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Pompei e Catania
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Come oggi nelle nostre città, i muri di Pompei erano bruttati dovunque da graffiti.
Per lo più osceni («Fortunato, leccami il culo»; «Laide lo succhia per lire due»; «Tiopilus, canis, cunnum lingere noli puellis in muro»; «Straniero, le ossa del tumulo ti pregano di non pisciare qui»).
Una delle scritte beffa un cristiano, c’è il graffito di un crocifisso con testa d’asino.
Tifoserie opposte, nel 59 dopo Cristo, si scatenarono nel circo in gravissimi atti di teppismo sanguinosi.
«Futili incidenti diedero origine a violenti scontri», scrive Tacito, «tra gli abitanti di Nocera e quelli di Pompei durante uno spettacolo di gladiatori.
Cominciarono con l’intemperanza tipica delle cittadine di provincia, a scambiarsi insulti, poi pietre, e finirono col mettere mano alla spada. Ebbero la meglio quelli di Pompei» che giocavano, come si dice, in casa.
«Molti di Nocera furono riportati alla loro città col corpo mutilato, e parecchi piansero la morte di figli e genitori».
Imperava Nerone, che affidò al Senato l’inchiesta sugli incidenti.
Il Senato la affidò ai consoli.
Furono disciolti i collegia, ossia le vecchie associazioni di mestiere, che erano diventate polisportive e covi di teppisti.
Lo stadio di Pompei fu squalificato per dieci anni.

Ma già tre anni dopo venne l’amnistia.
Le autorità ritennero necessario risollevare gli animi dopo il terremoto del 62, e non c’era di meglio che concedere alla teppa urbana il suo solo passatempo, lo stadio, il circo.
Ancora per pochi anni.
Nel 79, l’eruzione del Vesuvio seppellì Pompei, le sue tifoserie e le sue scritte sui muri.
Anche Catania giace ai piedi dell’Etna.
Non sono sicuro quale lezione si debba ricavare dalla storia.
Forse quella, scoraggiante, che la volgarità di massa che diventa teppismo delittuoso è una costante della cafoneria italiota.
Non si noterà mai abbastanza che in Italia gli atti delinquenziali si configurano come la forma estrema della maleducazione incivile: i litigi di condominio diventano massacri a coltello, si ammazzano le fidanzate che vogliono lasciarti, i bulletti violentano le compagne.
E questa cafoneria delinquenziale è immedicabile, perché i cafoni arroganti sono «ermetici» ad ogni argomento: non imparano mai nulla, nemmeno nella propria carne.

Sento dire da un giornalista alla radio che bisogna aumentare le ore di educazione civica.
Come se un prolungamento della noia scolastica e della retorica «costituzionale» e moralistica fosse educativa.
Come si vede, nessuno pensa di nuovo e radicalmente cosa dev’essere l’educazione: ed anche questa stupidità che ripropone rimedi già provati nulli è una forma del nostro degrado.
Nessuno ricorda più quanto serva, per infiammare i ragazzi al meglio, non l’etica ma l’estetica.
Le vecchie scuole che dividevano le classi in «Achei» e «Troiani» coglievano meglio il punto, incitavano ad una competizione nobile, su nobili esempi.
Ai bambini toglierei computer e telefonini, e racconterei favole e miti, Eracle e gli Atridi, Pollicino e il Gatto con gli stivali: non risparmierei loro i racconti tremendi della tragedia greca, la cui misteriosa risonanza accompagna negli anni, inesauribile di significati.
Orazi e Curiazi, Attilio Regolo, Sigfrifo, i racconti di fate: suscitano meraviglia, insegnano prove iniziatiche e il valore del soffrire, e possono anche creare il gusto alla lettura, che la scuola d’oggi uccide.
Ma poi, è incredibilmente disonesto chiedere alla scuola di rimediare alla volgarità e alla pornografia che trabocca da tutte le altre «agenzie», che impongono irresponsabili gli stili di vita. Come insegnare ai ragazzi il nobile e il bello, la cavalleria e il senso che la forza va usata solo al servizio della giustizia, quando imparano dalla televisione, ogni minuto, che la volgarità scosciata,  ammiccante e sporca «ha successo»?
O vogliamo affrontare il ruolo educativo al contrario della pubblicità?
O vogliamo parlare dei politici?

Berlusconi ha confermato che la sua cultura politica viene da Eva Express; ha sposato un’attrice e va a letto con veline.
Le intercettazioni telefoniche ci hanno rivelato che gli uomini del potere parlano nel gergo di malavitosi di serie C.
E gli altri, furbeschi occupatori di potere, non sono meglio.
Abbiamo eletto presidente della repubblica uno che si è fatto rimproverare da Bruxelles perché faceva le creste sulle note-spese, esibiva biglietti aerei scontati e ne voleva il rimborso pieno.
La pedagogia che risulta dal voto sulla base di Vicenza è incredibilmente esplicita: le «sinistre» estreme escono dall’aula o votano contro - e così rabboniscono il loro elettorato pacifista - sapendo che la «destra» avrebbe votato pro, salvando capra e cavoli del servilismo verso l’Alleato, e la durata del governo.
Servi e furbastri insieme, tutti uniti.

Questo ceto non può predicare «siate più onesti», «siate più civili», senza suscitare derisione
e cinici sogghigni.
Tutto ciò che passa da noi sotto il nome di «democrazia» dà quotidiane lezioni degradanti.
A questo proposito: se si vuole che la scuola faccia qualcosa di più, si cominci dall’espellerne i genitori.
I consigli d’istituto «democratici» sono pieni di «genitori» che sono o si comportano da politicanti di mezza tacca, contestano l’autorità degli insegnanti, e portano il morbo della «trasgressione» che hanno appreso dai rotocalchi, una «moralità» da Espresso o da Panorama.
I recenti fatti di bullismo atroce e sessuale hanno visto le madri alla difesa scatenata dei loro «ragazzi»: «Eh, che avranno mai fatto? Ragazzate!».
Queste madri non devono avere voce in capitolo nel processo educativo, di cui evidentemente non sanno nulla.
I genitori stessi sono, salvo eccezioni, parte dell’inciviltà di massa, pullulante e molecolare, che guasta la nostra società.
Un inizio di terapia dovrebbe cominciare dal divieto di mettere in discussione l’autorità - già tanto indebolita - degli insegnanti.
Nella scuola bisogna diminuire la «democrazia», gli incompetenti non sono uguali ai competenti.
I telefonini vanno sequestrati, e che nessuno protesti.

A scuola si deve andare, se non col grembiule nero di ieri, con divise come in Inghilterra: a coprire gli abiti firmati, le griffe e le altre intollerabili esibizioni della disparità che dà il denaro.
La sola disparità ammessa dev’essere quella della nobiltà e dell’intelligenza: del cuore, prima che della mente.
Con ciò, si dice il centro del problema: bisognerebbe restituire autorevolezza all’autorità.
Ma chi non si ribellerebbe?
Da Mastella all’ultima mamma moderna, puttaneggiante e tatuata sul seno, fino agli «opinion maker», ai partitanti (così esemplari nell’ermetismo fazioso, che non ascolta mai per principio le ragioni e gli argomenti degli avversari: non è anche questo teppismo da tifoseria?), tutti sarebbero contro, tutti piangerebbero sui telefonini e sulle griffe perdute dai poveri ragazzi.
Ho sentito una preside dirsi contraria all’uniforme scolastica.

Si proclama un «diritto» al calcio, un «diritto» alla discoteca, al travestitismo, alle «scelte sessuali», al «vivere la propria vita» già a 12 anni.
Per i teppisti omicidi da stadio, per quegli adolescenti belluini che abbiamo visto scuotere gli sbarramenti come scimpanzè infoiati, si sarebbe tentati di proporre l’arruolamento forzato. Addestrati in battaglioni di punizione (con adeguate pene corporali), vengano mandati, affastellati ed armati, in Afghanistan: la NATO ha bisogno di loro, e là possono avere tutta la violenza che vogliono.
Ma un ufficiale italiano mi confidò, in Kossovo, che i comandanti avevano accolto con un sospiro di sollievo la fine della leva obbligatoria: le giovani reclute piangevano come bambini, cadevano in depressione per il rancio e la camerata, volevano la mamma, erano del tutto incapaci di provvedere a se stessi: il corpo ufficiali si sentiva come se gestisse un asilo infantile, di bambini difficili per di più.
Probabilmente, questi piagnoni in caserma sono i bulli che a scuola stuprano in gruppo le compagne, sicuri del sostegno della famiglia.
Una pedagogia essenziale è sempre consistita nello spezzare il branco giovanile.

Le adunate e gli esercizi dei Balilla, della Hitlerjugend o dei Pionieri servivano, in fondo, a questo: ad integrare i ragazzi nella vita collettiva, a impedire che diventassero banda.
Le bande giovanili, una volta formate, diventano un mondo totalmente ermetico nel malfare («le cattive compagnie», predicavano le nonne).
Il conformismo di un’età incapace di autonomia, dove si è ancora privi di un «io», diventa una catena feroce, di cui tutti sono schiavi, bulli e le loro vittime.
Oggi, anche il lavoro fisico obbligatorio potrebbe servire.
Ma chi sente le mamme tatuate sull’ombelico? Chi resisterà alle loro proteste?
E allora teniamoci gli scimpanzè omicidi.
Le dodicenni che si fotografano le parti intime e le mandano su internet.
I nostri cari bulletti che le stuprano in gruppo.
E speriamo nel vulcano.


 
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