Un gioco e la sua storia
11 Novembre 2006
«Giro giro tondo
casca il mondo
casca la terra
tutti giù per terra!»
Era un gioco che si faceva e divertiva i piccolissimi.
A noi bambini un po’ cresciuti già sembrava insipido, insignificante.
Ora, sulla rivista medica «Eos», ne apprendo l’origine.
La filastrocca è l’adattamento di un’altra, inglese, che risale al ‘600:
«Ring a ring a Roses
A pocketful of posies
Tishoo, tishoo
We all fall down!»
Questo gioco da bambini descriveva il decorso della peste del 1665, che spopolò Londra.
«Ring a ring a Roses», la collana di rose, erano i bubboni: che comparivano prima attorno al collo, attaccando i linfonodi.
«A pocketful of posies», le erbe odorose di cui ci si riempivano le tasche, credendo che certi aromi proteggessero dal contagio purificando l’aria.
«Tishoo tishoo», lo starnuto che indicava che la persona era stata contagiata.
«We all fall down», tutti giù per terra: la morte che colpiva, repentina, in seguito a un movimento qualunque del malato.
Infatti a Milano - che di pesti ne aveva conosciute prima e dopo quella celebre del Manzoni - la filastrocca contemplava un’aggiunta, come in un gioco di nascondino: la prima bambina caduta a terra si sollevava e inseguiva le altre, e se ne toccava una gridava: «Ti ghe l’è», ce l’hai, ce l‘hai!
Ce l’hai, la peste, perché ti ho toccato e contagiato.
La malattia non veniva nominata: o perché era innominabile, o perché tutti sapevano cosa era.
Mistero affascinante, per cui l’infanzia conservava antichissime storie vere, orrori e magie, in forma di gioco.
L’albero della cuccagna era il ricordo del rito con cui sciamani, probabilmente del Neolitico, «salivano nei cieli» arrampicandosi su un palo per «vedere» il futuro o le cose nascoste.
Il gioco del mondo, che si faceva tracciando col gesso sul marciapiede un quadrato, ripeteva
il rito primordiale di fondazione delle città, quello cui «giocarono» Romolo e Remo.
La favola di Pollicino e dei suoi fratelli, mandati dai genitori a perdere nella foresta, ricordava lo spaventoso rito pre-latino del Ver Sacrum, che nelle carestie sacrificava i giovani; le molteplici fiabe su orchi e streghe cannibali («Ucci ucci, sento odor di cristianucci», dice l’orco in Toscana) evocavano qualcosa che avvenne davvero: esseri marginali e asociali, che vivevano nelle foreste come carbonai, fabbri o bracconieri, nelle carestie potevano davvero aver mangiato bambini.
Il ricordo di un’umanità europea che si sapeva esposta ad eventi spaventosi (un anno dopo la peste del 1665, come non bastasse, un incendio distrusse quel che restava di Londra), e li superava, decimata ma invincibilmente vitale.
Stragi che gli adulti non volevano ricordare, le conservavano i bambini, trasformate in un gioco spettrale.
E le filastrocche spettrali diventavano, chissà come, pan-europee, dall’Inghilterra arrivavano in Italia, passando da una all’altra delle bocche dei bambini, come un contagio vitale.
Tutto ciò, s’intende, prima che la TV cancellasse tutto: bambini, memoria e tradizione, saggezza dei popoli, profondità e vitalità.
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