Ancora sull’eleganza
22 Gennaio 2006
Noi italiani abbiamo un problema.
Un problema di cui non ci rendiamo conto, ma da cui derivano quasi tutti i nostri altri problemi della vita collettiva.
Questo problema si chiama «volgarità».
Basta guardarci.
Siamo volgari nei gusti: pensate al livello di TV che fa «audience» da noi, ai film italiani che fanno cassetta.
Guardate le sfilate celebrato made in Italy: dovrebbero essere la parata dell’eleganza, e invece sfilano donne da postribolo (con tutti quei veli e nudità da casa chiusa anni ‘50) e ragazzotti da patibolo, quel tipo di ragazzi di vita che i nostri grandi sarti (per lo più omosessuali) frequentano negli angiporti della jet society: orecchino, tatuaggi, teste rasate da galeotti.
Potete immaginare che signori e signore indossino quel tipo di vestiti, poniamo, nei ricevimenti «formali», quelli che in cui s’incontrano le classi dirigenti?
Ovviamente no.
Il fatto che questo tipo di moda (o di look) maschile sia adottato con entusiasmo dai nostri figli dovrebbe preoccuparci: orecchino, tatuaggi e teste rasate sono stati per secoli i segni distintivi dei «bravi» di Don Rodrigo, dei galeotti, degli zingari ladri di cavalli, delle ciurme di pirati, «schiuma dei mari».
Le sottoclassi semi-criminali, le meno eleganti della storia.
Non solo siamo volgari: addirittura ne andiamo fieri.
Quando un italiano, tornato dall’estero, ripete che «come si mangia bene da noi non si mangia da nessuna parte», non fa che esprimere la sua preferenza per una cucina di contadini (la nostra) nei confronti di cucine aristocratiche, nate nelle corti di re e imperatori, come la francese, l’austriaca e la cinese.
Non è tutto lì purtroppo.
Siamo volgari - cioè poco esigenti, di facile contentatura con noi stessi e con gli altri - anche negli studi, nella moralità pubblica, nella qualità dei nostri politici, nei rapporti col prossimo.
Persino i nostri buoni sentimenti sono volgari: per esempio «accogliere gli immigrati del Terzo Mondo» significa per noi dargli un piatto di minestra (l’assistenza), non farne dei concittadini, portarli a un livello più alto - più esigente - di civiltà.
Per noi, amare un figlio significa farlo ingrassare e dargli tutto quel che vuole («quello che non ho avuto io»), non farne un cittadino e un uomo responsabile.
Poco esigenti.
Volgari.
Ci sono delitti tipicamente italiani che nascono dalla pura volgarità.
Casi estremi di maleducazione, che diventano sopraffazione e perfino omicidio. Lanciare sassi dal cavalcavia è, ancor prima che un atto criminale, un atto ignobile.
Da vergognarsi.
E così la violenza degli stadi, il vandalismo diffuso, la slealtà e l’arroganza dei politici («lei non sa chi sono io»), l’onnipresente tendenza a «passare avanti», nel senso di accaparrarsi dei vantaggi a svantaggio del prossimo onesto o più educato.
Perché non ci vergognamo?
Non è tutta colpa nostra.
Il fatto è che in Italia, da secoli, per motivi storici, è mancata salvo rare eccezioni, la nobiltà.
Non pensate ai nobili d’oggi, ultimi eredi di glorie di cui sono indegni, che riempiono i rotocalchi con le storie dei loro amori.
Pensate alla nobiltà dell’età cristiana, il Medio Evo.
I nobili erano i cavalieri.
Aderivano al codice d’onore della Cavalleria, creato per loro dalla Chiesa: siccome erano forti, armati e violenti, la Chiesa ingiunse loro di vergognarsi di opprimere il povero e la vedova.
«Valentia e cortesia» era il motto dei cavalieri: la «valentia» (il coraggio) senza «cortesia» (la gentilezza) li avrebbe lasciati quel che erano in origine, energumeni barbari e assassini.
La nobiltà è, nella società, quella classe «che dà l’esempio».
Anche in una società democratica dev’esserci sempre un ceto che si fa imitare per le sue virtù, ossia per le abitudini superiori che coltiva.
All’inizio, i nobili davano l’esempio in guerra.
L’eleganza nel vestire nacque proprio dall’attitudine di sprezzo elegante di fronte alla morte: i cavalieri andavano in battaglia vestiti di rosso e d’oro, come a una festa. Che eleganza!
Ciò richiedeva una disciplina.
Il nobile era colui che moriva per la parola data.
Era questo il suo «onore»; infatti si diceva: «noblesse oblie», la nobiltà «obbliga».
Disse Goethe: «vivere a proprio gusto è da plebeo; il nobile aspira a un ordine e alla legge».
Paradossalmente, ma per secoli, è stato proprio così: la nobiltà si definiva per l’esigenza che si auto-imponeva, per gli obblighi, la disciplina con cui s’addestrava al comando e ad affrontare la morte, non per i diritti di cui godeva.
Quando una società come l’italiana resta per secoli senza veri nobili - e pensate come fu ignobile l’ultimo dei Savoia, scappato dall’Italia abbandonando gli italiani al nemico, l’8 settembre del ’43 - vuol dire che non ha esempi superiori (esigenti) da imitare.
Finisce che imita gli esempi facili e vistosi: come capita agli italiani d’oggi,
che spesso imitano i malavitosi, i violenti e gli arroganti, coloro che hanno la forza ma non la gentilezza.
L’intera società diventa sempre più volgare e «furba».
Naturalmente i nobili avevano i difetti tipici della loro classe: l’orgoglio e la superbia.
Se riuscivano a liberarsene, diventavano più facilmente santi (come san Luigi re di Francia, o la regina Isabella di Spagna), perché fra nobiltà e santità il passo è breve: il detto cristiano «vita est militia», la vita è servizio militare (cavalleresco, fondato sull’onore), li trovava già preparati.
Del resto, i Vangeli sottolineano che Gesù era aristocratico, della casa di Davide, erede di re.
E che Gesù loda i gesti nobili: come quello del centurione, uomo di comando, e «perciò» anche di obbedienza.
E rimprovera le ignobiltà, le meschinità, le piccolezze d’animo, anche nei suoi apostoli: «chi vuol essere il primo, serva», ecco un motto nobiliare.
I soli nobili che l’Italia ha avuto sono i santi.
Hanno dato esempi eccome.
Fondarono ordini religiosi, che si riempirono di loro imitatori.
Ma i santi religiosi danno esempi religiosi.
Il che è essenziale, ma non basta a creare una società.
Occorrono esempi di nobiltà «civile».
Capi che non scappano per primi lasciando i loro soldati alla mercé del nemico, politici che si vergognino di essere sleali verso gli elettori e di rimangiarsi gli «impegni» assunti, la mancanza di parola e d’onore; giudici e potenti che si sforzino ogni giorno d’essere migliori, più educati.
Che restino leali alle leggi anche contro il loro interesse personale, perché la loro carica ve li «obbliga».
Essere nobili, eleganti nella vita, mai contentarsi di quello che già si è, ma «educarsi» a migliorare, disciplinati e rigorosi nel pensiero e nell’azione sì da costituire un esempio civile, può essere una forma nuova di apostolato cristiano.
Una forma di carità alta.
E forse, oggi, assai urgente.
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