età evolutiva – e di qualunque altro che si ritiene in diritto di avere delle «opinioni»: un fuoco di sbarramento da scoraggiare anche Prometeo.

Affondiamo dunque ogni giorno di più verso la barbarie post-occidentale, risultato ultimo della civiltà occidentale. Non si possono sfidare tante opinioni.

Mi accorgo di averla fatta lunga, e di non aver nemmeno affrontato il tema principale, che è quello della pedagogia come formazione del carattere. Un’altra volta, magari.




1) Ovviamente, la pittura cessa di svolgere questo scopo quando diventa sempre più soggettiva; o quando, in Italia, gli artisti riscoprono i volumi anatomici della classicità greco-romana. Dostojevsky, con negli occhi e nella carne la pittura  liturgica bizantina, si scandalizzò quando vide il Cristo di Michelangelo nella cappella Sistina: «Sembra un tedesco, gli manca solo la spada». Ho paura che avesse ragione. Nel Rinascimento gli artisti smettono di dipingere per il popolo, e dipingono per i signori. E’ lo stesso periodo in cui il tema centrale dell’architettura già cessa di essere la chiesa o il tempio (com’era stato per millenni) e diventa il palazzo; non abitazione, ma scena di rappresentanza dell’uomo-dio.
2) Come si sa, gli architetti più ricercati e pagati vogliono deliberatamente «disturbare» l’uomo, creargli malessere in modo calcolato, producendo «oggetti inquietanti». Ciò, per mostrarsi l’un l’altro (ormai ogni arte è una cosa «fra artisti») come sono provocatori e anti-umani. In ciò, sono miserabili eredi di provocazioni da tempo spente, di sovversioni esaurite: ovviamente i loro committenti, che sono le burocrazie pubbliche, sono gli ultimi a capirlo.
3) Platone, come noto, era contrario ai libri: non rispondono alle domande, diceva il suo Socrate. Il fatto che fosse costretto a scrivere tanto ciò che era pensato come «dialogo», è chiaramente il segno di una crisi: la cultura greca nasce infatti da una crisi morale e sacrale, e per questo la cultura occidentale è «critica». Platone era anche contro tutta quell’arte che distrae, che «induce nelle anime l’oblio». E’ singolare trovare la stessa denuncia in Gurdjeff, a proposito – ohimè – del giornalismo: «Questo genere di letteratura... corrisponde meglio di ogni altro alle debolezze degli uomini, alla loro crescente mancanza di volontà». La spasmodica concentrazione sulla ‘attualià’  finisce «per atrofizzare la loro ultima possibilità di acquisire... il ricordo di sè, fattore indispensabile per perfezionare se stessi».


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