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Ucraina: un’altra cosa che non ci hanno detto
11 Marzo 2014
Ecco un’altra verità taciuta: è in questa mappa. Il Pil pro capite della popolazione ucraina è meno della metà di quello della Russia (15.738 dollari annui contro 6.651); persino quello del Kazakhstan è quasi doppio di quello ucraino.
Come mai questo disastro economico? Essenzialmente, perché l’Ucraina, sperando nell’integrazione all’Occidente, ha eseguito fedelmente gli ordini del Fondo Monetario e ne ha applicato le ben note «ricette di risanamento»: eliminazione di ogni dazio (ossia protezione) per la sua economia, privatizzazioni in massa, svendita del patrimonio pubblico, chiusura di industrie «inefficienti», tagli dello Stato sociale (chi entra in ospedale si deve comprare farmaci, siringhe, bende) e dei salari e delle pensioni, austerità, con il conseguente arricchimento di oligarchi che poi mettono i soldi rubati a Londra e New York, l’odiosa e scandalosa disparità sociale, e la corruzione dei politici arraffoni che dalla svendita dei beni pubblici hanno estratto le loro tangenti... perché democrazia è inseparabile dalla corruzione politica, come sappiamo ben noi italiani. Contrariamente alla propaganda, Yanukovich non era affatto un filo-sovietico nostalgico del collettivismo; al contrario, lui e prima di lui la bionda Timoshenko sono stati allievi-modello del Fondo Monetario, e della UE, eseguendone le direttive. La stessa devastazione è stata operata in Russia dalla cosca Eltsin e dai suoi consiglieri della Scuola di Chicago. Putin ha raddrizzato la situazione, rallentato le privatizzazioni, recuperato i cespiti strategici nazionali rubati (e mettendo in galera Khodorkovski). Ci sono certo inefficienze nel sistema russo, e in quello kazako; ma alla popolazione è stato risparmiato l’abisso di miseria che rivela la cifra del Pil ucraino pro-capite. Quello che Yanukovich stava per firmare co la UE era un trattato di libero scambio totale, che avrebbe eliminato le protezioni su quel che resta della povera industria ucraina già devastata dalle privatizzazioni del 1990 e seguenti: lo svela un documento di 1200 pagine dal titolo orwelliano eurocratico: Deep and Comprehensive Free Trade Agreement (DCFTA), il cui primo capitolo annuncia: «LA massima parte delle tariffe doganali saranno eliminate appena l’accordo entra in vigore – L’Ucraina e l’Unione Europea elimineranno rispettivamente il 99,1% e il 98,1% delle tariffe». Significava chiusura di fabbriche e licenziamenti in massa, mentre il Paese sarebbe stato invaso di merci estere. Per di più, c’erano gli incalcolabili costi dello sforzo di conformare la propria legislazione alle 20 mila norme europee (normative tecniche, direttive ambientali eccetera), valutabili in decine di miliardi di euro. E, come non bastasse, il trattato comportava una clausola di armonizzazione tra EU ed Ucraina nella «sicurezza» (leggi: preparazione per l’integrazione nella NATO) in base a cui il Paese, che attualmente destina alla difesa lo 1,1% del Pil, avrebbe dovuto alzarla ali livello dei Paesi membri della UE, oltre il 2%: più spese militari, meno disponibilità per le spese interne. A guadagnarci erano più Northrop Grumman e Lockheed che la gente ucraina. A questo punto il Governo Yanukovich deve aver finalmente intuito che l’Europa non era il paradiso promesso. Bisogna dire che le speranze che facevano balenare i politici europei erano straordinarie: in un incontro a Yalta il 20 settembre 2013, il Ministro svedese Carl Bildt aveva detto agli ucraini che, se avessero aderito all’Unione doganale con Mosca, il Pil ucraino sarebbe sprofondato del 40%, mentre con l’adesione alla UE, Bildt prometteva un aumento del Pil del 12%: tassi di crescita da far invidia alla Cina. Menzogne sfrontate naturalmente, e il Governo Yanukovich ha cominciato a capirlo. Il suo viceministro Yuri Boyko, invitato dagli occidentali a chiedere il soccorso finanziario del FMI un’altra volta per i costi dell’integrazione economica con la UE, ha dichiarato: «Non contiamo su un aiuto del FMI perché la sua ultima offerta esigeva un rincaro delle tariffe dell’elettricità per le famiglie del 40%». Un rincaro del 40% della luce, ad una popolazione che produce e guadagna per 6500 dollari l’anno a testa. Il macello sociale, con in cambio la vaga prospettiva di «investimenti esteri» che nella grande recessione europea diventavano sempre più ipotetici. Non si deve dimenticare che già nel 2011 il FMI ha sospeso una linea di credito di 12 miliardi, perché il Governo ucraino si era rifiutato di mettere fine ai sussidi che consentono di fornire il gas alle case ucraine a prezzi politici. A questo punto l’offerta di Putin, di 15 miliardi di dollari per entrare nella sua Unione Eurasiatica (un mercato comune), è apparso il male minore. È infatti interessante vedere com’è andata ai Paesi dell’Est che si sono fatti inglobare dalla UE, entrando nel «mercato» libero. Certo, ci sono perdenti e vincenti in ogni nazione. Ma per esempio: Lettonia: ha perso le sue industrie d’auto ed elettroniche. Lituania: per l’introduzione delle quote latte, ha dovuto eliminare il 75% del bestiame che allevava. Su ordine della UE, il piccolo Paese ha dovuto chiudere la sua centrale nucleare di Ignalina, e di conseguenza diventare un importatore di elettricità (inoltre, deve procurarsi un miliardo di euro per smantellare la centrale). Estonia: ha eliminato l’80% del suo capitale in bestiame, e la sua agricoltura è stata riorientata nella produzione di biocarburanti. Su richiesta UE, ha tagliato la sua produzione di elettricità di due terzi (da 19 a 7 miliardi di kWh). Aveva un settore di macchine utensili: non esiste più. La fabbrica Volta di Tallin, che produceva materiali per l’industria energetica, è stata chiusa. Nel 2007 la UE ha multato tutti e tre i Paesi baltici perché tentavano di costituirsi delle riserve alimentari al fine di far calare i prezzi: violazione del «mercato». L’industria della pesca dei baltici è stata parimenti stroncata dalle «quote» e dalle «norme di solidarietà» (sic) nell’uso delle risorse marine europee. Ungheria: ha dovuto liquidare l’industria di bus e autocarri Ikarus, che negli anni migliori produceva 14 mila veicoli l’anno. Polonia: presunta storia di successo dell’integrazione nella UE. Un successo basato sui bassi salari e una fiscalità «business friendly», amica degli investitori esteri. Nel successo polacco, c’è che ha vinto e chi ha perso. Hanno perso i 300 mila minatori licenziati appena dopo l’entrata nell’Europa, perché le miniere di carbone sono state chiuse e il 75% dei minatori non ha più lavoro. I grandi cantieri navali di Gdansk (Danzica) che hanno costruito grandi navi per il mercato mondiale negli anni ’60-70, sono divisi in due società, che vanno male. Decine di cantieri più piccoli hanno parimenti chiuso. Quando si è unita alla UE, la Polonia aveva un debito estero di 99 miliardi di dollari; nel 2013, il debito estero era salito a 360 miliardi. Chiamatelo successo… E a proposito di cantieristica: Grecia: aveva una celebre industria navale. Oggi praticamente non esiste più: gli armatori greci, da quando il Paese è entrato nell’euro, hanno comprato all’estero 770 navi; l’esigenza di adeguarsi alle normative eurocratiche ha fatto salire i costi in modo proibitivo. La produzione di cotone è dimezzata, sempre a causa delle normative europee, e causa delle «quote» di solidarietà (sic) imposte da Bruxelles, il settore vitivinicolo è stato duramente colpito. Sempre più gli analisti concordano nel ritenere che l’allineamento sulle normative e direttive europee è stato il fattore preliminare della catastrofe ellenica. Spuntano gli oligarchi
Rinat Akhmetov
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Il Governo auto-proclamato di Kiev ha nominato due oligarchi come governatori delle regioni di Dnepropetrovsk e del Donetz: Igor Kolomoisky (Privat Bank) e Sergei Taruta; e i due hanno ricevuto l’appoggio di un terzo oligarca, il più ricco di tutti, Rinat Akhmetov. I primi due sono legati al «sistema Timoscenko», è gente di pessima reputazione, con collegamenti alla malavita. Ciò permette di capire meglio uno dei moventi del putsch: alcuni oligarchi si sono vendicati del clan Yanukovich.
Igor Kolomoisky
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Igor Kolomoisky è presidente del Congresso Ebraico ucraino, e grande finanziatore di organizzazioni ebraiche; la sua elevazione al potere, da parte di un Governo in cui sono ampiamente rappresentati partiti e formazioni «antisemiti» come Svoboda, intende forse rassicurare la comunità giudaica internazionale. Ma l’ambasciatore israeliano a Kiev, Reuve Din El, ha aperto un contatto permanente con Dmitri Yarosh, capo delle formazioni militari Pravi Sektor, il quale ha assicurato l’ambasciatore che «prenderà tutte le misure» per combattere «l’antisemitismo». Ciò è ritenuto un colpo verso il partito Svoboda, che ha espresso posizioni «antisemite». (Israeli envoy opens 'hotline' with Ukrainian ultra-nationalist) D’altra parte, gli oligarchi dispongono di proprie forze di piazza nelle tifoserie calcistiche violente, che loro controllano. Il candidato dei russofoni nella regione di Donetsk, Pavel Gubarev, che voleva opporsi all’oligarca Taruta scelto da Kiev, è stato sequestrato, portato a Kiev e condannato dalla procura (che è del partito Svoboda) a due mesi di prigione. Ma attivisti russofoni di Donetsk hanno impedito il rapimento di altri esponenti della loro parte, impadronendosi del pullman in cui venivano trasportati. Va segnalato che l’oligarca Taruta, forse per ingraziarsi la componente russofona, ha tenuto un durissimo discorso contro il Pravi Sektor.
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