Come l’estetica creò l’etica
03 Giugno 2006
Regolarmente i Marines in Iraq ammazzano dall'inizio dell'occupazione: sparano sui passanti ai posti di blocco, assassinano donne incinte e bambini per rabbia, per paura, per disprezzo, per divertimento.
Sicuri dell'impunità perché coperti e giustificati dai loro comandanti, che per parte loro fanno di peggio: bombardano dal cielo, città occupate, con fosforo bianco, avvelenano le fonti della vita spargendo tonnellate di uranio impoverito.
E questa non è un'eccezione, ma un'abitudine storica degli armati americani.
Nella seconda guerra mondiale ammazzavano i soldati tedeschi che si arrendevano con le mani in alto: avevano combattuto troppo bene, gli avevano fatto paura.
Questa sistematica violenza del forte super-armato sul debole indifeso è il segno più chiaro e tragico che l'Occidente è caduto nella mani sbagliate, le più vili e disonorate.
La mancanza di coraggio che queste atrocità rivelano, la bassa vendicatività, l'ignobile assenza di magnanimità, segnalano che è stato raggiunto il punto più basso, contro cui la civiltà occidentale ha sempre lottato: la riduzione finale del militare al teppista omicida, al delinquente comune, all'assassino per paura.
Non è a caso che questo accada in un'epoca gonfia di moralismo.
Che tiene incessanti lezioni sull'«etica del capitalismo» (attenti al portafoglio, quando i capitalisti diventano moralisti), che insegna nelle scuole «educazione civica» (occhio ai sassi dal cavalcavia e ai bulletti di classe), e nelle chiese «educazione alla legalità» (Prodi e Mastella ne sono i risultati).
Mai come oggi la «moralità» si rivela non solo come ipocrisia smentita da ogni atto, ma non è questo il peggio: il peggio è che si continui a somministrare la medicina moralistica nonostante la sua palese inefficacia.
Mi piacerebbe conoscere un giovane che i pistolotti morali correnti - di monsignor Tettamanzi o di Emilio Fede, o di qualunque altra figura pubblica - abbiano trattenuto dal gettare un macigno dal cavalcavia, dal rinunciare all'ecstasys in discoteca, dal fare il razzista allo stadio o il bullo col compagno di scuola privo di abiti firmati, dallo spaccarsi correndo in auto del papà a 200 all'ora e gonfio di birra.
Non credo ne esista uno.
Come non credo esista un solo politico che sia stato indotto all'onestà dalle omelie mensili del cardinal Ruini, né un manager che abbia ripreso la retta via dopo un seminario bocconiano su «Etica del business».
E' una cecità essa stessa ipocrita.
La società degrada affondando nella «morale».
Diventa sempre più sporca e vile e brutta, sguazzando nella cosiddetta etica, impartendo infinite lezioni su ciò che «non si deve fare» ad una società che vuole essere trasgressiva.
Proprio i giovani vogliono fare soprattutto ciò che «non si deve», incoraggiati da tutto l'ambiente, dalla pubblicità, dalla TV, dal socioligismo progressista.
I pistolotti untuosi di Tettamanzi non imprimono nessuna voglia, nessuna convinzione contraria.
L'Occidente non divenne una civiltà migliore e più gentile della barbarie asiatica o africana a forza di etica.
Quello che lo ha formato non è l'etica, ma l'«epica» e l'«estetica».
Bisognerebbe insegnare ai ragazzi non già che tirare i sassi dal cavalcavia è «male», ma che è anzitutto «brutto», ignobile e vile, segno di una personalità senza eleganza, né forza coraggiosa, di cui vergognarsi.
Ma questo è perduto, irrimediabilmente.
Ciò che è perduto - l'anima segreta dell'Occidente - ha un nome: «Cavalleria», spirito dei cavalieri. Dalla tradizione cavalleresca discendono i principii che guidano le leggi e le convenzioni in caso di guerra, il divieto di violentare le donne dei vinti, di ammazzare il prigioniero che si arrende, di torturarlo, di abusare della superiorità del volume di fuoco.
Ma il vero freno fu, per secoli, l'onore militare.
Sul campo di battaglia si può fare quasi tutto, commettere ogni atrocità senza controllo; ciò che trattiene, in certi momenti, non sono leggi e convenzioni, ma qualcosa che è stato impiantato nella coscienza del combattente.
Qualcosa di «estetico», di apparentemente superfluo, chiamato «onore».
La cavalleria fu un miracolo della cultura cristiana, irripetibile.
Essa trasformò barbari germanici, burgundi, franchi, visigoti massacratori e saccheggiatori, in militari, insieme «prodi» e «cortesi».
Come?
Non con i pistolotti morali, ma con i poemi e i romanzi, che esaltavano un tipo estetico di combattente, incitavano l'armato di clava alla nobiltà e al coraggio magnanimo.
Non si dirà mai abbastanza questo fatto stranissimo: «la Cavalleria esiste prima come fenomeno letterario che come realtà sociale».
Sono i romanzi cavallereschi a fare il miracolo.
Infinite opere di fantasia, estetiche, in tutte le lingue romanze e germaniche, pullularono dal 1150 in poi: «La mort du roi Arthur», «La Quete du Saint Graal», «Lancelot», «Le chevalier du cygne», «Guerin Meschino», «The green knight».
Furono una vera, travolgente passione che coinvolse anche gli analfabeti, che li sentivano cantare e li ripetevano a memoria.
E quei romanzi e racconti, infinitamente, erano anche «manuali» di nobile comportamento, instancabili casistiche di ciò che il vero cavaliere deve e non deve fare, di valutazione e giudizio del suo valore e cortesia, di definizione: alla parola «chevalier» accompagnavano infinitamente aggettivi che formavano, a poco a poco, per esaltata imitazione, un tipo umano che non esisteva ancora: «leal» (leale), «large», generoso, «de bon aire», buono: ciò che significava anche essere «bel», e «de grand pris».
A forza di leggere e cantare come Lancillotto fosse «alignè» (elegante), «povre» (povero) e giovane e ardito, lo si volle imitare.
E così nacque la civiltà occidentale.
Il Rolando storico, quello che nel 778 trovò la morte in una oscura battaglia a Roncisvalle sui Pirenei, non era ancora un cavaliere; era un guerriero semibarbaro ed eccessivo, un Achille dei Franchi.
La primordialità dei barbari accampati sui resti dell'impero romano non sarà mai abbastanza sottolineata.
Carlomagno divise l'impero tra i suoi tre figli, come fosse un'eredità personale: il diritto germanico confondeva, senza averne la minima coscienza, il diritto pubblico col privato.
La divisione d'Europa che ancora perdura nasce da questa innocente incoscienza.
Teodolfo vescovo di Orleans, un romano per cultura, scrive con sgomento che nella Gallia Narbonense, nel 798, ha visto punire il furto con la pena capitale, e l'omicidio con un'ammenda in moneta.
I re si circondavano di una guardia («truste») di giovani guerrieri armati, con cui divideva la tavola, e nella cultura barbara dividere il cibo conferiva immunità e saldava un rapporto di fratellanza: il commensale invitato diventava «compaio», da «cum panis», e i giovani dalla tavola del re (che li sfamava) si proclamavano a lui fedeli fino alla morte.
Questo costume sarà poi trasfigurato nella Tavola Rotonda.
Ma per il momento, i giovani armati sono i gorilla del re, i cosiddetti «antrustiones», o «bucellarii», mangiatori di biscotto; il pane della migliore qualità era a loro riservato.
Per il momento, titoli che saranno pieni di aristocratico onore cavalleresco, «connestabile» e «maresciallo», indicavano ancora compiti modesti, benchè essenziali per la torma guerriera, di stalliere («comes stabuli») e maniscalco («maris kalk»).
«Siniscalco» («senis kalk») è ancora il più vecchio dei servi e valletti - armati - che servivano a tavola.
La cavalleresca «lealtà» e «fedeltà» erano di là da venire.
Spergiuro e falsa testimonianza erano così comuni, che la legge salica dedica a questi delitti uno spropositato numero di capitoli.
La Chiesa doveva punire lo spergiuro con penitenze draconiane di sette anni, i primi tre a pane ed acqua, e col divieto di portare armi durante la penitenza: il che equivaleva, dati i tempi, a finire ammazzato.
Nonostante questo, i «fedeli» «antrustiones» e «siniscalchi» di Ludovico il Pio, la notte prima di una celebre battaglia, se la svignarono a passi felpati per unirsi ai nemici, lasciando solo il re dormiente nella sua tenda, su quello che fu chiamato Lugenfeld, il campo della menzogna.
L'eleganza, la dignità sessuale erano allo stesso livello.
San Bonifazio britannico racconta di pie pellegrine inglesi dirette a Roma le quali, vedendosi rifiutare l'elemosina con cui i pellegrini supponevano mantenersi durante il viaggio, si prostituirono ad ogni villaggio.
Accadeva nel 730.
La Chiesa finì per questo per vietare i pellegrinaggi alle donne.
Era gente di robusti appetiti e avidità.
In età carolingia, i monaci ingollavano quotidianamente 1,7 chili di pane ciascuno, 230 grammi di lenticchie, cento di formaggio, un litro e mezzo di vino e birra senza nemmeno contare le carni, i pesci affumicati e le verdure cotte (semplice «companaticum»): una dieta da 6 mila calorie al giorno, il doppio di quel che oggi si ritiene bastante ad un uomo; nei giorni di festa, la razione aumentava di un terzo, le calorie fino a 9 mila.
I re accumulavano chili d'oro e d'argento in gioielli.
Queste bestie armate, che avevano tanta terra, beni e libertà quante le conquistavano con la loro lancia; questi giovani gorilla - i giovani armati sono da sempre la categoria più pericolosa - furono trasformati in cavalieri.
E non a forza di precetti morali: è la comunità di cui vogliono fare parte questi guerrieri a giudicarli, valutarli, e insieme cantarli e glorificarli, secondo il metro di una figura inesistente, ma che «deve» esistere.
Nella «Chanson de Roland», due secoli dopo la vera Roncisvalle, già rifulge come una fantasia una spada, la spada che ha un nome ed è di un solo cavaliere, come una dama: Durendal.
Sul campo insanguinato di Roncisvalle, «l'imperatore cerca il nipote, trova nel prato tante erbe coi fiori fatti vermigli del sangue dei baroni.. sull'erba vede giacere il nipote».
L'orrore della battaglia è già trasfigurato, un arazzo di verde erba e fiori vermigli.
L'imperatore riconosce, prima di Rolando morto, la sua spada-amante.
Durendal è lì, come una ninfa che non può morire, accanto al cadavere del suo amato.
Infatti l'imperatore esclama: «Ah Durendal, come sei chiara e bianca! Quanto risplendi contro il sole e t'infiammi! Chiaro fu il giorno e bello il sole; non v'è armatura che tutta non fiammeggi».
Il macello barbaro diventa un'estetica del colore e della luce.
Combattenti che portano stendardi, gualdrappe colorate, stemmi araldici, orifiammi, che battezzano la spada cui sono fedeli come una compagna erotica e sacra insieme, non sono più assassini violenti.
Sono militari d'Occidente, onorati e prodi, leali e forti.
Sono combattenti che non odiano il nemico.
Che onorano il pagano e il moro che combattono, se lo stimano «bon chevalier».
Soldati che restano umani nel sangue.
Nel romanzo «Charroi de Nimes», composto nel XII secolo, il cavaliere Guillaume (d'Orange) dice al re: «Da prode, con le mie armi, t'ho servito in molte battaglie sul campo. Ho ucciso molti giovani di pregio, sì che il peccato m'è entrato in corpo. Quali che fossero, Dio li aveva fatti: abbia Egli cura delle anime loro, e me perdoni!».
All'inizio nella barbarie, il re o capo forniva a sue spese le armature (costose) ai suoi gorilla, lo dice la parola usata, «adouber», dotare, rivestire.
Col tempo, nella fantasia dei romanzi prima che nella realtà, «adoubement» diverrà la vestizione del cavaliere: un rito sacramentale, che comporta l'entrata in un «ordine», l'ordine della Cavalleria (ve ne saranno a decine, di tali ordini, laici ma nobili e sacri, vere e proprie vie ascetiche e guerriere) e soprattutto, imprime un «carattere», indelebile come quello sacerdotale.
Dà accesso ad un livello spirituale superiore.
Nel «Conte du Graal», a Perceval viene calzato lo sperone destro, gli viene cinta la spada da un altro vecchio cavaliere, il nobile Gournemant.
Che gli dice che con la spada gli aveva donato l'ordine più alto creato da Dio: «l'ordine della Cavalleria, che deve essere esente da ogni villania».
In una delle infinite versioni tedesche del Tristano, il conte Marco «veste» Tristano e gli dice:
«Che la tua nobiltà sia sempre presente ai tuoi occhi; sii modesto e sincero, sii franco e cortese; sii sempre buono verso gli umili e sempre fiero verso i potenti; cura la tua persona ed abbine cura; onora tutte le donne».
Il contrario esatto dei Marines in Iraq, vili e rabbiosi delinquenti.
Il conte Marco continua: «Sii prodigo dei tuoi beni e leale senza derogare mai! Perché, credimi sul mio onore, oro e zibellino non convennero mai con la lancia e lo scudo (del cavaliere) come lealtà e liberalità».
Il cavaliere è «povero» per definizione: non usa le armi per far denaro, non uccide per mestiere.
Sarebbe ignobile villania.
L'economia, cosa da usurai e bottegai, non lo riguarda.
Bisogna riportare per intero quanto insegna a Lancillotto la misteriosa Dama del Lago nel «Lancelot en prose», evidenziandone i passi salienti: «I cavalieri non furono creati alla leggera… ma quando l'invidia e la cupidigia si accrebbero nel mondo, … quando i deboli non riuscirono più a sopportare le vessazioni dei forti, stabilirono sopra di sé dei garanti e dei difensori per assicurare la pace e la giustizia e per porre fine agli oltraggi di cui erano oggetto.
Per questa protezione furono prescelti quelli che, per generale avviso, avevano maggiori qualità: gli alti, i forti, i belli, i leali, i prodi… essi dovettero assumersi un grave fardello di doveri. All'origine dell'ordine fu imposto a chi voleva essere cavaliere e ne otteneva il privilegio per legittima elezione, di essere cortese senza bassezze, buono senza fellonia, pietoso verso i bisognosi, generoso e sempre pronto a soccorrere i deboli… a rendere equo giudizio senza odio, senza debolezza di cuore, per non nuocere alla giustizia facendo trionfare il forte. Un cavaliere non deve, per paura della morte, compiere alcun atto macchiato dal sospetto di vergogna, deve temere l'ignominia più della morte. La missione della cavalleria è inoltre di proteggere la santa Chiesa, perché ad essa è vietato prendere le armi per vendetta e rendere male al male».
E' il programma del soldato cristiano.
Ma a renderlo in qualche modo reale non fu la Chiesa, né tanto meno le prediche dei vescovi.
Ad imporre la Cavalleria furono - non sorprenda - le donne.
Sono loro che rifiutano quei giovani gorilla coperti di maglia di ferro, se non diventano anche «cortesi», capaci di «fin amor», un amore raffinato come oro nel crogiolo.
Sono le donne che si rifiutano a quelli che, magari prestanti, compiono atti senza onore, o sono bassi di spirito.
Mantengono la distanza, insegnano ai guerrieri la distanza erotica, che li nobilita nell'attesa dello «sguardo», della «mano» di lei.
Che li fa dichiarare vassalli della donna.
Da allora la «mulier» diventa «donna», che significa «domina», signora feudale, padrona.
«Colui che ama sa bene obbedire. E fa tosto e volentieri ciò che piace alla sua amata, se ama con piena dedizione», si legge nel «Chevalier de la carrette».
Non c'è nulla di moralistico, in questo.
Lancillotto confessa nella «Quete du Graal»: «Io vivo in peccato mortale a causa di una donna che amo da tutta la mia vita, la regina Ginevra, la sposa di re Artù».
Un amore colpevole deve essere tuttavia nobile, privo di bassezza.
Bello.
Nella «Historia regum Britanniae» questo fenomeno sociale - le donne che si rifiutano agli ignobili, ai rozzi prepotenti armati - è descritto con estrema precisione.
«Le dame cortesi («facetae»: facetus significava civile, di mondo) non degnavano di ricevere l'amore di alcuno se per tre volte non si era cimentato nell'agone. Si serbavano quindi caste le dame, e i cavalieri per amor loro diventavano più nobili».
Avvenne davvero così.
Attraverso i romanzi che le donne divoravano, imposero ai loro uomini un ideale.
Le donne medievali fecero alzare la civiltà di un livello decisivo.
Insegnarono ai giovani tutto, dalle buone maniere all'onore militare.
Insegnarono ad essere occidentali.
E' da quel livello che siamo caduti, come dimostrano i Marines ammazzatori senza vergogna, gli ignobili giovani cialtroni che picchiano i compagni meno «firmati» o violentano in gruppo le compagne, questi ragazzi privi di fortezza e di carattere, mediocremente lussuoriosi e privi di volontà, che ci circondano, per lo più in branco.
Temo che le donne d'oggi abbiano una qualche responsabilità.
Ragazze, cominciate a negarvi ai cialtroni, agli incivili, ai «brutti» senza eleganza che fanno cose brutte, agli ignobili e ai meschini.
Restituiteci voi la civiltà occidentale, i preti non sono più in grado.
Infine e tra parentesi (perché già so che qualcuno dirà: Blondet finisce sempre lì): a questa civiltà, non solo l'Africa e quasi tutta l'Asia sono estranei, ma lo sono gli ebrei.
Lo spergiuro e l'inganno vengono lodati nel loro testo sacro, dove le primogeniture vengono rubate con trucchi assolutamente inestetici.
I nemici vengono sterminati, e odiati e disprezzati per giunta.
Non v'è epica, nè estetica.
Non v'è una briciola di nobiltà.
Il mondo attuale essendo radicalmente rieducato dall'ebraismo, non può stupire che degradi.
La sola etica che viene raccomandata è quella del mercante, a cui pare di essere già troppo generoso se non ruba su bilance truccate, se presta denaro a termini un po' meno che usurari.
Fonti
G. Levi e J. C. Schmitt, «Storia dei giovani», Laterza, 2000, capitolo «Cavalleria e cortesia», di C. Marchello-Nizia.
P. Aries e G. Duby, «La vita privata dall'impero romano all'anno Mille», Laterza, 2001.
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